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Il mistero della musica in un incipit di Beethoven. Muti torna al Ravenna Festival

Stefano Picciano

Guardare il direttore d'orchestra sul podio significa ogni volta comprendere che l’interpretazione è approssimazione a una visione ideale, che l’esecutore è come un viandante “alla continua ricerca di una irraggiungibile perfezione”, teso a una bellezza intensamente presente e al contempo mai pienamente raggiunta. A tu per tu con il maestro

E’ forse il frammento più celebre di tutta la storia della musica. Otto note, un gesto musicale che irrompe nel silenzio senza alcuna introduzione e, aprendo ex abrupto la rivoluzionaria partitura, porta d’un tratto l’ascoltatore nel cuore della poetica beethoveniana. Semplici e immediate come le idee più geniali, queste cinque battute d’inesorabile drammaticità (le famosissime tre note pulsanti che cadono su una quarta nota tenuta) risuonano ogni volta come qualcosa di estremamente conosciuto e allo stesso tempo mai udito prima. Quando Riccardo Muti, con un gesto carico del denso silenzio che riempie gli istanti precedenti l’esecuzione, ha ridato vita alle prime note della celeberrima partitura è stato naturale confrontarle con tante altre letture dell’incisivo, inquieto incipit che apre la Quinta Sinfonia.

Il gesto risoluto di Toscanini, quello intenso e fuggevole di Karajan, quello più lento e drammatico di Celibidache: stesse note, certo, ma tale è la varietà di timbri, di dinamiche, di carattere che questa cellula ritmica, animando quel piccolo spazio di silenzio, finisce per essere ogni volta qualcosa di profondamente diverso. Del resto, come notò Felix Mendelssohn – in programma nella stessa serata con la sua Quarta Sinfonia, concepita durante un viaggio in Italia – “persino la più piccola frase musicale può catturarci e portarci via dalle città, dai paesi, dal mondo e da tutte le cose terrene: è un dono di Dio”. Tanto grande è il mistero della musica – arte che riaccade solo nell’hic et nunc di ogni esecuzione – che ogni frase è sempre qualcosa non appena di inedito, ma persino di irripetibile. Quei segni altrimenti silenti sulla carta prendono vita nella libertà dell’interprete che, negli ovvi limiti del rispetto di ciò che è scritto, è vastissima: il suo gesto è qualcosa di simile alla sorgente di un fiume che, pur percorrendo il proprio itinerario entro argini ben definiti, può far scorrere le sue acque con infinite movenze.

E’ affascinante spingere l’immaginazione a quel 22 dicembre 1808 in cui – nel concitato clima che caratterizzò una serata decisiva per la storia della musica – Beethoven presentava la sua Quinta Sinfonia per la prima volta, è suggestivo provare a trarre dal manoscritto indicazioni su come egli concepisse questo iconico motto iniziale: era “l’epifania di una nuova epoca nella storia della musica”, con una partitura che Goethe definì “sorprendente e grandiosa”, che Edward Morgan Forster descrisse come “il più sublime frastuono che sia mai entrato nell’orecchio di un uomo”, che a Louis Spohr parve “una babele priva di senso”. Guardare Muti sul podio significa ogni volta comprendere che l’interpretazione è approssimazione a una visione ideale, che l’esecutore è come un viandante “alla continua ricerca di una irraggiungibile perfezione”, teso a una bellezza intensamente presente e al contempo mai pienamente raggiunta.

Un prezioso dialogo a tu per tu con il maestro, nel suo camerino, è un’inaspettata sorpresa durante l’intervallo: “In questo incipit – mi dice – abbiamo uno straordinario esempio di Beethoven come architetto della musica: quattro sole note costruiscono la struttura dell’intera sinfonia, un vero e proprio castello musicale”. Parliamo del valore dell’arte e di come la bellezza, non di rado trattata alla stregua di qualcosa di secondario, sia invece un fattore decisivo per la vita dell’uomo. Il maestro parla con l’ardore di chi ha un tesoro che non intende tenere per sé, nel suo sguardo traspare il desiderio di comunicare ciò che è essenziale. Poi l’orchestra rientra sul palco, in platea cala il silenzio, questo nuovo evento di Ravenna Festival culmina nel capolavoro di Beethoven. Muti sale sul podio e, dinanzi ai suoi giovani dell’Orchestra Cherubini, dà l’abbrivio a quell’incipit misterioso: una musica che, nella sua vertiginosa mutevolezza, nella sua nobile drammaticità, nel suo anelito ad esprimere ciò che è inesprimibile, continua a meravigliare gli ascoltatori di ogni tempo