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sul palco

Bob Dylan per fortuna non vuole star fermo, e il pubblico ringrazia

Stefano Pistolini

L'Outlaw Tour con Willie Nelson e il “Rough and roudy ways”, fra falsetti strappacuore e brevi note di assolo al pianoforte, che hanno la potenza di sciogliere un ghiacciaio

La scena è più o meno questa: Bob Dylan suona un pianoforte verticale in piedi, come gli va di fare ogni tanto, e il suono dello strumento è tipicamente honky-tonk. La sua band, due chitarristi, un bassista e il batterista, gli sono tutti attorno con aria attenta, concentrata e discretamente preoccupata. Stanno cercando di intercettare le intenzioni di Bob nella versione che ha voglia di presentare stasera di “Simple Twist of Fate”, uno dei suoi capolavori del periodo di mezzo, apparso la prima volta su “Blood on the Tracks” nel 1975. Nell’abituale rielaborazione umorale delle proprie canzoni, Dylan adesso ha improntato quest’ultima rilettura del pezzo in una cronaca romantica in buona parte semi-recitata, ma punteggiata da falsetti strappacuore e inframmezzata da brevi note di assolo al pianoforte, che pure hanno la potenza di sciogliere un ghiacciaio.

Ma apriamo una parentesi sulla canzone, nel caso non la conosceste: l’intreccio elaborato da Dylan merita un posto nella narrativa classica americana del Novecento, per come ne contiene e sintetizza alcuni elementi indispensabili e stereotipati del genere: lui è seduto con lei su una panchina del parco quando sente che è scoccata la scintilla, anche se da subito percepisce che le cose non riusciranno ad andare per il verso giusto. Però ormai la storia è cominciata: camminano lungo il canale – dev’essere una cittadina del sud, o noi ce la immaginiamo così – entrano in un hotel qualsiasi con l’insegna al neon che lampeggia. Fa un caldo soffocante e da qualche parte suona un sassofono. Quando però la luce del giorno penetra dalle persiane, lei se n’è andata e lui sente dentro un vuoto enorme. La va a cercare giù, dalle parti del porto e spera che stavolta la sorte l’aiuti e riesca a ritrovarla, perché alla fine è tutta questione di fortuna. Perfezione, sublimata da quell’accordo minore sul quale Bob dispiega la disperazione del suo personaggio o di se stesso, nel caso il tipo della panchina fosse lui.

“Simple Twist of Fate” è uno dei momenti cult degli show che Dylan sta tenendo in questi ultimi mesi, nei quali alterna la propria partecipazione addirittura in due contesti diversi: uno è la nuova edizione dell’Outlaw Tour, ideato e promosso da Willie Nelson, un concentrato di spiritualità indomita americana (fa strano scrivere cose del genere di questi tempi), nel quale Bob è in scaletta come set intermedio tra la country star Billy Strings, che offre uno show anfetaminico ed elettrizzante, e lo spettacolo di mistica della frontiera immaginaria incarnata da Willie, il fuorilegge per antonomasia. Quando tocca a Dylan e la sua band il tempo, e si direbbe anche il ritmo, si sospendono: con lui ci sono Anton Fig alla batteria (il sudafricano che sedeva dietro i tamburi del David Letterman Show), Bob Britt e Doug Lancio alle chitarre e il bassista Tony Garnier, che è con lui dal 1989. L’84enne Dylan vagola per il palco nel breve spazio tra il pianoforte, il seggiolino che talvolta ignora e il microfono centrale.

La performance sta nelle circonvoluzioni con le quali attraversa la scaletta della serata, effettuando un ricamo interpretativo che non è ornamentale o solo estetico, ma sostanziale, su ciascuno dei pezzi che seleziona – si tratti di sconosciuti ripescaggi dal repertorio o di rivisitazioni di superclassici ( “It’s All Over Now, Baby Blue” e una “Desolation Row” in versione accorciata di qualche strofa, perché lui può fare anche questo). Il tutto stavolta ispirato a un principio di spoliazione, ossificazione dei brani, come se una volta scritti e declinati, adesso Dylan avesse voglia di spremerli tenendo solo il succo che si appiccica a una voce che ora ha smesso d’essere il rantolo ininterrotto e incomprensibile a cui si era (volontariamente) ridotta qualche tempo fa e invece ha ritrovato chiarezza e assoluta intellegibilità – un morbido flow d’ugola, diremmo, se si trattasse di un rapper. Poi c’è l’altro tour di Bob, quello in solitudine, quello che all’ingresso dei concerti chiede agli spettatori di consegnare i cellulari, perché lui non ne può più di foto, video, selfies, dirette Facetime e tutto quelle macchinette puntate su di lui, che l’indispettiscono, lo fanno sentire ciò che non ha voglia di essere. Il titolo della tournée è “Rough and Rowdy Ways” , ovvero “modi duri e turbolenti”, qualcosa che sembra appartenere a un personaggio di Steinbeck, nella descrizione iniziale che ne potrebbe fare l’autore. E così il neverending tour dylaniano continua, dopo che il film con Timothée Chalamet ha rilanciato le sue azioni e allargato la base di pubblico.

C’è sempre gente vecchia e nuova che ha voglia di sentirlo suonare e lui non si risparmia. Batte soprattutto la provincia americana, suonando umilmente in posti dai nomi improbabili, cantando ciò che lo stuzzica quella notte, si tratti di uno standard come “Route 66” o di chiudere la serata omaggiando lo scomparso Shane MacGowan dei Pogues – uno che gli andava a genio – intonando la struggente “A Rainy Night in Soho”. La sensazione è che Bob da un lato non sappia trovare il senso di stare fermo e dall’altro che il pubblico senta più forte il desiderio di andarlo a vedere, finché è in tempo. Una comunione a due sensi: pensare la musica senza di lui è un’idea che fa stare troppo male. 
 

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