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il libro
La critica musicale oggi e un secolo fa. Che spasso le “Invettive” di Slonimsky
Adelphi ripubblica il Lexicon of Musical Invective: così la critica in ambito musicale è passata dalle stroncature (anche feroci) a fare da semplice eco dell'industria
Pochi sanno che cosa sia stata, in passato, la critica musicale. La penna si faceva spada capace di smantellare autori e opere (spesso in maniera ingiusta) senza alcuna pietà. L’invettiva musicale, coeva all’arte stessa, trasformava le recensioni in vere e proprie esecuzioni pubbliche: non semplici pettegolezzi, bensì satira, atto di ribellione, autentico commento culturale, che amplificava i dissidi mediante ritmo e prosa. Nel 1953 Nicolas Slonimsky, musicologo e scrittore, diede alle stampe il Lexicon of Musical Invective, oggi ripubblicato da Adelphi (a cura di Carlo Boccadoro) con il titolo Invettive musicali: un’antologia delle critiche più feroci, raccolte in una sorta di “storia trasversale della musica e dei musicisti” – o, più efficacemente, un’antistoria – da Beethoven in avanti. Lavoro certosino di ricerca, selezione e riorganizzazione, dal tratto esilarante, capace di lasciare senza parole per i personaggi coinvolti e per il gergo: “barbaro, caos, confusione, orribile, ululante, immorale, mostruoso”. Non mancano gli animali: “ameba, babbuino, scarabeo, tigre del Bengala, toro, vitello”.
“La Seconda Sinfonia di Beethoven mostruosità madornale, un dragone ferito che si contorce in maniera spaventosa ma rifiuta di morire”; la Prima di Brahms, un esempio “rumoroso, sgraziato, confuso e sgradevole di arida pedanteria”. E, a proposito di Pelléas et Mélisande di Debussy, si criticano le successioni di triadi che producono quinte e ottave parallele. Superata l’ilarità del testo, Slonimsky apre a riflessioni ancora oggi urgenti. La prima è la strutturale tendenza a “detestare quelle cose che non ci risultano familiari”, come osservava Samuel Butler, atteggiamento di chiusura accompagnato da “scene di pianto” per la melodia perduta o per la dissonanza pervasiva. Limite culturale che, anche oggi, impedisce a tanta musica nuova di essere inserita nelle stagioni concertistiche perché risulterebbe indigesta a pubblico e critica.
Il mestiere del critico, poi, è profondamente cambiato. Qui Slonimsky si dimostra profetico: esiste una critica piatta, quasi silente, intrecciata con l’industria musicale e spesso asservita agli uffici stampa e a meccanismi puramente commerciali. Ma c’è anche un problema di natura musicale che rende oggi inusuale l’arte dell’invettiva. La vita musicale è anonima: scarseggiano “movimenti compositivi” e scuole di pensiero contrapposte, con i relativi grandi nomi su cui scatenare la satira. Contro chi e che cosa inveire? Forse contro qualche interprete, ma anche questo trova scarso spazio sui giornali. L’ultimo gigante dell’arte dell’invettiva è stato Paolo Isotta. A pochi anni dalla sua morte, egli resta il critico dotato di un’erudizione sconfinata, tagliente e capace di iperboli sorrette da un impianto culturale che trascende la musica. Fece epoca il suo commento, nel 2013, sul direttore Daniel Harding – e, indirettamente, su Claudio Abbado – dopo un concerto della Filarmonica della Scala: “Daniel Harding ha una precisa tecnica direttoriale, a differenza del celebre suo mentore, non Simon Rattle, dico, ma Claudio Abbado, onde è un vero direttore, magari un cattivo direttore, ma un vero direttore.” Apriti cielo! Il sovrintendente di allora, Stéphane Lissner, lo dichiarò “persona non gradita”. Non meno duro fu il suo attacco alla serie tv La compagnia del Cigno, ambientata tra le aule del Conservatorio di Milano, definita “un sottoprodotto di Un posto al sole”, per poi passare a descrivere la penosa situazione dei conservatori italiani.
Insomma, perché l’invettiva sia seria e non mero insulto, occorrono cultura sterminata, profonda cognizione di ciò che si ascolta e, soprattutto, libertà di pensiero. In fondo, “il critico – diceva Léon Bloy – è colui che ostinatamente cerca un letto in un domicilio altrui”. Se non ci dorme bene, son dolori.