Un frame del film Do it yourself

musica sugli schermi

Il documentario sugli Uzeda, underground per preservare la sacralità del rock

Stefano Pistolini

Do It Yourself di Maria Arena racconta la storia della band catanese attiva dal 1987 e si fa manifesto di una musica vissuta come vocazione, lontana dal mercato e fedele a un’etica rara: suonare per necessità, non per mestiere

Un’interessante lezione su come possa essere vissuta la musica ancora oggi arriva dal documentario firmato dalla filmaker Maria Arena, “Do It Yourself”, che ricostruisce con una straordinaria messe di materiali inediti la storia degli Uzeda, band di Catania di noise rock attiva fin dal 1987 e ancora adesso incarnazione di un’ipotesi eccezionale, in particolare a confronto con le regole dell’ultimo mercato: vocazione anziché strategia, coerenza e consapevolezza invece di compromessi, aggiustamenti, revisioni. Il gruppo, che prende il nome da una delle antiche porte d’ingresso alla città d’origine, ha vissuto tutta la sua storia senza esitazioni o turbamenti quanto al senso del proprio comune progetto: compenetrare il gesto artistico e creativo nel vissuto quotidiano, rafforzarlo attraverso le relazioni con coloro che condividono la medesima visione, superare di slancio la duplice questione della celebrità e della ricchezza che nel presente dominano come un comandamento universale lo show business, senza fare eccezione allorché si parli di musica.

 

 

Per gli Uzeda si suona perché è impossibile pensare di non farlo, è una necessità che canalizza la quasi totalità delle proprie energie e la voglia di stare al mondo: il resto è accessorio, ciò che conta è il gruppo, la comunione d’intenti, la ricerca, la trasmissione del messaggio. Un discorso che può essere tacciato di elitarismo e che spesso finisce circoscritto alla definizione di un circolo sottoculturale, ma che invece contiene qualcosa di cui si sta perdendo il segno: il perché veramente si fa questa cosa, il perché è possibile desiderare di trascorrere un’esistenza scavando nella profondità di un suono, di una chiave espressiva, nel confronto con coloro che percorrono questa strada con te, rispecchiandosi in chi condivide la medesima passione e dunque la capisce. 

Uno degli intervistati di “Do It Yourself” nel pieno del film propone un distinguo importante: lui non si sente più rappresentato, spiega, dall’etichetta “indipendente”, per definire lo stile musicale di cui è esponente. “Indie” ormai è un genere che, raccogliendo alcune chiavi espressive e attitudinali di musicisti estranei alle politiche mercantili delle major di fine Novecento, ha finito per dar vita a un nuovo filone commerciale, regolato da numerosi fattori di riconoscibilità. L’intervistato asserisce che c’è un termine ancora più antico e identitario a cui tornare per dar nome alla propria vocazione: “underground”, parola che negli ultimi tempi ha finito per rivestirsi di una percezione vagamente negativa, limitativa, residuale. Se però si prova a pensare che con quell’aggettivo si può isolare non tanto un suono, quanto uno stile di vita che dà priorità all’espressione del proprio flusso creativo rispetto al conseguimento del successo attraverso la ripetizione di formule consolidate nella banalità, ecco che il pensiero underground riacquista il proprio valore e perfino, in questi tempi di tortuosa disgrazia, la sua nobiltà. 

Uzeda, band amata e stimata più all’estero che in Italia, più conosciuta e valorizzata negli ambienti post-punk americani e tedeschi che nelle rassegne nostrane, è il perfetto compendio del discorso: il chitarrista Agostino Tilotta, il bassista Raffaele Gulisano, il batterista Davide Oliveri e la vocalist Giovanna Cacciola sono quattro artisti che hanno fatto della musica non il proprio veicolo di sostentamento, ma il proprio canale d’espressione. Non a caso presto sono stati riconosciuti da Steve Albini, il produttore americano che di questi ragionamenti è stato il migliore interprete fino alla sua prematura dipartita un anno fa, applicando al proprio lavoro un’etica rivoluzionaria: bassissimi costi, totale libertà creativa per gli artisti con cui ha collaborato, un centro di gravitazione professionale a Chicago nei suoi studi Electrical Audio che hanno rappresentato la matrice esemplare per tanti operatori nel mondo. Dalla collaborazione tra Albini e gli Uzeda sono usciti album indispensabili per capire l’intenzione di un suono al tempo stesso irrefrenabile e rigoroso come quello noise, ma dalle storie personali di Agostino e compagni, nella loro dignità di mantenersi facendo altri mestieri per non intaccare la sacralità e il brivido del gesto musicale, si racconta una storia che contiene spessore, naturalezza e un’avvicinabile normalità che sono materia rarissima nell’epoca dell’imposizione di tante posticce eccezionalità. E la vocazione per un suono come il noise, estremo e al confine con la religiosità, perfino lo snobistico disinteresse per ogni forma di snobismo, restituiscono un sapore artistico dimenticato a quei rituali che per gente come gli Uzeda sono l’abitudine: il ritrovarsi in una cantina a suonare, elaborare, confrontare, fumare, discutere, progettare. Pensateci: è un mondo diverso, lontano, dimenticato, estraneo a cosa è diventata la musica oggi. Ma voi non sentite il profumo, il richiamo, il fascino sexy e intellettuale di quelle cerimonie e di quelle suggestioni?

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