Giorgio Poi e l'arte di andare in pezzi

“Schegge”, la bellezza di esplodere. E di non dover ricomporre nulla. Roma, il mondo, la leggerezza. “È forse il mio disco meno nostalgico. Oggi penso poco al futuro e raramente al passato. Vuol dire che sto vivendo”. Il tour europeo e quello italiano, in partenza

Enrico Cicchetti

La retorica intorno al kintsugi, l’arte giapponese del riparare i cocci con l’oro, ha stancato. C’è bellezza anche nel lasciar andare i pezzi. Una grazia sottile nell’accettarne la dispersione, nel camminarci in mezzo senza cercare per forza di ricomporli. Schegge, il nuovo album di Giorgio Poi, uscito per Bomba Dischi/Sony Music, nasce proprio da qui: da un’esplosione, o meglio, dalla consapevolezza che ogni cosa – la vita, i sentimenti, il tempo – tende naturalmente alla frammentazione. Nove brani come istantanee scomposte, quadri sonori che uniscono melodie limpide e visioni oblique. In Schegge, scritto con la supervisione amichevole di Laurent Brancowitz dei Phoenix, il tempo si piega, il presente prende il posto della nostalgia e il caos non fa più paura: è solo un altro modo di respirare. È il disco di un autore che non rincorre più un senso, ma ascolta la direzione verso cui tutto – inevitabilmente – esplode. “Sembrerebbe un epilogo, ma a pensarci bene non lo è. Piuttosto, è la condizione naturale di ogni cosa esistente, in fuga dal centro della più gigantesca deflagrazione possibile: il Big Bang”, dice Giorgio Poi, che ha imparato a non opporsi al disordine. “Ogni scheggia è legata da un filo invisibile. Per anni ho cercato di tenerle insieme, ma questo sforzo mi irrigidiva. Poi ho capito che bisogna lasciarle andare. E nel farlo, ho trovato una calma nuova. Una leggerezza che prima mi era estranea”.

  
Schegge è figlio di questo presente attraversato senza più rimpianti. Un disco che rinuncia all’illusione di restaurare il passato. “È forse il mio disco meno nostalgico. Penso che romanticizzare ciò che è stato sia un tentativo di ripulirlo. Ed è forse per questo che amiamo così tanto gli artisti morti: perché solo ciò che è vivo ci può ancora deludere. Ma così il ricordo diventa innocuo. Oggi penso poco al futuro e raramente al passato. Vuol dire che, necessariamente, sto vivendo”.

  
Non c’è traccia di cinismo, solo consapevolezza. Di sé, del tempo, del lavoro. Quando molte cose accadono insieme, non resta che lasciarle accadere. “In quella sopraffazione si allenta la presa, e allora ti concentri su te stesso. Cerchi un centro, un passo. Una bellezza, anche nei momenti più complicati”.

 
Paradossalmente, Schegge è nato con facilità. “L’ostacolo non è stato mai la musica. Tutto è venuto in modo fluido. Le canzoni sono cambiate tante volte, certo, ci ho messo e rimesso mano, ma sempre con curiosità, senza fatica. Mi bastava pensare: che bello, sto lavorando a questa canzone”. Anche l’imperfezione, l’errore, diventano parte del percorso. “A volte butti tutto, ma tieni una frase. Una sola, che non sarebbe mai venuta fuori se non avessi fatto tutta quella strada. Che a volte sembra un arabesco, però poi si arriva sempre da A a B”. Come la vita, anche la musica per Giorgio è un esercizio di quotidianità più che una corsa al risultato. “La soddisfazione di aver scritto un brano che ti piace può durare due giorni. Poi devi scriverne un altro. E allora ti accorgi che è il percorso che conta, il come hai costruito le tue giornate”.

 

   
In questo presente pieno, c’è meno spazio per l’altrove. Eppure l’altrove ha fatto parte della sua storia: per diversi anni Giorgio Poi ha vissuto a Londra e a Berlino. Del resto viaggi e distanze sono parte della sua carriera. Non solo Parmigiano e macchinari industriali: anche tra i cantautori, il Made in Italy ha i suoi diamanti. Giorgio Poi, fin dal debutto con Fa niente nel 2017, si è imposto all’estero con un mini-tour europeo dopo l’Eurosonic Festival e aprendo le date dei Phoenix tra Milano, Parigi, Lione e gli Stati Uniti. Nel 2024 ha portato il suo pop d’autore in Asia, con concerti a Pechino, Tianjin e Hong Kong per l’Istituto Italiano di Cultura. Ora anche Schegge è in tour: con date in Europa dal 9 maggio (Berlino, Bruxelles, Parigi, dove ritornerà anche a febbraio 2026, Londra, Lugano), poi nelle principali città d’Italia, a partire dal 24 maggio al MI AMI, e toccando numerosi festival estivi. “Ma oggi non immagino più altri luoghi. Non sogno fughe. Oggi sono qui. E questa è una forma di pace”. 

   
E il presente, per Giorgio, si chiama anche Roma, dove arriva a otto anni e che lascia poco più che adolescente. Ci è tornato adesso, dopo diciassette anni. “Roma ha due facce. Quella del giorno e quella della notte. Per ora ho vissuto molto la prima: facendo lunghe passeggiate in silenzio, con la musica nelle orecchie. Il Lungotevere è casa. Ci sono cresciuto e ci abito ancora vicino. Mi faccio tutta la strada a piedi fino al centro. Poi torno a casa e lavoro fino a notte fonda”.

 
E se la notte è il tempo del lavoro, è anche quello del sogno. C’è una frase di Uomini contro insetti, il singolo che ha anticipato il disco: “Mi aggiro come un ladro per le mie vecchie case”. È un suo sogno ricorrente, dice: ritrovarsi in case proprie ma abitate da altri, sentirsi ospite della propria memoria. “So di essere un intruso. Spesso cambio l’arredamento, sposto delle cose. Poi penso: ‘qua mi beccano, dovrò rimettere tutto com’era’. Oltre alle camminate il momento in cui preferisco ascoltare la musica è il dormiveglia. Spero che qualcuno ascolti il mio disco mentre si sta addormentando, ecco, che lo accompagni nel sogno”.

    
Da poco ha iniziato un percorso di analisi, racconta, e i sogni hanno iniziato a restare, a sedimentarsi. “Scrivere è scavare. E se lo fai anche quando non scrivi, con l’aiuto di un’altra persona, riesci ad andare più a fondo. Io sono una persona composta, formale. Ma quando scrivo musica non c’è niente di tutto questo. Lì sono libero. È tutto flusso, puro istinto”. È forse questa libertà il cuore pulsante del suo lavoro. Uno spazio in cui i paletti della vita — quelli che ci siamo costruiti da soli, o che ci ha lasciato in eredità la famiglia — possono finalmente dissolversi. “C’è sempre una valvola. Un luogo in cui quelle regole non servono più”.

   
Se potesse far ascoltare Schegge a una sola persona, sarebbe a Federico Fellini, dice Giorgio. E il cinema è una possibilità che aleggia, ma è ancora presto per parlarne. “Qualcosa si muove. Ma serve la situazione giusta. L’incontro giusto. E poi oggi le colonne sonore sono poco melodiche, mentre io sono innamorato delle melodie”. Se invece potesse dare un consiglio al sé stesso di un tempo, non direbbe nulla. “Non avrebbe dovuto sapere niente di più di quello che era pronto a capire. Lo lascerei fare. Lo lascerei esplodere”.

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  • Enrico Cicchetti
  • Nato nelle terre di Virgilio in un afoso settembre del 1987, cerca refrigerio in quelle di Enea. Al Foglio dal 2016. Su Twitter è @e_cicchetti