Il confronto

Dal Cinquecento a Disney, sei voci per rendere pop il canto corale 

Mario Leone

I King’s Singers all’Accademia di Santa Cecilia, con uno spettacolo ispirato al Natale che attraversa secoli di musica. Ascoltarli fa capire quanto ancora in Italia ci sia da fare in ambito corale

E’ il 1° maggio 1968 e sei studenti del King’s College di Cambridge salgono sul palco della Queen Elizabeth Hall di Londra. Sono due controtenori, un tenore, due baritoni e un basso, registri vocali che in cinquantasei anni di carriera non sono mai cambiati. Gli interpreti sì – per ovvie ragioni – ma il marchio di fabbrica dei King’s è rimasto immutato. Non basterebbe lo spazio per raccontare l’intero percorso musicale di questa formazione a cappella. Ispirandosi ai gruppi jazz degli anni Trenta, i King’s Singers hanno saputo conquistare il mondo della coralità, imponendosi come punto di riferimento per perfezione artistica, ampiezza di repertorio e precisione interpretativa. Tra i tanti riconoscimenti spiccano due Grammy, vinti nel 2009 e nel 2012, che consacrano una carriera di successi internazionali. L’Accademia nazionale di Santa Cecilia, a Roma, è stata l’ennesima tappa di questo viaggio (e il primo appuntamento del percorso natalizio ceciliano che culminerà con Lo Schiaccianoci di Ciajkovskij, diretto da Gustavo Dudamel). 

 

Sul palco della Sala Sinopoli, Patrick Dunachie ed Edward Button (controtenore 1 e 2), Julian Gregory (tenore), Christopher Bruerton e Nick Ashby (baritono 1 e 2) e Jonathan Howard (basso: il veterano del gruppo, che dopo 14 anni è in procinto di ritirarsi) si presentano con una inebriante freschezza. Aprono il concerto cantando dietro le quinte, escono in processione sorridenti, rilassati mostrando subito uno dei tratti distintivi del gruppo: la capacità di giocare con i suoni, ricreare timbri con le sole armonie, trattare la voce – veramente – come uno strumento musicale e godersi il palco con naturalezza. Cantare, per loro, è un gesto spontaneo, e questa spontaneità li rende irresistibili.

 

Il programma, ispirato al Natale, attraversa secoli di musica – as usual – spaziando da Tomás Luis de Victoria a una selezione di classici Disney, senza dimenticare le celebri melodie della tradizione natalizia. Il repertorio, volutamente tecnico e complesso, mette in luce il talento degli interpreti attraverso arrangiamenti costruiti su intricati incastri armonici, ingressi serrati e tessiture spesso al limite delle possibilità vocali. La cifra stilistica del gruppo è lontana dai cori d’opera o dalle voci liriche. Il loro suono è più “piccolo” e cameristico, calibrato per offrire quell’inconfondibile stile made in England: cristallino, luminoso, fluido, con fraseggi agili e un livello di perfezione che a tratti ricorda la purezza di una registrazione discografica più che di un’esecuzione dal vivo. E la serata è un viaggio a ritroso anche nella storia dell’ensemble, dove non è solo la tecnica a conquistare il pubblico ma anche la capacità di intrattenere con una presenza scenica coinvolgente, trovate simpatiche, introduzioni ai brani e un repertorio che trascende i generi, puntando esclusivamente sulla qualità musicale e sulla raffinatezza dell’esecuzione. La sala è piena, il pubblico molto variegato (tanti giovani) che canticchia alcune melodie medioevali e si esalta per O magnum Mysterium di de Victoria. L’ovazione finale è meritata e ci fa capire quanto ancora in Italia ci sia da fare in ambito corale. Si canta poco, spesso male. Le realtà corali associazionistiche sono presenti ma dovrebbero trovare più spazio e non farsi la guerra.

 

Nella scuola la situazione si fa complessa. Alle elementari si canta con basi registrate – quando si canta – e alle medie emergono le difficoltà del cambio di voce nei ragazzi. Solo alle superiori e nelle università il panorama migliora ma si tratta di realtà piccole, scarsamente supportate da dirigenti scolastici e rettori. Luigi Berlinguer, per anni a capo del “Comitato nazionale per l’apprendimento pratico della musica per tutti gli studenti”, proponeva di creare “un coro in ogni classe”. Sarebbe già un enorme passo avanti avere un coro in ogni scuola o corso di laurea. Non è detto che ciò dia vita a nuovi King’s Singers, ma potrebbe certamente formare persone più consapevoli, felici e capaci di vivere insieme.