La libertà è blues. I Bud Spencer Blues Explosion ci raccontano il loro nuovo disco

"Next Big Niente", l'ultimo album del duo più infiammabile dell'alt rock italiano, è figlio della luce e di una generosa dose di tempo. E del coraggio che serve a prendere tutto e buttarlo via, per ricominciare da capo. "Per fare una cosa vera occorre dirsi la verità"

Enrico Cicchetti

Bud Spencer Blues Explosion è un essere composto di materiale infiammabile. Creatura leggendaria che unisce il Mississippi al Grande Raccordo Anulare, che frulla Ry Cooder e lo fa grunge, che piglia a sberle John Fahey e lo rende punk. Sangue blues e scorza garage rock. “Per noi blues è un sentimento, siamo allenati a convivere con questo approccio”, dicono Adriano Viterbini e Cesare Petulicchio, chitarra e batteria, imperatori di questo portento da palco, non solo nei nomi. A cinque anni dall’ultimo disco, oggi il duo più anarchico e rumoroso d’Italia torna con un nuovo album, “Next Big Niente”. Rimasticato e rimodellato, passando per più stesure e stravolgimenti. Figlio della luce e di una generosa dose di tempo. Come un buon whisky. “Abituati a lavorare nei sotterranei di Roma, stavolta abbiamo affittato per qualche giorno uno stanzone con delle belle finestre e abbiamo suonato, senza pensare ad altro. Poi abbiamo cominciato a distruggere tutto, ripensare, sorprenderci”, dicono. “Né telefono né social, solo noi e gli strumenti: per liberare la testa, partire da una pagina bianca, non pensare a niente”. Un big niente, dal quale esce un disco rapido e esplosivo, come la cascata lisergica che ha in copertina. Dalle “melodie campionate a mano, in modo prodigiosamente disordinato” di Miku五  al lo-fi tropicale di “Come un raggio” (il testo è di Moltheni, al secolo Umberto Maria Giardini). Dal sogno di “Big niente” fino a “Gerrili”, un divertissement, un “giochino” sul riff di “Great balls of fire” di Jerry Lee Lewis. 

 
È un album autoprodotto a 360 gradi. Abbiamo fatto tutto da noi: registrazione, produzione, missaggio. E’ una fotografia della nostra musica e del nostro modo di farla”. Un artigianato musicale rigorosamente analogico. Esempio? “Insynthesi”, singolo che ha anticipato l’album. “La chitarra teisco passa in un mangiacassette e finisce in un plugin, la batteria si scioglie cinetica, tra alta e bassa definizione amabilmente distrutta”, raccontano. 

 
“Facendo da soli abbiamo scoperto la libertà del buttare”, dice Cesare. “Una band indipendente ha un budget di produzione limitato. Quando esci dallo studio sei costretto a dirti che quello hai registrato è ‘figo’. Per forza. Perché in ogni caso hai finito i soldi e altro non si può fare”. Invece l’autoproduzione dà leggerezza e coraggio. Ne serve, a cestinare tutto. “Avevamo molto materiale scritto nel periodo pre Covid. Poi è arrivata la pandemia e con lei anche quel momento in cui tutti dicevano ‘lascio la città’, ‘cambio lavoro’. Noi lo abbiamo fatto davvero: resettare, buttare tutto e ripartire”. È stato liberatorio, dicono, un gigantesco “sticazzi” - perdonerete il francese - che emancipa da noie e paranoie, che permette di fare “quasi come fosse il primo disco: tanto non miriamo alle classifiche, vogliamo fare la nostra musica e osare”. Adriano approva. “Hai presente quando salti la corda? Un esercizio che si ripete sempre. Ecco, ci è venuto naturale svincolarci da quei loop. Avevamo la consapevolezza che quello che avevamo registrato non ci piaceva più e che ci stavamo ripetendo. Per fare una cosa vera occorre dirsi la verità”.

 
Di “Stranidei”, l’altro singolo uscito già a maggio scorso, dicono che si sono “divertiti a dipingere” una “specie di sfasato blues dentro una discoteca abbandonata”. E a Cesare fa strano che tutti gli dicano che quella libertà e naturalezza, quel divertirsi suonando, nel nuovo disco si sentono eccome. “La musica – aggiunge Adriano – fa uscire lati di te che non avresti confessato a nessuno. È catartica, medicamentosa, e ha l’aspetto della sfida, del perfezionarsi. E’ un artigianato dell’anima, continui a cesellare cose che ti fanno stare bene. Se non ti diverti ha poco senso. Se c’è solo mestiere è meglio che lasci perdere”.

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  • Enrico Cicchetti
  • Nato nelle terre di Virgilio in un afoso settembre del 1987, cerca refrigerio in quelle di Enea. Al Foglio dal 2016. Su Twitter è @e_cicchetti