Roger Waters, Nick Mason, Syd Barrett, Richard Wright: la prima formazione dei Pink Floyd (Getty) 

Un genio, una chitarra, tanta droga

Syd Barrett, il poeta maledetto che inventò i Pink Floyd

Non regge il peso del successo, torna in campagna dalla madre. Anni dopo compare in studio di registrazione: i vecchi compagni non lo riconoscono

Vittorio Bongiorno

Suonava rock lisergico e cantava i personaggi dell’Inghilterra rurale. Il primo disco con la band, poi due gioielli da solista, prima che la sua fragile mente cedesse. Ecco il nuovo documentario

Io odio i Pink Floyd, li ho sempre odiati. Al liceo il mio acerrimo nemico tifava per David Gilmour, il biondo e carismatico chitarrista che nel gruppo aveva preso il posto di Syd Barrett, il fondatore della band impazzito e buttato fuori nel 1968. Da decenni nessuno si ricordava più di lui, totalmente dimenticato. Per questo non potevo che solidarizzare con Johnny Rotten, l’allora cantante dei Sex Pistols e portavoce del movimento punk, che andava in giro proprio con la t-shirt “I hate Pink Floyd”. Senza Syd Barrett la loro musica si era trasformata in un noiosissimo e interminabile lamento, testi sussurrati in coro negli stadi davanti a una pioggia di accendini. Invece Roger Keith Barrett, detto Syd, nato a Cambridge il 6 gennaio 1946, la mente geniale che aveva creato quel suono mai sentito non solo era stato sostituito, ma persino dimenticato dai suoi amici di infanzia. Senza contare che la biondina per cui avevo perso la testa a scuola stava col mio acerrimo nemico tifoso di Gilmour: il mio odio per i Pink Floyd sarebbe stato totale e duraturo nel tempo, come pure l’amore per Syd, mio eroe fragile e sballato, che dopo aver lasciato il gruppo ed essere impazzito aveva inciso ben due dischi, bellissimi e strazianti, e poi era tornato a casa della madre ed era uscito dal mondo, definitivamente.

   

“Have You Got It Yet? The Story of Syd Barrett and Pink Floyd”, di Roddy Bogawa e Storm Thorgerson, è ancora inedito in Italia

  
La storia del musicista che ha inventato il colore e la libertà psichedelica degli anni 60 è raccontata nel documentario “Have You Got It Yet? The Story of Syd Barrett and Pink Floyd” di Roddy Bogawa e Storm Thorgerson, uscito da poco in Inghilterra ma ancora inedito in Italia. Il primo è un cineasta newyorkese classe ’62 che si è formato come fotografo e autore di videoclip musicali; il secondo è il designer britannico nato nel ’44 e morto nel 2013 proprio durante la lavorazione del film, il geniale creatore, nel 1968, dello studio Hipgnosis (responsabile di tutte le più importanti e iconiche copertine del rock, dai Pink Floyd ai Led Zeppelin, dai Genesis a Peter Gabriel). Bogawa mi racconta dalla sua casa di New York dell’amore sconfinato per il nostro comune mito romantico, una specie di Rimbaud del rock: in pochi anni proprio come il poète maudit anche lui ha scritto tutte le sue canzoni migliori, per poi lasciarsi andare alla deriva come un battello ebbro: “Syd si trovava davvero nell’epicentro di un momento che probabilmente non si ripeterà mai più. Non riesco a immaginare come fosse la ‘Swinging London’ negli anni 60, piena di divertimento e creatività. Una storia emblematica comune a molti musicisti che trovano uno sbocco creativo per le proprie emozioni e pensieri e poi, dopo il successo, vengono messi sotto pressione e devono affrontare le scelte e le conseguenze di ciò che hanno raggiunto. Una storia universale. Quindi è anche la mia storia”. 

   

Una specie di Rimbaud del rock: in pochi anni proprio come il “poète maudit” anche lui ha scritto tutte le sue canzoni migliori. Poi la deriva

  
Il documentario racconta proprio la vita sconclusionata di un giovane geniale musicista e pittore, tipico genio e sregolatezza con grossi disturbi mentali, che a vent’anni diventa una rockstar ma che non regge il peso del successo. E che invece di ammazzarsi, come tanti suoi illustri colleghi passati e futuri, decide semplicemente di tornare a casa dalla mamma. Detta così sembra una storia bizzarra, ma la storia della vita e dell’arte di Syd Barrett è davvero stupefacente, ancora piena di domande senza risposta.


All’inizio del film una voce recitante legge la prima pagina del romanzo “Great Jones Street” di Don DeLillo, uno dei padri della letteratura postmoderna, che racconta proprio della fuga dal mondo di una rockstar all’apice della fama per evitare di essere stritolato dalla macchina dello spettacolo: “La fama esige ogni eccesso, intendo la celebrità vera, che è una fluorescenza divoratrice… lunghi viaggi in uno spazio grigio. Il pericolo, il confine di tutti i vuoti possibili… Sforzatevi di comprendere l’essere costretto ad abitare regioni così estreme… Anche se per metà folle, quest’uomo viene riassorbito dalla follia totale del pubblico; anche se perfettamente razionale, burocrate dell’inferno, genio tacito del sopravvivere, sa già che verrà distrutto dal disprezzo tipico del pubblico per i sopravvissuti”. Il libro, pubblicato nel 1973 (e tradotto per Einaudi nel 2009 da Marco Pensante), sembra proprio scritto per Syd, che (di tutti “musicisti maledetti”) ha condotto un’esistenza tra le più surreali: prima forgia il rock psichedelico britannico proponendo un immaginario obliquo fatto di antropomorfismo e animismo, poi trascina i suoi compari in una sperimentazione sonora e visiva ipnotica e oscura mai vista e sentita prima e, infine, letteralmente, dà di matto. Quanto torna a casa dalla madre ha appena 24 anni e rimane nel suo bozzolo, senza quasi uscirne, fino alla fine dei suoi giorni.

 

Nella testa di Syd, che aveva molti luoghi oscuri (forse autismo o sindrome di Asperger), sostanze come l’lsd furono una specie di detonatore

   
Nel documentario appaiono tutti e quattro i Pink Floyd da vecchi, insieme a molti amici e protagonisti musicali e culturali dell’epoca: da Pete Townshend, il chitarrista dei mitici Who, a Graham Coxon dei Blur, dagli ex manager a tante fidanzate, e compare persino l’amata sorella Rosemary. In tanti oggi si rammaricano di non essere riusciti a controllarlo allora, ma probabilmente erano tutti strafatti, avvolti da nubi di hashish, olio di patchouli, lsd e pasticche magiche. Nella commedia inglese di culto “Shakespeare a colazione”, ambientata proprio nella Londra di fine anni 60, lo spacciatore Danny, molto somigliante al Syd Barrett più allucinato, a un certo punto tira fuori una pasticca enorme “dai poteri magici. Titolo: Fenolo idrocloruro benzorex. Indirizzo: il camposanto”. Nonostante avesse già provato l’eroina a 20 anni, Syd fumava regolarmente marijuana e assumeva dosi massicce di lsd, responsabili di attacchi violenti e incontrollati le cui vittime erano, sempre più spesso, le sue ignare fidanzate. Timothy Leary, lo psicologo e guru cacciato da Harvard per le sue posizioni a favore dell’uso delle sostanze psichedeliche, una volta disse provocatoriamente che “l’lsd provoca psicosi, nelle persone che non lo assumono”. Ma nella testa di Syd, che aveva molti luoghi oscuri (forse autismo, o, come ha detto la sorella Rosemary, la sindrome di Asperger), quelle sostanze furono una specie di detonatore.


Arrivato a Londra nel 1964 scopre lo zen di Alan Watts, i fumetti Marvel, la Beat Generation di Kerouac, e ovviamente ascolta i Beatles e i Rolling Stones, poco più grandi di lui. I suoi idoli, come per Keith Richards e Paul McCartney, sono Chuck Berry, Bo Diddley e Buddy Holly, ma è anche molto affascinato dai viaggi interiori procurati da certe nuove sostanze che cominciano a fare capolino nella capitale. Syd comincia a studiare pittura e Roger Waters, il futuro bassista del gruppo, architettura, e insieme mettono su una band e frequentano i locali underground. Con l’amico di sempre Storm Thorgerson si interessa perfino alla setta Sikh di Sant Mat e, soprattutto, all’lsd (che fa la sua comparsa in Inghilterra proprio nel 1965).


Il dicembre 1966 è il momento di svolta per lui e la sua combriccola: le cover di rhythm and blues gli stanno strette, e nonostante inventi il nome della band giocando con quelli di due bluesman della Georgia (Pink Anderson e Floyd Council) la musica che crea si trasforma presto in qualcosa di totalmente nuovo, di ipnotico, di irresistibile. Il tastierista Rick Wright racconta che si limitavano ad accendere gli amplificatori e a suonare spontaneamente note basse fino a che quelle sperimentazioni non decollavano. Il batterista Nick Mason è più esplicito con Barry Miles, nel suo “London Calling” (Edt, 2012): “Potevamo suonare soltanto a Londra, perché lì il pubblico era più tollerante e sopportava volentieri dieci minuti di merda per scoprire cinque minuti di buona musica. Eravamo a uno stadio sperimentale”. I Pink Floyd, come nessun altro prima di loro, si presentavano in concerto al mitico club Ufo di Tottenham Court Road con una macchina per le luci colorate, tra folate di incenso, hashish e il sudore di ragazzi e ragazze sdraiati a terra in estasi. In questa orgia sonora e visiva Syd usava l’accendino Zippo facendolo scivolare avanti e indietro sulle corde, scordando e riaccordando la chitarra ed evocando viaggi interstellari e animali parlanti. Quella musica si stava lentamente trasformando nella colonna sonora di una generazione di sballati. Tanto che non si è mai capito se il nome del club stesse per Unidentified Flying Object (Oggetto volante non identificato) o per Undergound Freak Out (Sballati dell’underground).

  

Il primo singolo dei Pink Floyd, “Arnold Layne”, segue “Eleanor Rigby” dei Beatles: raccontano la vita dei veri inglesi

   
Il 1967 è l’Anno dell’amore: i Beatles incidono la famosa “Lucy in the Sky with Diamonds”, le cui iniziali il pubblico associa immediatamente all’lsd nonostante Lennon dichiari di essersi ispirato ad “Attraverso lo specchio” di Lewis Carroll. A febbraio i Pink Floyd incidono il loro primo 45 giri: “Arnold Layne” nel lato A e “Let’s Roll Another” nel lato B, letteralmente “rolla un’altra canna”, reintitolata “Candy and a Currant Bun” per renderla più presentabile. Syd è offeso da questo cambio di titolo, e con il bassista Roger Waters, contrario all’uso di droghe in studio, cominciano i conflitti che dureranno una vita. I discografici della Emi ci vedono lungo, e pur essendo impauriti dall’immagine dei quattro ovviamente cavalcano il successo, nonostante “Arnold Layne” racconti di un tizio che rubacchia reggiseni e mutande dal bucato della madre di Syd. Poco prima era uscita anche “Eleanor Rigby” dei Beatles, seguita l’anno dopo da “Penny Lane”: tutte straordinarie canzoni molto inglesi che raccontano la vita dei veri inglesi. I Pink Floyd entrano di volata nella Top 20 e diventano la band di cui tutti parlano, soprattutto dopo aver partecipato al celebre programma tv Top Of The Pops che, manco a dirlo, fa vacillare il sistema nervoso del cantante e chitarrista della band. Come se non bastasse la Emi fa pressioni per un nuovo singolo e Syd tira fuori dal cappello a cilindro la chicca “See Emily Play”, altra storiella che racconta, a modo suo, di una ragazza che balla nuda in un bosco. Il consumo di lsd diventa massiccio, tanto che la sorella Rosemary percepisce che qualcosa è saltato nella sua testa: “Il fratello che conoscevo era scomparso, dopo di allora non riuscii più ad amare la musica”. Nonostante tutto “See Emily Play” finisce al sesto posto in classifica e la Emi lo spinge a incidere ancora. Syd consulta l’I Ching, il libro dei Mutamenti, come fosse un oracolo, insieme ai libri di Jung di moda in quel periodo. Sforna altre gemme pop oblique come “Lucifer Sam”, dove canta “Lucifero Sam, gatto del Siam, sempre seduto al tuo fianco, quel gatto è qualcosa che non riesco a spiegare”.

  

L’ispirazione di “Alice nel paese delle meraviglie”. Il “flautista alle porte dell’alba” è una citazione dal classico per l’infanzia “Il vento tra i salici”

  

Ormai è il momento di un album intero e la casa discografica prenota i prestigiosi Abbey Road dove i Beatles stanno ultimando l’altrettanto lisergico “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”. Il primo disco dei Pink Floyd, “The Piper at the Gates of Dawn”, esce il 5 agosto 1967 e ha un successo immediato: in copertina i quattro musicisti sono distorti e duplicati da un effetto caleidoscopico e la musica è un inquietante tappeto volante sonoro per un viaggio interiore. L’immaginario di “Alice nel paese delle meraviglie” e di altri libri per l’infanzia è la chiara ispirazione di Syd (senza dimenticare che, quasi in contemporanea, dall’altra parte dell’oceano i Jefferson Airplane pubblicano la celebre “White Rabbit” in cui Grace Slick canta esattamente dell’attraversamento di una nuova dimensione dopo aver ingerito una “pillola” magica). Il “flautista alle porte dell’alba” del titolo è una citazione dal grande classico per l’infanzia “Il vento tra i salici” di Kenneth Grahame, dove compare il saggio dio Pan protettore della natura incontaminata: tutte le melodie sono interpretate con un tono soave e raffinato che rimanda alle filastrocche dei bambini. Anche se poi, in brani come “The Gnome”, Syd canta “voglio raccontarvi una storia, riguardo un piccolo uomo, se ci riesco, uno gnomo chiamato Grimble Gromble, e i piccoli gnomi se ne stanno nelle loro case, a mangiare a dormire e a bersi il loro vino”. Che non è esattamente una canzoncina per bimbi.


Chiedo al regista Roddy Bogawa cosa lo ha attratto dell’arte di Barrett: “Da ragazzo avevo una band che cercava di suonare brani da ‘The Piper at the Gates of Dawn’ e dai dischi solisti di Syd, ma erano così particolari. Ricorderò sempre quanto fossero poetici i suoi testi e l’emozione nella sua voce. C’erano un’apertura e una vulnerabilità rare in quella musica”. 

  

Roger Waters, Nick Mason, Syd Barrett e Rick Wrightnel 1967 a Londra (Cyrus Andrews/Michael Ochs Archives/Getty Images) 
    

Un altro aspetto toccante del documentario “Have You Got It Yet?” è, per lo stesso regista, l’aver ricevuto una sorta di “testimone” spirituale da parte di Thorgerson: “Non conoscevo il nome di Storm. Ai tempi del suo studio non c’era internet. Quando ho comprato ‘The Work of Hipgnosis’, il libro sulle sue famose copertine di dischi, mi sono reso conto che era stato proprio lui a plasmare la mia psiche da adolescente”. Bogawa allude a copertine iconiche che sono entrate nell’immaginario collettivo mondiale come, tra le tante dei Pink Floyd, la mucca vista da dietro, il prisma con l’arcobaleno e l’uomo che stringe la mano e prende fuoco. “Ho deciso di fare un film su di lui e siamo diventati molto amici. ‘Taken by Storm’ è stato proiettato in tutto il mondo e distribuito in modo indipendente, e qualcuno ha suggerito che avrei dovuto farne un altro su Syd. Storm lo avrebbe prodotto e io l’avrei diretto. Ma quando si è ammalato di cancro ha iniziato a fare interviste che poi ha lasciato a me. Mi sono reso conto che era il suo modo di salutare i suoi amici… ciao, sto facendo un film su Syd con il mio amico Roddy e sto morendo…”.

  
Il regista mi confessa di aver battuto internet palmo a palmo alla ricerca di materiale inedito sui siti dei fanclub, e di aver trovato persino la registrazione radiofonica del 1967 in cui Barrett parla già di lasciare la musica pop per tornare a dipingere: “Se voglio non dire nulla, o se voglio agire in modo straordinario, allora sento che è giustificato”.

  

Convivere con i problemi di Syd, ma contemporaneamente cercare una via d’uscita: fare a meno di lui? Sostituirlo? Con chi?

  
Nell’agosto 1967 a complicare le cose per i Pink Floyd c’era stato anche un articolo di Melody Maker, la bibbia della musica inglese, che annunciava su sei colonne “I Pink Floyd si sciolgono”. Da tempo era apparso chiaro a tutti che bisognava sì convivere con i problemi di Syd, ma contemporaneamente cercare una via d’uscita da questa situazione: fare a meno di lui? Sostituirlo? Con chi? E che strada percorrere senza colui che aveva creato questa magica esperienza chiamata Pink Floyd? L’interessato è in piena paranoia perché capisce che da lui si aspettano tutti altre canzoni commerciali come “See Emily Play”. Lo stesso Storm, nella bella biografia “Syd Barrett. Il diamante pazzo dei Pink Floyd” (Arcana, 2000), lo definisce “un vero intralcio, un megalomane scisso dalla realtà. Sembrava viaggiare nella propria mente, sempre più interessato a esplorare i limiti della propria personalità che lo separava dal resto del gruppo”. In tour era come se non ci fosse: spesso restava seduto sul bus, o se saliva sul palco restava in piedi a ciondolare. O, peggio ancora, scordava le corde della chitarra rendendola insuonabile. L’unico possibile sostituto è il suo amico David Gilmour, che lo conosce bene e che in quel momento è senza lavoro. Ma come fare a dirglielo? La goccia che fa traboccare il vaso è quando, durante una prova con Gilmour, Syd si presenta con un’assurda canzone che sembra semplice, ma che in realtà lui modifica in continuazione senza permettere a nessuno di capire come suonarla: la chiama, dispettosamente, “Have You Got It Yet?”, “l’hai già capita?”. Roger Waters racconta oggi che chiaramente quella era una canzone senza senso composta da una persona che non voleva essere capita. 

 
Il 26 gennaio 1968, in furgone verso un concerto, qualcuno chiede: “passiamo a prendere Syd?”. Nessuno risponde. Quello è il primo giorno in cui Barrett, per i nuovi Pink Floyd con Gilmour alla chitarra e voce, smette di esistere. La band torna in studio per registrare il secondo disco “A Saucerful of Secrets”, che si chiude con l’unica composizione di Barrett, il cui testo recita “è molto premuroso da parte vostra pensarmi qui, e vi sono molto grato per aver reso chiaro che non sono qui”. Ma in quel disco lui non c’è già più.

   

Per “The Madcap Laugh”, l’unico modo per non impazzire è far incidere a Syd le sue parti e poi finire i brani in sua assenza

   
Se la vita di Roger Keith Barrett detto Syd fosse stata semplice e lineare, il documentario che porta il titolo della sua assurda e incomprensibile canzone sarebbe finito qui. Invece Syd, puro eroe romantico, genio sregolato che probabilmente non sapeva di esserlo, tocca il fondo e rinasce. Non una, ma tante volte. Quando esce dall’ospedale psichiatrico torna a Londra e prende un nuovo appartamento nella esclusiva Earl’s Court Square, che viene immortalata dal fotografo Mick Rock nella copertina del suo primo disco solista “The Madcap Laugh”, che esce nel gennaio 1970. “La prima volta che ho preso in mano una macchina fotografica”, ha raccontato il grande Mick Rock, morto lo scorso novembre, “ero nel mezzo di un trip da acidi. Alla fine non c’era nessun rullino, ma è stata un’esperienza straordinaria che mi ha ispirato a iniziare a fotografare”.

 
Il giovane produttore della Harvest, etichetta minore della emi, è molto soddisfatto di ciò che Syd gli fa sentire, tra cui “Golden Hair”, una canzone che riprende una poesia di James Joyce, una piccola perla da due minuti esatti. Anzi un diamante grezzo: “Sporgiti dalla finestra, capelli dorati. Ti ho sentito cantare nell’aria di mezzanotte. Il mio libro è chiuso, non leggo più. Guardare la danza del fuoco, sul pavimento. Ho lasciato il mio libro, ho lasciato la mia stanza, perché ti ho sentito cantare attraverso l’oscurità. Cantare e cantare, un’aria allegra. Sporgiti dalla finestra, capelli dorati”.

 
L’incisione del disco però non è delle più semplici, perché appare chiaro a tutti subito che l’unico modo per non impazzire è far incidere a Syd le sue parti, prevalentemente acustiche, e poi finire i brani in sua assenza, mai suonando realmente insieme. Vedono così la luce una dozzina di meravigliose canzoni sghembe che interrompono e riprendono il loro cammino dinoccolato in mondo incomprensibile ma affascinante. “Questa è la storia di una ragazza che conoscevo”, canticchia soave Syd in “Here I Go”, “non le piacevano le mie canzoni e questo mi ha fatto sentire triste. Ha detto: una big band è molto meglio di te”. “The Madcap Laugh”, il “Testamatta che ride”, viene finito con l’aiuto di David Gilmour e Roger Waters mentre Syd se ne va addirittura in vacanza a Formentera, e ha un discreto successo. Tanto che la Emi è interessata subito ad un altro album, “Barrett”, stavolta prodotto da Gilmour fin dal principio ma con le stesse modalità di registrazione.


Il 6 giugno 1970, dopo due anni e mezzo dall’abbandono dei Pink Floyd, Syd si presenta dal vivo all’Olympia Exhibition Hall con Gilmour al basso e Jerry Shirley alla batteria, spaventatissimo dal pubblico. Suona quattro canzoni, poi saluta tutti e se ne va, lasciando i compari senza parole. Come se i due dischi appena pubblicati non fossero mai esistiti: si ritira a dipingere nell’appartamento di Earl’s Court, attorniato da spacciatori, droghe di tutti i tipi e groupies ipnotizzate dal suo sguardo magnetico ma atterrite dai suoi continui sbalzi di umore. Qualche tempo dopo Roger Waters lo incontra a fare la spesa ai grandi magazzini Harrods, appena i due incrociano gli sguardi Syd scappa via lasciando per terra i sacchetti della spesa pieni di dolci per bambini e caramelle. Per sfuggire alla folla di scrocconi, spacciatori e sballati lascia Londra e si ritira a Cambridge con la nuova fidanzata Gayla. La loro storia è un alternarsi continuo di dolcezza estrema e di scatti di ira. Syd le dice addirittura di volerla sposare e di voler studiare medicina: durante un pranzo con la famiglia di lei va in bagno e torna con i capelli rasati a zero. Quando la sua violenza diventa insostenibile la ragazza se ne va, ma per lui è come se nulla fosse.


Qualche anno prima, nel 1969, era uscito il romanzo autobiografico “Groupie” di Jenny Fabian (tradotto per Arcana da Tiziana Lo Porto nel 2013), dove la protagonista racconta, in modo romanzato, l’esordio di Syd e della sua band: “Era alto e magro e aveva quello sguardo liquido che avevo giù visto in altra gente che s’era calata troppi acidi in troppo poco tempo. Era completamente diverso dagli altri tre della band: era introverso e autoironico. Dopo averli conosciuti meglio ho capito che gli altri tre e Nigel erano preoccupati per lui. Correva voce che a non tenerlo d’occhio presto sarebbe andato completamente fuori di testa.”
Dopo mille altri ricoveri, molte altre false partenze, tentativi di tornare a suonare, tornare a dipingere, a starsene chiuso al nono piano del nuovo appartamento a guardare 5-6 schermi tv contemporaneamente, nel 1979 scompare per l’ennesima volta e si rintana nel seminterrato a casa della madre, in piena esplosione punk: Syd si dimentica del mondo esterno alla sua testamatta, e il mondo si dimentica di lui.

   

 “Ricorda quando eri giovane, brillavi come il sole. Brilla diamante pazzo. Ora c’è uno sguardo nei tuoi occhi, come buchi neri nel cielo”

  
Nel 1975, dopo l’enorme successo di “The Dark Side Of The Moon”, i Pink Floyd sono di nuovo in studio per incidere “Wish You Were Here”. Mentre stanno incidendo “Shine On You Crazy Diamond”, “brilla diamante pazzo”, in studio si presenta un tizio grasso, pelato, con lo sguardo assente, che tutti pensano sia un tecnico mandato dalla casa discografica. Si siede con loro e ascolta le registrazioni come se fosse in una sala d’aspetto medica. Gilmour racconta stupefatto: “Doveva pesare quasi cento chili. Mi guardava in modo piuttosto strano e sorrideva”. Poi scompare all’improvviso come era apparso. Era Syd, ovviamente, anche se nessuno l’aveva riconosciuto. Si era avventurato lungo un sentiero così impervio e solitario che per il resto del mondo non esisteva più. Sempre Gilmour, alla fine del film di Bogawa e Thorgerson, racconta il suo rammarico di non essere mai andato a trovarlo a casa sua a Cambridge, anche solo per una tazza di tè. Peter Wynne-Wilson, ex tecnico delle luci dei Pink Floyd, dice: “Pensavamo di muoverci in questa meravigliosa direzione verso l’Utopia. Eravamo pienamente coinvolti nel sogno hip, ed era un sogno. Avevamo in mente le vette spirituali. E anche Syd”. E Roger Waters, commosso, recita il testo della canzone dedicata all’amico: “Ricorda quando eri giovane, brillavi come il sole. Brilla diamante pazzo. Ora c’è uno sguardo nei tuoi occhi, come buchi neri nel cielo. Brilla diamante pazzo”. Un interruttore che, quando scatta, non torna più indietro, come lo definisce Gilmour.

 
Roger Keith Barrett, detto Syd, muore per un cancro al pancreas e per complicazioni dovute al diabete il 7 luglio 2006 nella sua casa di Cambridge. Per quasi trent’anni di lui è rimasto solo un vago ricordo.


Nel 2005, con il mio migliore amico d’infanzia, metto su la band Elefanti Effervescenti per onorare l’omonima deliziosa canzone nonsense di Syd. Alla fine del liceo la biondina aveva lasciato il mio rivale ed era poi venuta da me, ma io non ero più innamorato di lei. Testamatta, probabilmente, avrebbe sorriso.

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