Foto da Fb Cesi-Marciano Ensemble

Mai rassegnati

Ascoltando il vagare faticoso degli uomini nei meandri delle loro povere vite

Sergio Belardinelli

“Arkan e i palloncini”, l’album musicale di Ciro Gentile. Una favola non certo pensata per i bambini, ma che forse soltanto i bambini possono penetrare a pieno. Parole che ci salvano

Fino a ieri Ciro Gentile era per me un musicista napoletano, un bravo esecutore e compositore di pezzi per chitarra. Ma oggi è molto di più. Ho ascoltato quasi per caso il suo ultimo album musicale (Ciro Gentile & Cesi Marciano Ensamble,  “Arkan e i palloncini”, Dodicilune 2022) e sono rimasto letteralmente incantato. Dalla musica certo, quindici brani uno più bello dell’altro, ma soprattutto dal testo che li accompagna. Una favola che racconta il vagare faticoso degli uomini nei meandri delle loro povere vite, per lo più vinti anche quando l’orgoglio dà loro l’illusione di essere i vincitori, ma mai rassegnati e senza speranza. Una favola non certo pensata per i bambini, ma che forse soltanto i bambini possono penetrare a pieno, senza preoccuparsi troppo della differenza tra la realtà e i sogni né delle contorsioni e delle proiezioni dell’animo umano.

 

I protagonisti principali sono un soldato che, diventato qualcuno grazie alla generosità del capitano di una nave, il capitano Thomas, si perde un giorno in una caverna misteriosa, dove incontra uno strano personaggio di nome Arkan, il venditore di palloncini appunto. In una settantina di pagine, con una semplicità, una bellezza e una delicatezza di linguaggio assolutamente fuori del comune, ci viene squadernata tutta l’intimità più profonda di una vita, che è quella del soldato ma immediatamente anche la nostra. Vediamo così anche noi “il disegno di una nave bellissima, con un enorme occhio bianco a forma di pesce disegnato sulla chiglia di prua. Davanti un rostro che affondava la sua estremità nel mare, anch’esso ben disegnato. Al centro una vela quadrata ed in fondo, a poppa la sagoma di un uomo al timone”. Di primo acchito l’immagine affascina e dà persino sicurezza, ma quella sagoma dell’uomo al timone dice anche una profonda solitudine, un lasciarsi trasportare da “una vela quadrata” che non si cura troppo delle umane inquietudini, una sorta di dannazione a seguire un destino eroico per soddisfare più gli altri che se stessi. 

 

Chi più chi meno, tutti siamo schiavi del riconoscimento da parte degli altri. Per questo andiamo girovagando qua e là nel tentativo di darci un nome e un volto che ci rassicurino. Ecco allora il coraggio e l’onore in battaglia, ecco “la patria, la libertà, la difesa dei deboli, l’amore… tutto!” ai quali il soldato della favola e noi appendiamo il nostro io, con la speranza di conferirgli un po’ di dignità, senza neanche accorgerci di ciò che perdiamo. Ma prima o poi, per fortuna, le cose più intime che abbiamo sacrificato per essere qualcuno di fronte agli altri irrompono di nuovo in noi stessi chiedendo giustizia. Già, proprio così, giustizia; vogliono essere anch’esse riconosciute. E precisamente da questo riconoscimento dipende la nostra salvezza. Come dice Arkan al soldato che vorrebbe uscire dalla caverna nella quale si è perso, “Gli uomini da quando nascono fino all’età vetusta accrescono il loro peso, a volte in modo spropositato, di cose che non servono, se non per il fatto stesso di pesare. Sono cose inutili, una specie di anti materia che non si sa nemmeno di avere che può restare silente per tutta la vita. Ma all’improvviso può diventare indispensabile liberarsene per salvarsi”.

Specialmente quando si è caduti in una specie di pozzo senza fondo dal quale si può sperare di risalire soltanto grazie ai palloncini di Arkan. Qui contano poco le nostre presunte virtù o le cose grandi che abbiamo realizzato. Ci salvano invece l’umiltà, la fiducia nella parola di un altro, la ritrovata dimestichezza “col battito del nostro cuore” e una “profonda compassione per aver sprecato così la vita”. All’improvviso, come il soldato di questa favola, diventiamo leggeri senza nemmeno capire perché. E’ forse questo il “miracolo che per un attimo ci tocca tutti”, senza che nessuno sappia di preciso “se ci lascia uguali o ci rende migliori”. 

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