le feste segrete

Un fotografo delle celebrità ha immortalato gli spiriti dei rave, raccontandoli meglio di qualsiasi sociologo

Vittorio Bongiorno

Dal buio affiorano volti, gesti, un popolo sommerso a cuiMattia  Zoppellaro dà vita e voce, affidandosi ai rari raggi di luce che attraversano gli stanzoni

"È il 1997, ho vent’anni. Arriviamo a Bologna, chiamiamo il numero trovato nel volantino e risponde questa tipa francese, ma in italiano, che ci dice di raggiungere altra gente in una specie di stazione di servizio abbandonata nell’hinterland. Lì uno di loro sa a grandi linee dov’è la festa, ci guida nelle lande desolate della zona industriale e a un certo punto dobbiamo abbassare i finestrini, ci spiegano, perché così si sente il ‘martello’, il ritmo della techno music. Quando arriviamo in questo mondo sconosciuto sento subito questa grossa affinità… io già ascoltavo musica punk, ero molto legato all’estetica punk, avevo iniziato anche a ballare nei club della Padania… e ho sentito questa sorta di attrazione fortissima nei confronti del luogo, uno spazio abbandonato. E mi sono detto ‘prendo la macchina fotografica’. Ho sentito che stavo documentando una essenza del mio tempo. Era il cuore pulsante del mio tempo, ma che nessuno nel mio tempo fotografava. La scena dei rave dell’epoca non era così popolata in Italia. Nessuno aveva la macchina fotografica, quindi nessuno vedeva quello che succedeva lì dentro. Difatti la prima volta che ho scattato quelle foto la gente mi guardava male, pensavano fossi un poliziotto. Mi odiavano tutti, alla morte, però io ho sentito subito che mi sarebbe interessato perseguire la cosa”.

  
Questa cosa sconosciuta è un rave party, una festa illegale in un capannone abbandonato, o una fabbrica, o, d’estate, in mezzo a un campo, e sembra uno dei racconti degli scrittori inglesi degli anni 90 raccolti nell’antologia “Disco Biscuits” (Guanda, 1998). A raccontare in prima persona però non sono Nicholas Blincoe o Jeff Noon o Irwin Welsh, ma Mattia Zoppellaro, un ragazzo italiano che ha catturato con la sua reflex questi eventi segreti tra il 1997 e il 2005, da Bologna a Londra, da Milano a Torino, da Barcellona a Graz. Il tutto è diventato il ricercatissimo libro “Dirty Dancing” (Klasse Wrecks, 2021). Impaginato come fosse un ellepì, con tanto di white label in copertina, il libro contiene una ottantina di immagini, rigorosamente in bianco e nero, rigorosamente in pellicola Kodak 3200, una pellicola molto sensibile perché gli scatti sono stati fatti per lo più al buio. Per saperne di più vado a trovarlo nella sua casa milanese, dove mi accoglie in ciabatte e maglietta di Blondie, icona senza tempo dei dancefloor underground di tutto il mondo. Nel frattempo è diventato un fotografo tra i più ricercati e i suoi ritratti a rockstar come Lou Reed, U2, Iggy Pop (e persino Giulio Andreotti) sono diventate copertine delle più importanti riviste. Ma quello che rende uniche le immagini che questo rodigino dallo sguardo curioso ha catturato nei capannoni abbandonati è una profondità e una umanità straordinarie: dal buio che pervade gli spazi affiorano volti, gesti, movimenti scomposti di un popolo sommerso, dimenticato, a cui Zoppellaro dà vita e voce, affidandosi alla granulosità della pellicola in bianco e nero, ai rari raggi di luce che attraversano gli stanzoni, alla casualità di un incontro fugace con uno sconosciuto o una sconosciuta. 

 

   

“Zone Temporaneamente Autonome” le aveva definite Hakim Bey, lo scrittore anarchico e guru della cultura cyberpunk degli anni 90, luoghi liberati, dove “la verticalità del potere viene sostituita spontaneamente con reti orizzontali di rapporti”. E, ancora, luoghi dove “ci si ritrova a rivalutare la corporeità come il luogo del caos e quindi come il momento in cui tutto deve essere lecito, come sovrabbondanza, come ebbrezza, come superamento degli stati di coscienza normalmente consentiti, per trasformare finalmente il corpo da luogo di mortificazione a tempio della carne viva”.

 

“Mi sono messo a regalare le foto ai ragazzi e alle ragazze per mostrargli che non facevo niente di male e soprattutto che erano foto belle”

  
I primi rave nacquero alla fine degli anni 80 in Inghilterra come free party, feste a base di acid house e techno, musiche ripetitive e ipnotiche “sintetizzate” rispettivamente a Chicago e Detroit, che portavano, complice l’uso massiccio di droghe (soprattutto la celebre mdma, meglio conosciuta come Ecstasy), a stati di trance e visioni paradisiache. Le tribe, vere e proprie tribù musicali che organizzavano in gran segreto eventi che spesso duravano giorni, trasportavano pesanti soundsystem e veri e propri “muri di casse”, come titola il libro di Vanni Santoni (Laterza, 2015). Un mondo sconosciuto, in continua evoluzione, che i governi e le forze dell’ordine hanno costantemente e inutilmente provato a fermare senza mai provare a capirne la natura. Chi c’è stato ricorda di essersi trovato nel momento giusto al posto giusto, come il fotografo che sta seduto davanti a me e che mi racconta, con una certa emozione, la svolta della sua vita: per assecondare la sua passione per il cinema il padre, amico del padre di Carlo Mazzacurati, lo aveva mandato a bottega dal regista durante le riprese del film “L’estate di Davide”, dove Mattia conosce una giovane comparsa che gli piace. E che, all’ultimo giorno di lavoro, gli mette in mano un flyer, un volantino con solo un numero di telefono e una grafica anni 90. “Io domani vado a un rave a Bologna”. E da lì la sua vita prende una direzione inaspettata. La madre gli aveva regalato la sua vecchia reflex Zeiss, e con quella lui teneva buoni i bambini che andavano a curiosare sul set. “Per farli stare zitti, durante i ciak, gli facevo le foto. Ma la mia passione era il cinema, non avrei mai pensato di fare il fotografo”, mi racconta. Con la stessa reflex a tracolla si trova dunque al rave, al centro del suo mondo nel momento esatto in cui il suo mondo pulsa di un’energia mai provata prima. In tanti però lo guardano male. Gli chiedo come ha fatto a conquistarseli e lui ridacchia: “La settimana dopo ci sarebbe stato un altro rave, dunque di notte mi sono messo a stampare le foto per regalarle ai ragazzi e alle ragazze che avevo fotografato. Per mostrargli che non facevo niente di male e soprattutto che erano foto belle”.

 

Le storie di chi cerca semplicemente di essere compreso, accettato, ma che è stato scartato dalla società dell’opulenza

  
Zoppellaro colpisce al cuore per la sua genuinità e la sua schiettezza. Non è immodesto ma, semplicemente, è il miglior fotografo della sua generazione. Quando aveva cominciato a scattare ancora non lo sapeva, ma già sentiva che quelle foto erano buone. Erano vere. Erano capaci di mostrare la bellezza in un luogo dove la bellezza non avrebbe dovuto esserci, in un mondo all’apparenza disumano: creste punk arruffate, occhiaie, vestiti strappati, macchine scalcinate, capannoni fatiscenti e dirty dancing, appunto: ballo sporco e selvaggio. Molto più potente di qualsiasi ricerca sociologica, il libro di Zoppellaro racconta con la potenza del bianco e del nero le storie di chi cerca semplicemente di essere compreso, accettato, ma che è stato scartato dalla società dell’opulenza. E, in quel buio, questi ragazzi e queste ragazze si nascondono, trovando un rifugio sicuro.

 

   

Il libro, sebbene già esaurito, torna di grande attualità oggi dopo che il nuovo Governo, nel suo primo Consiglio dei ministri, ha varato l’articolo del codice penale 434 bis, già destinato a modifiche: invece di affrontare problemi ben più attuali come lo sballo notturno nel cuore delle città universitarie si decide, inspiegabilmente, di perseguire “l’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”, reato commesso “da un numero di persone superiore a 50”, in luoghi perlopiù abbandonati e comunque lontani dai centri storici. Si dice che la pena da 3 a 6 anni e le multe per gli organizzatori da 1.000 a 10.000 euro verranno riviste, soprattutto pensando a quelle previste per l’associazione a delinquere, quasi uguali. La destra populista esulta, perché da oggi finalmente le cose cambieranno, mentre la sinistra si preoccupa delle eventuali ripercussioni su possibili e quantomai improbabili manifestazioni per cambiare il mondo (stando comodamente seduti in salotto). In questo panorama sconfortante viene da ridere, per non piangere. Sfoglio il libro insieme al suo autore, che mi mostra con un certo orgoglio il primo scatto al primo rave di Bologna, “questo è stato il mio battesimo, la mia folgorazione”, e rimango stupefatto dalla potenza visiva di certi squarci caravaggeschi, teste che affiorano dall’oscurità, il sorriso appena accennato di una ragazza in penombra, mani alzate al cielo per proteggersi da una tempesta di sabbia. Zoppellaro, come un moderno Michelangelo Merisi, prende la vita vera e la mette dentro le sue opere. Lui, timido, si schermisce: “Al tempo non avevo assolutamente studiato l’estetica della fotografia, mi piaceva l’atto in sé di fotografare questa scena. Lo sentivo, ero colpito. Non è stata una cosa razionale: ho studiato Caravaggio, Scorsese, Andrea Pazienza. Purtroppo non a scuola, perché a scuola in quel momento probabilmente stavo leggendo sotto banco libri su Kurt Cobain”, ridacchia lui, poi torna serissimo: “Però sono follemente innamorato dell’arte sacra pre-rinascimentale, rinascimentale e barocca. Ero stato in molte chiese, avevo visto molti film. Il cinema è la mia più grande passione, ma la fotografia sono io”. 

 
Dopo il liceo studia a Fabrica, il centro di ricerca sulla comunicazione fondato da Oliviero Toscani, che un giorno lo manda a Londra per un lavoro. E’ lì che scopre e ruba una rivista musicale, la prestigiosa Mojo, perché non ha un soldo in tasca. Si innamora subito dello stile di quelle foto musicali che sanno così bene raccontare storie. Ottiene un colloquio con Matt Turner, il photo editor della rivista, con cui condivide la passione per il calcio, e a cui mostra proprio le foto dei rave, che vengono molto apprezzate. Ma Londra è spietata, fare belle foto non basta. Mattia ride di gusto al racconto delle sue imprese da vero stalker quando scopre il pub dove il tizio va a vedere le partite dell’Arsenal: si fa trovare lì, diventano amici, e così gli vengono affidati i primi scatti a concerti rock. Le foto sono bellissime, anche quelle fatte da sotto il palco, in condizioni precarie, perché lo spirito dei rave è ancora vivo e presente davanti ai suoi occhi. E dai gruppi indie, in un clic, passa a scattare ritratti di rockstar planetarie capricciose. Ma lui sa bene che la fotografia non è necessariamente empatia, che è spesso frutto del caso, di un’occhiata, della capacità di scomparire davanti al soggetto che si inquadra. “Nan Goldin mi ha aperto un mondo, e il suo libro ‘The Ballad of Sexual Dependency’ è per me uno dei più importanti della storia della fotografia. Riuscivo a sentire l’amore che lei provava per i suoi amici. Ma non è detto che si debba essere empatici a tutti i costi”. Gli ricordo dello scatto di Cartier-Bresson ai coniugi Curie, rubato appena i due gli aprono la porta e senza nemmeno guardare nell’obiettivo, e Mattia si accende: “Cartier-Bresson viene spesso riconosciuto come un fotografo empatico ma secondo me non lo è affatto. E’ il più scaltro e furbo di tutti. La fotografia che mi appassiona è quella che avviene per caso, dove il caso entra e la fa da padrone”. 

  

Le foto a Lou Reed: non chiedergli di sorridere, non chiedergli dei Velvet Underground, anzi non parlargli. Poi il cuore di pietra della star si scioglie

  
Prima di salutarci è immancabile la domanda dell’incontro con Lou Reed, l’imperatore del rock newyorkese, in occasione di una copertina per la gloriosa edizione del Rolling Stone italiano di Michele Lupi e Carlo Antonelli. Zoppellaro si scioglie definitivamente. Il pr della rockstar gli dà così tante limitazioni da atterrire anche il fotografo più smaliziato: non chiedere a Lou di sorridere, non chiedere a Lou dei Velvet Underground, non chiedergli del rapporto con Andy Warhol, anzi non parlargli completamente, visto che lo farà il giornalista che è lì per intervistarlo. In realtà, come nei film, o nei sogni, il cuore di pietra di Lou Reed si scioglie perché condivide casualmente con il giovane fotografo la passione per le macchine fotografiche e per il suo obiettivo 50mm Leica che costa una follia, tanto che anche il pr è stupito del buonumore del suo cliente. Nella foto, che è passata alla storia, il chitarrista vizioso è ritratto di profilo, pensoso, l’indice sulle labbra, col suo inseparabile giubbotto di pelle, avvolto nell’oscurità. “Quando si è messo di profilo sembrava una moneta romana, e ho pensato, cazzo, Lou meriterebbe davvero di avere una sua moneta”. Come i film, e soprattutto i sogni, il finale della storia è un capitombolo emotivo: l’indomani dello shooting, poco prima di tornare in Italia, il pr lo richiama perché, dice, Lou e la moglie Laurie Anderson avrebbero piacere di averlo a casa con loro. Mattia è scosso, onorato, imbarazzato. Ha un altro lavoro in Italia che non può annullare e l’aereo in partenza. Il pr si raccomanda di andarli a trovare al primo ritorno a New York. E poi, come solo in certi film ma soprattutto in certi incubi, Lou Reed muore. In un clic che poteva esserci, e invece non è scattato. Rimane, però, quella fotografia dell’imperatore di profilo, rimangono le foto dei ragazzi e delle ragazze che ballano dirty dancing, a dimostrazione di ciò che è successo, e che non succederà mai più. Il bello (e il brutto) della fotografia è tutto lì, e Zoppellaro lo sa bene.

Di più su questi argomenti: