La Bovary del Volga: il capolavoro di Leos Janecek a Roma

Marina Valensise

Il compositore ceco usava la melodia del linguaggio per restituire verità ai sentimenti umani. La sua opera Kát’a Kabanová è in scena al Teatro Costanzi, fino al 27 gennaio

Nel 1918 Leoš Janácek era già ultrasessantenne, ma aveva l’anima di un giovane avanguardista ribelle quando compose uno dei suoi ultimi cinque capolavori, Kát’a Kabanová, l’opera in tre atti sulla Bovary del Volga che sfugge alle grette angherie di una suocera orribile, la Kabanicha, donna saccente, dispotica, perversa, e all’insipienza di un marito debole e inetto, gettandosi prima fra le braccia di un buono a nulla che però poi l’abbandona, quindi cercando evitare il disonore con la fuga, e infine buttandosi nelle gelide acque del fiume per suggellare col suicidio l’invivibile sua solitudine.

 

Tratta dal dramma del 1859 di Aleksandr Ostrovskij, Groza, (che in russo significa “uragano”, ma anche “terrore”) tradotto in ceco da Vincenc Cervinka e ridotto a libretto dallo stesso Janácek, grazie a una serie di tagli funzionali e a una più efficace sintesi drammaturgica, è un gioiello della musica del Novecento. E’ cesellato da un compositore nato trenta e quarant’anni prima di Stravinsky, Bartok, Hindemith, e però in grado di superare da solo, e in controtendenza, usando certi suoi mezzi espressivi, la musica tardo romantica  come specchio dell’anima, confessione e  espressione dell’io. Non tanto per seppellirla, ma per darle un altro corso, per  rompere con la musica fatta solo di musica e inventare una musica nuova, sperimentale, espressionista, “una musica del concreto”, come scrive Milan Kundera, una musica che capta i rumori della natura, il canto degli uccelli, l’eco del vento e dell’acqua, e  ruba  i frammenti delle parole  sentite per strada, fra la gente, al mercato, per studiare le melodie, il ritmo, le intonazioni del linguaggio parlato, e restituire i sentimenti umani nella loro nuda e pura verità, anziché i cliché,  i gesti, le pose finte e magniloquenti.

 

E’ in scena a Roma, al Teatro Costanzi, fino al 27 gennaio, sotto la direzione di David Robertson e con la regia di Richard Jones

 

Che il moravo Janácek, lavorando su una lingua incomprensibile ai più, parlata solo a Praga e Brno, sia riuscito nel suo intento lo dimostra la prima romana di Kát’a Kabanová al Teatro Costanzi, con cui si inaugura la gestione di Francesco Giambrone (altre tre repliche in programma domani pomeriggio, e la sera di martedì 25 e giovedì 27) nel nuovo allestimento in coproduzione con la Royal Opera House Covent Garden di Londra, sotto la direzione di David Robertson e con la regia di Richard Jones, che ha vinto nel 2019 l’Olivier Award.  

 
Così, più il tempo passa e più Janácek rifulge di una sua sfolgorante contemporaneità, tributaria di un’arte senza tempo, di una sensibilità rivoluzionaria, di un’attenzione ai legami misteriosi tra  musica e psicologia, e soprattutto effetto di un percorso alla rovescia, dove la vecchiaia vive l’ardore giovanile e la giovinezza è in balia del passato. In effetti, quando si mise in testa di scrivere un’opera sulla solitudine di una donna innamorata del marito, ma costretta suo malgrado a tradirlo, e a espiare colla morte la vergogna di essersi fatta sedurre e abbandonare, Janácek non era  propriamente nel cuore degli anni. Le foto del tempo restituiscono un vegliardo brevilineo e tondeggiante, sommerso da una selva di ricci canuti, con due occhietti penetranti che lampeggiano sotto la fronte svettante, e un paio di baffi su un sorriso da ebete, o forse solo svagato. Eppure, nonostante le apparenze, era un musicista famoso. Soprattutto in Cecoslovacchia, la sua patria, una delle piccole nazioni d’Europa nate dalla dissoluzione dell’impero asburgico e del Reich tedesco all’indomani della Grande Guerra, e destinata a diventare la culla delle più profonde rivoluzioni nella cultura del Novecento. Pensiamo a Freud, suo conterraneo, a Kafka, a Max Brod, a dispetto della lingua impossibile come ricorda sempre Kundera,  originario di Brno, il quale venera Janácek come un padre elettivo, tanto da tenerne la  foto nel suo studio di Montparnasse appesa accanto a quella del padre pianista, Ludvik Kundera, che del compositore moravo  fu allievo e sostenitore sin dalla prima ora.

 

Tardivamente famoso, in realtà Janácek era riuscito solo pochi anni prima ad accreditarsi come un innovatore, grazie a un’altra opera meravigliosa, Jenufa, composta nel 1904 e messa in scena nel 1916, dopo ben 12 anni di attesa. In più, con l’indipendenza della Cecoslovacchia, l’intellettuale da sempre filorusso e antitedesco era diventato un nazionalista militante della neonata Repubblica. Si era lasciato alle spalle anni d’incerta fortuna, segnati da ostacoli e incomprensioni. La vecchiaia gli arrideva più dell’infanzia e della giovinezza, trascorse fra stenti e frustrazioni anche se vissute in mezzo alla natura, nelle foreste dei monti Beskydes, quando era libero di rotolarsi sulla neve, di percorrere chilometri a piedi per procurarsi i timpani con cui suonare alla messa della domenica, di sognare a occhi aperti e arrampicarsi sulle rovine del castello medievale di Hukvaldy, il villaggio della Slesia moraviana  dove era nato poverissimo nel 1854, nono dei quattordici figli di un maestro di scuola che insegnava in una stanza sola e dal quale ricevette i primi rudimenti musicali. Rimasto orfano a 11 anni, partì per Brno, la capitale storica del regno di Boemia, città di lingua tedesca detta la Manchester austriaca, per studiare al Convento degli Agostiniani sotto l’ala protettiva di un ex allievo del padre, Pavel Krizkovksy, maestro cantore e autore di musiche sacre, che fece di lui un organista provetto e un compositore in erba. Diplomato maestro di scuola, andò a Praga per perfezionarsi alla Scuola di organo e lì, spaesato, povero in canna,  costretto a esercitarsi su una tastiera di cartone, non potendo noleggiare un armonium, superati gli esami del biennio in un anno solo, alla fine decise di abbandonare  il contrappunto e l’arte della fuga per mettersi a studiare musiche e canti popolari. Nacque così la sua passione per la semantica musicale, e la ricerca delle melodie del linguaggio parlato, che registrava riportando sul taccuino i vari accenti, le intonazioni, le modulazioni della voce, le variazioni della pronuncia di una stessa parola che suonava “a volte morbida come una fiamma, a volte rude e dura come una punta”, e trascrivendo ogni notazione in un suono, in nota musicale, quasi a raccogliere l’inventario completo dei moti dell’anima  e delle loro infinite declinazioni popolari.  “La melodia della parola mi rivela l’enigma nell’anima”, scriverà più tardi nel  diario. E intanto dava vita ai personaggi e alle eroine dei suoi drammi, con la loro varietà di caratteri, temperamenti, traumi, stati di coscienza.

 

 A ispirare il personaggio fu Kamila Stösslová, un’ebrea ucraina di 28 anni, moglie di un soldato al fronte e madre di due bambini

 

Il personaggio di Kát’a Kabanová è quello della moglie innamorata e delusa, la sognatrice piena di illusioni che aspira a volare e rimpiange l’idillio dell’infanzia immersa nella natura, la ragazza genuina e spontanea, angariata da una suocera malefica e ipocrita e tradita dal marito inetto, prima di tradirlo a sua volta con un bellimbusto parassita. A ispirare il suo personaggio fu una giovane in carne e ossa, conosciuta d’estate negli anni di guerra, e divenuta subito l’amica, la  confidente e la musa del compositore. Kamila Stösslová era un’ebrea ucraina di 28 anni, moglie di un antiquario polacco con i capelli rossi, soldato al fronte, e madre di due bambini. “Sai, quando ti ho conosciuto a Luhačovice durante la guerra e ho visto per la prima volta come una donna può amare suo marito – ricordo le tue lacrime – quello  fu il motivo per cui  presi Kát’a Kabanová e la composi”, le scriverà Janácek  il 29 ottobre 1921, invitandola della prima dell’opera a Brno. E bisogna leggere le 700 lettere scritte dal musicista degli ultimi dieci anni (pubblicate da John Tyrrell, Princeton Legacy Library)   per entrare nel romanzo vero all’origine del dramma musicale.

 

A detta della moglie di Janácek, Zdenka Schulzová, figlia del suo preside a Brno, impalmata a sedici anni come un trofeo e ben presto rivelatasi una consorte impossibile, che pativa i tradimenti del marito  e tentò pure il suicidio all’epoca della di lui  tresca con la cantante Gabriela Horvatová, la Stösslová sembrava una zingara. Bruna, media statura, occhi sporgenti, era un tipo allegro, sempre di buon umore, non particolarmente intelligente però, e ignorantissima di musica e di letteratura, oltreché incapace di scrivere senza errori. “Ma di sicuro”, ricorderà la Janáčková nelle sue memorie, “portò movimento e allegria nella nostra triste quiete”, accrescendo ogni giorno di più il suo ascendente sul marito, che intanto orchestrava un’intensa relazione, anche se puramente platonica, pare (anche se in casa Kundera se ne dubitava altamente).  “Se solo potessi buttarmi in qualche composizione e dimenticare me stesso”,  le scriveva Janácek il 10 novembre 1919. All’epoca aveva già fatto dei sondaggi preliminari sul testo che gli sarebbe servito da libretto per Kát’a Kabanová. Ma il vero catalizzatore dell’opera fu Madame Butterfly di Puccini, anzi Batrflay, come egli traslitterava a orecchio. “Rientro adesso dal teatro. Davano Batrflay, una delle opere più belle e più tristi. Ti avevo costantemente davanti agli occhi. Anche Batrflay  è piccolina, ha i capelli neri. Non potrai essere mai infelice come lei. Sono così colpito dall’opera. Quando è uscita, andai a vederla a Praga. Anche adesso molti passi mi commuovono profondamente”, scriveva a Kamila il 5 dicembre 1919. Un mese dopo Janácek cominciò a scrivere la  nuova opera, ispirandosi alla sua giovane amica: “Il personaggio principale è una donna, gentile di natura. Si ritrae al solo pensiero (di ferire, di fare del male); un soffio di vento la porterebbe vita – per non parlare della tempesta che si addensa su di lei”.  Passa un altro mese e il 23 febbraio 1920 sempre da Brno Janácek le scrive: “Sto lavorando felicemente  e laboriosamente alla mia nuova opera. Continuo a dirmi che il personaggio principale, una giovane donna, è di natura così gentile che ho paura che se il sole splendesse completamente su di lei, si scioglierebbe, si potrebbe anche dissolvere. Sai, è una natura così buona e gentile”.

 

“Rientro adesso dal teatro. Davano Batrflay, una delle opere più belle e più tristi. Ti avevo costantemente davanti agli occhi”, le scrive

 

Al colmo del processo creativo, Janácek descrive il personaggio di Kát’a Kabanová con le stesse parole usate per Kamila: “Sei ancora un bambino tenero che vuole essere (tenuto) tutto il tempo nel cotone; sempre accarezzato e coccolato”. E ancora dopo una settimana: “Sei una personcina così pratica e prudente, le scintille quasi volano via da te; la tua andatura e il modo in cui muovi il tuo corpo sono pieni di freschezza e di energia. Tu, che sai come parlare a tre persone contemporaneamente e per tutto il tempo, non dimenticare te stessa – come fai a piangere come un bambino malaticcio e a piagnucolare per tuo marito quando la vita lo porta nel mondo. Lascia che vada! Non scapperò via da te”.

 

Il sogno di evadere nell’arte, nella bellezza e nella perfezione. Nel metodo compositivo alternava il dramma  alla banalità dell’esistenza

   

D’altra parte, oltre la vita vera, oltre le passioni e i sentimenti reali, c’era la precisione maniacale del musicista, che da un lato lavorando sulla melodia del dialogo, la nápěvky mluvy, riusciva a riprodurre la verità psichica della sua eroina, i dubbi, le speranze, l’incertezza, l’angoscia finale, facendola balbettare davanti al bellimbusto riluttante, spingendola a arrossire di vergogna davanti all’immagine di se stessa proiettata dall’orrenda suocera persecutrice. Dall’altro lato, Janácek alimentava della sua stessa passione impossibile il sogno di evadere nell’arte, nella bellezza, nella perfezione, e attingendo a piene mani alla realtà concreta, alternava minuziosamente, secondo la rivoluzione di Flaubert, l’aspetto drammatico e l’aspetto banale dell’esistenza, per cristallizzare l’attimo fuggente nella sua verità. Il suo non era solo un metodo di composizione. Era anche e soprattutto una terapia, l’ancora di salvezza per sopravvivere ricreando un mondo a parte. “Sai che io sogno un mondo per me stesso”, scriverà, finita l’opera, a Kamila il 23 maggio 1921. “Lascio che i miei cari vivano nelle mie composizioni proprio come vorrei. Felicità tutta puramente inventata. La vera gioia, la vera felicità a volte almeno a te sorride. Ma a me? Quando finisco un lavoro – anche questa cara Kát’a Kabanová – mi rattristo. Come se dovessi separarmi da qualcuno che mi è affezionato”.