Foto di Amir E. Aharoni via Wikimedia commons 

il foglio del weekend

Sospesi tra gospel e Dylan

Vittorio Bongiorno

L’ultimo disco dei Low fra tecnologia e rumori. Il cuore dell’America profonda che parte da Duluth, Minnesota

C’è qualcosa di magico nell’intreccio di due voci (un uomo e una donna) che si rincorrono armoniosamente, a perdifiato, cercando di districarsi tra enormi banchi di rumore. Riuscendo sempre, nonostante tutto, a riaffiorare melodiose, più innamorate di prima.

Cantano insieme una cosa che fa più o meno così: “Le conseguenze della partenza, sarebbe più freddo se dovessi restare, anche se è impossibile dirlo, lo so, eppure i cavalli bianchi ci riportano a casa”. Mentre tutto intorno il fragore cresce così tanto che a malapena ci permette di intuire le parole, le loro due voci sono invece cristalline, si tengono per mano, lei e lui, e cantano ancora: “Non c’è molto oltre a crederci, solo uno sciocco avrebbe fede, anche se è impossibile dire, lo so, eppure i cavalli bianchi ci riportano a casa”.

 

A sentirli oggi, nonostante tutto quel rumore, nonostante tutti quegli scricchiolii, i due sembrano Hemmylou Harris e un redivivo Gram Parsons, la Principessa e il Principe maledetto della country music in versione distorta, che rivedono il mito dei “cavalli selvaggi” portati al successo dai Rolling Stones (ma si dice che proprio Gram Parsons ci avesse messo lo zampino…). In realtà i versi di questa “White Horses” appartengono a Mimi Parker e a suo marito Alan Sparhawk, batterista lei e chitarrista lui, entrambi cantanti dei Low, una delle più longeve band di rock indipendente formatasi nel 1993 a Duluth, Minnesota (sì, la città natale di Robert Allen Zimmerman).

Il loro ultimo disco, “HEY WHAT”, uscito in questi giorni per la SubPop, colpisce per le sonorità profondissime e a tratti urticanti, per gli intrecci melodici limpidissimi e i testi toccanti. Una sorta di moderno gospel bianco dall’America rurale, che fa i conti con chi siamo diventati e con la strada che abbiamo imboccato verso un futuro non proprio luminoso. E’ il tredicesimo di una carriera trentennale, e probabilmente è il loro più bello e straziante.

Sentire Alan parlare nelle interviste è curioso, è spesso emozionato, impacciato, perde il filo del discorso e borbotta, “cosa stavamo dicendo?”. Si perde per la sua stessa strada. Però quando la ritrova riesce sempre ad arrivare a vette di grande profondità, anche se parla di chitarre o di come si scrive una canzone rock. E anche se interpellato nottetempo via email racconta la genesi dell’ultimo lavoro con cura e pacatezza, con una gentilezza d’altri tempi e poche parole misurate, spiegando come siano riusciti a combinare la classica forma canzone minimale con l’elettronica distorta, il caos con la poesia, la bellezza alla distruzione. “Non l’abbiamo fatto coscientemente, ma sembra che le canzoni che abbiamo scritto abbiano solo più enfasi sulla melodia vocale. Ma le abbiamo tutte scritte prima di entrare in studio, quindi hanno dovuto stare in piedi da sole prima che iniziassimo a sperimentare e a scavare in nuovi suoni. Siamo cresciuti ascoltando inni di chiesa e musica gospel americana, e la cantiamo ancora regolarmente”. Poi si sente obbligato a precisare. “Quindi è stata una costante. Ci sono alcune canzoni in questo disco che suonano come inni. Inni spezzati ad alto volume”.

Il rumore, appunto, ha cominciato a fare capolino nella musica dei Low solo di recente. L’etichetta slowcore, del resto (tempi lenti e ipnotici, una manciata di accordi) a loro non è mai piaciuta tanto. E’ con l’arrivo del produttore BJ Burton, alla consolle negli ultimi tre dischi, che i due hanno cominciato a sperimentare sui suoni in modo tanto disinvolto quanto proficuo. “Ogni volta che in passato abbiamo osato qualcosa di estremo, siamo stati felici di averlo fatto. Quelle poche volte che ci siamo trattenuti ce ne siamo un po’ pentiti”, ha detto Alan in una recente intervista.

E mi racconta di aver passato le notti in cantina a cercare di far suonare la chitarra come se non lo fosse, modificandone il suono attraverso pedali analogici e digitali, fino a trasfigurare il suono emesso dalla sei corde e renderlo irriconoscibile. Lui lo chiama “aprire la finestra alle ispirazioni”, lasciandosi guidare dall’inconscio, permettendo cioè di assemblare vari elementi in nuove combinazioni. “Fidati del tuo subconscio”, racconta sibillino, “ti butta fuori della roba che magari non ha senso all’inizio, ma poi prende forma”. 

 

Lo psicologo e guru californiano Ram Dass una volta ha detto che il viaggio spirituale oggi non è da celebrarsi in una grotta in Himalaya ma è in relazione alla tecnologia che esiste, è in relazione a dove siamo. Pungolo Alan sull’infinita lotta contro la tecnologia alla ricerca della propria anima.

“Sì, a volte sembra che la stiamo combattendo. Ma è soprattutto in studio, dove stiamo cercando i possibili limiti e confini del mondo digitale, che anima e tecnologia si fondono e/o si ripiegano in un suono imprevedibile, imperfetto, organico. In fondo le macchine, la tecnologia, sono solo uno strumento, e l’arte sta nell’ingannarlo per creare qualcosa di nuovo, di umano e anche bello”.

In effetti, appena parte il nuovo album, sin dalla prima canzone “White Horses” sembra che l’impianto stereo sia danneggiato. Ma è proprio attraverso quel crepitio impercettibile, sapientemente intessuto da BJ Burton, che si comincia a percepire il denso pulsare della vita. 

 

Le canzoni del duo, che durante la quarantena si sono affrancati dall’ultimo bassista Steve Garrington, sono sempre più esili nella struttura (due accordi e un ritornello), ma scavano sempre più a fondo nel cuore di chi le lascia entrare. Quel crepitio non è più il noise di certa musica sperimentale sdoganata dal mainstream, ma è una nuova chiave d’accesso a un viaggio lungo le pareti dell’anima: ci costringe a fare i conti con chi siamo, e con ciò che è custodito al sicuro dentro di noi.

Nonostante la vita da musicisti i due sono praticanti mormoni, il loro canto nasce dall’America profonda, lontana dal luccichio delle due coste. 

Nella profetica “Days Like These” Alan e Mimi intonano all’unisono una cosa che fa all’incirca così: “Quando pensi di aver visto tutto, scoprirai che stiamo vivendo in giorni come questi, dicono che prendi solo quello che porti, forse è solo il modo in cui parlano”. La chitarra di Alan viene pizzicata con tocco gentile per produrre due limpidi accordi, e poi i due ricominciano a cantare, mentre le loro voci vengono offuscate, alterate, distorte. E urlano: “Sappi che farei qualsiasi cosa, è qualcosa che non riesco a vedere? Tutti inseguiti dai sogni, ecco perché stiamo vivendo di nuovo giorni come questi”.
Quando il cantato finisce, e siamo a metà canzone, rimane una lunga coda strumentale, su cui si adagiano suoni alieni, e uno sguardo di speranza verso il futuro.

 

Il suono della batteria di Mimi, che pure era essenziale, qui è addirittura scarnificato, trasformato in un battito ovattato che sembra provenire dal liquido amniotico nel ventre di una madre. Alan ci pensa un po’ su e poi dà la sua spiegazione.

“Nella maggior parte del nuovo disco ci sono solo pulsazioni e grancassa bassa. E’ il battito del cuore, puro e semplice. Minimalista, sottile, diverso, ma non di genere”.

Ancora una volta ciò che fa lui è indistinguibile e inseparabile da ciò che fa lei, non c’è un maschile e un femminile, ma un corpo unico che contiene tutto. “A volte scriviamo entrambi i testi per la stessa canzone, ma è raro. A volte Mimi canta canzoni che ho scritto io, ma noi scriviamo in modo diverso, quindi di solito la voce migliore è di chi l’ha scritta”, specifica lui interpellato sul contributo alla composizione.

In una recente intervista a “Loud And Quite” Mimi ha ironizzato sul successo di nicchia raccolto nel tempo, a fronte di una grande eredità musicale che li fa ancora scommettere su sfide ardue, come quelle intraprese negli ultimi tre dischi. “Non c’è mai stato abbastanza successo da impedirci di continuare a brancolare nel buio con i nostri esperimenti”, le fa eco il marito.

Esperimenti che prendono forma, per esempio, grazie al talento del corpulento artista visivo, musicista e performer Dorian Wood. L’artista dirige se stesso, in mutande in un teatro di posa vuoto, nell’inquietante videoclip di “Disappearing”, dove Alan canta versi tipo “L’orizzonte che sta scomparendo, porta un freddo conforto alla mia anima, un promemoria sempre presente, sempre la stessa faccia dell’ignoto”.

 

“Un saggio una volta mi ha detto di portare gioia e musica in casa mia. E che questa sarebbe stata la chiave per la felicità”, ha detto Alan commosso all’evento organizzato lo scorso luglio al Sacred Heart Music Center di Duluth. Come fare a dargli torto?

Il legame dei Low con la loro città e col famoso concittadino Robert Allen Zimmerman, meglio conosciuto come Bob Dylan, viene rinsaldato lo scorso giugno, quando la prestigiosa rivista inglese Uncut li ha inseriti nel cd “Dylan Revisited”: ai due l’arduo compito di riproporre “Knockin’on Heaven’s Door”, forse la canzone più nota e dunque più difficile del Maestro. Ma i Low hanno accettato la sfida con il solito candore di chi riesce davvero a vedere al buio, di chi non ha paura dell’ignoto, proponendola con un arrangiamento ultra minimale e sognante: Mimi percuote pacatamente il tamburo e il piatto della sua batteria mentre canta, Alan accarezza dolcemente le corde della chitarra tremolante.

Lo stesso candido approccio con cui hanno affrontato, durante tutta la quarantena, lo strambo progetto “Fiday I’m in Low”, la diretta streaming settimanale sul loro canale Instagram, facendo un po’ il verso alla quasi omonima delizia pop dei Cure anni Novanta: mentre da noi si suonavano alla finestra vecchie canzoni coi vicini nella vana illusione che “quando sarà finito saremo tutti cambiati”, Alan e Mimi, ogni venerdì, cascasse il mondo, hanno cantato e suonato in diretta dalla loro cantina per una ventina di minuti, filmati dalla figlia con lo smartphone. Dal 3 aprile 2020 Mimi, col suo particolarissimo drum-kit (un timpano, un rullante e un piatto, suonati con le mazzuole o con le spazzole), Alan imbracciando una chitarra di cartone pressato, se ne stanno entrambi con un microfono, seduti vicini come a scuola. Improvvisazioni, canzoni di altri, e le vecchie canzoni rivisitate per la gioia dei fan. Ogni tanto pure qualche canzone del disco nuovo, registrato in punta di piedi a Minneapolis alla fine del 2020. Quando il bassista Steve Garrington ha dato l’addio definitivo e pacifico alla band, al basso si è presentato Cyrus, il figlio adolescente di Mimi e Alan. Appena le maglie del lockdown si sono un po’ allentate quell’allegro scantinato si è riempito di adolescenti in tuta e ciabatte, lampadine colorate, luci strobo, e il dolcissimo cane Blue (che in realtà è di colore nero). A un certo punto Mimi ha avuto qualche parente da accudire, e al suo posto si è seduto dietro i tamburi il robusto Actual Wolf, l’amico batterista Eric Pollard, che con Alan divide l’altro progetto musicale Retribution Gospel Choir. Alan, dal canto suo, in questo interminabile limbo si è fatto crescere lunghissimi capelli biondi e folti baffoni a manubrio, e ha dato perfino lezioni di chitarra online.

Da noi, si sa, è andata non proprio bene: le chitarre e gli ukulele sono stati riappesi al muro, i vicini sono tornati a essere i soliti stronzi di sempre e la musica è finita, sostituita prima dal pane, e poi dalla rabbia. A Duluth, invece, Mimi è tornata al suo posto dietro la batteria minimale, e Alan pure, alla sua meravigliosa Danelectro Convertible degli anni Sessanta fatta di cartone pressato. “Sono un po’ ossessionato a farla suonare bene”, racconta lui quando faccio ironia su questo mistero tecnologico da quattro soldi che ho comprato anche io durante un viaggio in Usa. “E’ il rottame più fragile, freddo e morto che potresti scegliere di suonare, ma mi ci sono abituato, ed è difficile cambiare. Ha un tono unico, un suono pazzesco”. Hanno trovato anche una nuova bassista, Liz Draper, che li accompagnerà in tour, virus permettendo.

Con l’uscita del nuovo disco sono più uniti che mai, nonostante si conoscano dai tempi del liceo. Quando gli chiedo come fanno a vivere insieme da così tanto tempo e avere ancora voglia di continuare a esplorare paesaggi sonori inediti, Alan risponde: “Crediamo che sia possibile stare insieme oltre questa vita. Aiuta nelle difficoltà e ispira la volontà di continuare a imparare”.

Nella dolcissima ballata “Don’t Walk Away”, che non sfigurerebbe in un disco dei Radiohead, Mimi raddoppia la melodia accennata dal marito, aggrappandosi alla sua voce, ed è l’epifania: “Ho dormito al tuo fianco ora, per quelli che sembrano mille anni, un’ombra nella tua notte, il sussurro nel tuo orecchio”. Non si sa se sia lei a parlare, o lui, o tutti e due insieme. Non c’è alcun ritmo, nessuna chitarra, solo rumore e poesia, un bagliore fragoroso. E’ la magia dei Low, dall’America profonda, direttamente al nostro cuore.