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La morte di Franco Battiato è un dolore di tipo familiare

Stefano Pistolini

La Milano degli anni Settanta, l'inizio della carriera cantautoriale e il connubio perfetto tra la autorialità e la leggerezza della sua musica. Un ricordo di casa Battiato

La malinconicissima notizia della morte di Franco Battiato provoca un dolore di tipo familiare. Per esorcizzarlo vi racconterò in modo estemporaneo le conoscenze che feci con lui in anni lontanissimi, proprio all’imbocco dei Settanta. Che poi è sempre rimasto il Battiato che ho considerato primario, originale, e quello dopo, colto, raffinato e distaccato, il suo doppio, non migliore o peggiore, ma appunto doppio, sovrapposto al ragazzo affannato con il quale avevo avuto modo di fare i conti prima.

 

Tutto avviene a Milano e questo è sostanziale perché colloca Franco nella coda del testardo e potente andamento migratorio che aveva cambiato faccia all’Italia nei Sessanta. Lui inseguiva, ma caoticamente, il sogno musicale. Per farlo aveva lasciato casa e Sicilia ed era salito a Nord, dopo un passaggio a Roma. Il suo ambientamento in quella che era ancora “la città nella nebbia” aveva misteriosamente funzionato, per quanto i pronostici dovessero essere contrari. Invece, l’arte della mimesi e della metamorfosi nella sua testa ingombrata di pensieri e progetti, aveva generato i presupposti esistenziali per farlo sopravvivere. Certo, c’erano rinunce da fare, ma in cambio, una volta infagottato in un cappotto seriamente pesante (non dimenticate, un altro primato di Battiato: è l’unico cantante che ha indossato un colbacco senza apparire ridicolo) Franco aveva cominciato a mettersi in giro per la città e per i cenacoli musicali disseminati qua e là, rendendosi disponibile al miglior offerente, insomma facendo musica su commissione, secondo l’aria dei tempi e mantenendo nella sfera privata il design a cui teneva veramente. Però si dava da fare seriamente. Metteva a frutto le conoscenze, sviluppava un primigenio spirito produttivo “Indie”, quando quella parola non esisteva, era attento alle nuove tecnologie, arricchiva il bagaglio culturale, attivava la visione e poi, se c’era da fare una serata nei panni del cantastorie siciliano bastian contrari, non si formalizzava e andava.

 

Fu a un matinée al PierLombardo che mi sono imbattuto la prima volta in Battiato e nella sua musica. Folgorazione. Stava pubblicando “Fetus”, l’album d’esordio, e aveva pensato di promuoverlo in modo spettacolare. Su quel ridotto palcoscenico presentava uno show che aveva talmente tanti piani di lettura, che un drappello di studentelli spocchiosi capitati là per curiosità non potevano restare indifferenti. Franco aveva un cesto di capelli crespi sulla testa, una specie di corona siculo-hendrixiana che miracolosamente si accordava con la tuta arancione che indossava, probabilmente da meccanico, ma che voleva essere da astronauta. Le canzoni che suonava stavano prodigiosamente in equilibrio tra la rilettura nostrana del prog-rock che allora andava per la maggiore (Genesis, Gentle Giant, Strawbs) e la canzoncina pop da Disco per l’Estate, nobilitata e spedita negli spazi siderali da testi visionari, in cui si parlava di scienza e psiche, di inizi e misteri. Sul palco, tra i membri della band, poco alla volta s’avanzava un enorme tubo di plastica trasparente, dentro il quale il Franco-fetale scivolava, si raggomitolava, volteggiava come l’esserino che viene al mondo. Poi, quando zompava fuori, secco e allampanato, si fiondava ai sintetizzatori che manipolava con una maestria all’epoca riconoscibile solo a Brian Eno (l’arnese era lo stesso: il mitico Arp 2600) cavandone i futuribili suoni dello spazio benigno e sterminato. Con quella visibile patina d’arte di arrangiarsi e con quell’afflato, Franco conquistava i ragazzini, fieri di avere finalmente un modello italiano da seguire, in piedi sulle sedie nel finale dei concerti, quando intonava “Energie” e, anticipando il moribondo di Bladerunner, recitava “Ho avuto molte donne in vita mia / e in ogni camera ho lasciato qualche mia energia”, dopo essersi dimostrato l’unico cantante al mondo in grado di melodizzare la parola “Declorodefenilchetone”.

 

      

Il bello era che Battiato non stava veramente dentro alla sofisticata scena milanese che in quel momento s’andava formando, ovvero ci stava con un piede ma manteneva anche la sua estraneità immigrata, la provenienza distante, lo scetticismo nei confronti della musica “pesante” che doveva trovare il modo di essere anche leggera, che sarebbe stato il più interessante oggetto della sua ricerca negli anni a seguire. Perché questo era molto prima del Cinghiale Bianco e della Prospettiva Nievskij, del Centro di Gravitazione e di Alice, di Giusto Pio, Sgalambro e dei viaggi sufi, ovvero della strutturata e complessa architettura intellettuale di Franco. Che ebbi la ventura di incontrare per la prima volta pochi anni dopo, quando ormai la fama aveva già preso consistenza e la carriera musicale non era più solo un’ipotesi.

 

Un amico mi portò a casa sua per ascoltare delle musiche nuove, lui ci accolse in pantofole e ci portò in una stanza modesta e ordinata dove dormiva e sperimentava le sue cose. Aveva una confidenza, un’umiltà, quell’atteggiamento che oggi si definisce empatico ma che allora aveva la dimensione della interessata disponibilità, aperta e critica e che contiene il senso di quella strana persona multipla che Franco stava diventando. Quando il pomeriggio divenne sera poi, l’arcano di quella mitezza si svelò. La porta della stanza si aprì e apparve la padrona di casa, la mamma di Battiato, vestita da casa, pacata e perentoria. Ci salutò e ci disse che s’era fatta ora di cena. Aveva messo su l’acqua per la pasta e adesso potevamo interrompere di sentire musica e andare di là a mangiare. Lui non mise per un momento in discussione il dettato materno. Che si concluse con l’avviso che per non farla stare preoccupata, Franco doveva mangiare, visto come si era ridotto, magro che sembrava uno scheletro.

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