I La Crus, Cesare Malfatti (a sinistra) e Mauro Ermanno Giovanardi

I La Crus si rimettono in viaggio. Mentre le ombre si allungano

Maurizio Baruffaldi

Mauro Ermanno Giovanardi e Cesare Malfatti tornano in scena riproponendo un contagio teatrale di vent'anni fa. Non sarà però una reunion, ma solo un abbraccio, un breve ritorno a casa

Mauro Ermanno Giovanardi e Cesare Malfatti, in arte i La Crus, tornano sulle loro tracce. E lo fanno riproponendo, dopo vent'anni, il contagio teatrale dal titolo Mentre le ombre si allungano. Brani storici del gruppo rivisitati; brevi testi di giganti della letteratura travasati da un walkman; le immagini di Francesco Frongia, frammenti di cinema antico che sembrano uscire da un sogno, o sul punto di tornarci. Mancano gli odori, ma quelli sono dentro i ricordi. Tecnicamente detti: “appunti scenici”. Lo spettacolo torna in scena per una serie di date che partiranno a Milano, come d'obbligo, dal 2 al 4 luglio, Teatro Elfo Puccini. Non sarà però una reunion, ma solo un abbraccio, un breve ritorno a casa. Era il 2008, quando il gruppo si sciolse, dopo 16 anni. “È la formula che si logora di più, quella di coppia. In due alla lunga è dura” spiega Joe, nome sillaba che distilla il lungo Mauro Ermanno Giovanardi. Cesare Malfatti annuisce.

 

 

In realtà i La Crus sono tre, c'è anche Alex Cremonesi, il dietro le quinte della composizione. Ma non andando in studio, e non salendo sul palco, non partecipava alla routine matrimoniale che consuma. Mentre le ombre si allungano il sole va a tramontare: qualche riferimento alla vostra storia? “È un verso del brano Stringimi ancora” spiega Joe, deludendo la mia costruzione concettuale. “Ci piaceva perché è molto cinematografico; e perché rappresenta l'atmosfera crepuscolare, un po' cupa, dei pezzi dei La Crus”. Perché ripeterlo? “Per far vedere quanto fossimo avanti” risponde d'istinto Cesare.

 

  

Joe è stato direttore artistico di vari festival, ultimo quello di Ancona, che prende il titolo dal suo ultimo disco, La mia generazione, e la sua risposta è più manageriale, calibrata. “L'anno scorso ad Ancona feci fare ai Marlene Kunz la sonorizzazione di un film degli anni '30, e di alcune delle prime riprese subacquee; lì ho pensato al nostro, di incontro tra cinema e musica. Frongia aveva ancora il materiale visivo con le sperimentazioni di Man Ray, e così ho chiamato Cesare. E poi una data tira l'altra”. Guarda Malfatti, aspettando risposta. “È bello tornare a fare date a teatro, e soprattutto all'Elfo Puccini. Perché poi dopo la fine dei La Crus ho fatto solo cose di nicchia. E questa esposizione mi fa piacere. E mi fa bene” Cesare è sincero, e pacato. “Come mi fa piacere tornare a rivivere un bel periodo”.

 

 

A questo spettacolo si arriva dopo il terzo disco, Dietro la curva del cuore, il Premio Tenco e quello PIM. Era il 1999. Ma andiamo con ordine. “Primi anni '90 e io cantavo in inglese nei Carnival of fools” esordisce Joe. “L'etichetta Vox Pop era il centro di un mondo, con l'appartamento di Carlo Albertoli che diventava il centro di feste dell'intero palazzo di studenti; le spinte visionarie di Giacomo Spazio, e un Manuel Agnelli giovanissimo... In questo nucleo di pulsioni originarie vengo spinto da Paolo Mauri, storico fonico di tutti, a fare qualcosa di nuovo, a non registrare con il canonico sedici tracce ma di andare a trovare Cesare, che aveva un piccolo studio al Jungle Sound”.

 

La parola passa a Malfatti. “Era una stanzetta. Facevo tutto con il computer, in midi: quello che adesso fanno tutti. Campionavo giri di chitarra, l'arpeggio di do, insomma era come se li registrassi su nastro, ma li conservavo nel computer. Perché poi, per esempio quando abbiamo registrato l'arpeggio de Il vino non avrei saputo tenere l'arpeggio pulito dall'inizio alla fine”. Di necessità virtù, dice Joe. “Non c'era nessuno in Italia che lo faceva: usare la metodologia dell'hip hop, ma cantandoci sopra, al posto di rappare. I cd con i groove pronti da usare sono usciti dopo. Noi si andava come segugi. A rubare frammenti. Ogni pezzo che portavamo in fondo, avevamo imparato qualcosa in più, per come farlo”.

 

 

Un cantiere. Intanto Cesare da fonico diventa parte del progetto. Ed è Giacomo Spazio a suggerire di cantare in italiano. Intuizione elementare e geniale. “È stata durissima, per me, passare dall'inglese all'italiano. Faticosissimo. La cosa fondamentale era la credibilità, l'autorevolezza: sul foglio bianco le parole sembrano sempre belle, quando poi le canti, invece, alcune volte fanno cagare. Suonano ridicole. O retoriche. Perdevo giornate intere a cercare quello che si potesse cantare sulle atmosfere create dai Cesare con i campioni”. Un lavoro di scalpello. “Pensa che traslocando”, prosegue Joe, “ho trovato due scatoloni pieni di testi, e per la sola Vedrai 15 tematiche diverse con la stessa melodia”. Continua Cesare. “La Wea ci prendeva in giro, perché portavamo tutti i provini con i lailala”. E qui entra Alessandro Cremonesi, il terzo La Crus, l'invisibile. “Per anni, finito il lavoro, alle sei di sera, veniva da me, a lavorare sulle parole. E su alcuni suoi provini voce e chitarra. Ci abbiamo messo due anni e mezzo a portare a casa il primo disco proprio perché non avevamo metodo preciso; intanto spedivamo provini e venivamo rimbalzati”.

 

 

Fino all'apparizione televisiva a Tortuga su Raitre, contenitore culturale alle settemezza di mattina. Questo nel '93. “L'amico comune Davide Sapienza, poi compagno di vita di Cristina Donà, conduceva il programma e ci invita per eseguire Il Vino di Piero Ciampi; nella stessa trasmissione De Angelis presentava un libro sull'opera del grande livornese. C'erano Mox Cristadoro alla batteria e Manuel al pianoforte”. YouTube certifica il bel momento. L'anno dopo De Angelis li invita al Premio Tenco, senza un disco fuori, e mezz'ora dopo l'esibizione al teatro Aristotele i La Crus ricevono la proposta di contratto di management con la Mescal, che nasceva in quei giorni. Nell'ora successiva con l'etichetta Warner, con la quale pubblicheranno poi 8 dischi.

Joe riflette ad alta voce, di dove potrebbe essere il primo demo, di quei tempi. Cesare dice che forse ce l'ha anche lui, da qualche parte. Io intervengo per dire che in quel 1995 andai in un piccolo negozio al Centro Bonola, che mi avevano confermato al telefono di averne una copia: La Crus.

  

  

“L'S900 era lo strumento” spiega Joe. “Collezionavamo campioni, che erano idee. Un lavoro permanente. Facevamo girare il pezzo in embrione, e provavo varie porzioni iniziali e finali per vedere se ci stavano”. Joe se la ride, confessando che il campione di Natura morta, da MC 900 Featuring Jesus, viene usato per la versione dello spettacolo anche su Stringimi ancora. Cesare conferma che spesso usavano gli stessi anche per tre o quattro pezzi. “Vabbè, ci dicevamo: abbiamo i nostri campioni, sono la nostra cifra stilistica, cosi come uno suona a modo suo la chitarra classica: li deformiamo, li mastichiamo, poi li usiamo”.

 

Oltre alla suggestione autoriale, c'è il lato pratico a contendersi la verità. “Lui era un rompipalle, e non voleva mai cambiare”, dice Cesare. “E tu ti rompevi il cazzo a trovare altre cose” ribatte Joe. Che poi, preso da una specie di folgorazione si alza e va rovistare in uno scatolone. Ha appena traslocato, è in fase di convalescenza emotiva, dopo aver dovuto tagliare il cordone con l'utero monolocale di sempre. Torna con una manciata di cd. Su ognuno un cerotto adesivo di carta con scritto il numero della traccia, T5, e l'escursione in secondi: dal 6 al 10, quattro secondi di campione. “Campionavamo anche dai dischi per imparare il jazz”, interviene Cesare. “Da una parte c'erano batteria e pianoforte, dall'altra batteria e contrabbasso”. E dal vivo?

“Sul palco era un dj set cantato” continua Cesare. “Con in più il batterista, che soffriva, con lo stoc-stoc nella testa (il famigerato clic, o metronomo, che comanda il tutto)”. Poi arrivò la tromba di Paolo Milanesi, facile da portarsi sul palco, quella che ha reso struggente il marchio La Crus. E gli archi. “Non potevamo avere un quartetto, allora Cesare chiede alla Wea di pubblicare un vinile con solo le parti di archi. Siamo andati a Sofia a registrarlo, suonato in un auditorium da 5000 persone, tutto vuoto. Cesare ci faceva sopra dei segni, e li inseriva a tempo”.

 

Al terzo disco i La Crus diventiamo più tradizionali nel metodo compositivo. “L'originalità si è un po' persa” dice Cesare. “I campioni diventano ritmici, e non più armonici. E si affacciano i primi ritornelli. Si parte dagli accordi, si trova un groove interessante, si spostano accenti, dilatano delle note, insomma, si cerca di far funzionare le due cose”. Quello che oggi è regola, allora era esplorazione.

 

Anche per questo spettacolo sono state registrate le basi su vinili. Cesare non lo vuole il computer. Le ha ristudiate, modificando le parti per adattarle meglio al tempismo dell'inserimento, e adesso in scena va con un doppio vinile bianco, il logo della tournée, e il titolo: Mentre le ombre si allungano.

“A un concerto a Urbino, per un festival, Frequenze disturbate, conosciamo Gilberto Santini, diventato per un periodo il quarto La Crus, che ci mette in contatto con Ferdinando Bruni, e con lui Francesco Frongia” inizia a raccontare Joe. Per tutta l'intervista i due si sono trovati poco sulle date dei fatti riesumati, Cesare più dubbioso, Joe sempre convinto. In questo Cesare si preoccupa di non dilatare, ma Joe puntualizza, sicuro, ha bisogno di dare il la alla narrazione.

“Le atmosfere dei La Crus si prestavano al teatro, sosteneva Ferdinando. E così nel settembre del '99 a un altro festival, organizzato da Franco Bolelli, facciamo una prova, un set di 20 minuti con computer, e i campioni di immagini di Francesco. Cinque o sei pezzi. E da lì la voglia di farne almeno un'ora da portare in teatro”.

 

Nella cartella stampa si dice che in scena ci sarà un walkman. “Sì, sono una decina di poesie di grandi autori, registrati in studio da Joe” spiega Cesare, “poi travasate in cassetta. Il walkman attaccato al microfono crea una audio lontano, ruvido. Come appunti della memoria. La suggestione di un oracolo. Recitato sarebbe più prevedibile”. Joe ascolta e pensa, e allora lo fulmino con il domandone: lo spettacolo ricalca quasi fedelmente quello di vent'anni fa: cosa sarà diverso? “Io canto meglio adesso” risponde senza esitazione”. Però forse c'erano una fragilità e una freschezza che si sono un po' perse, ribatto. Ma non arretra. “Il passaggio dall'inglese all'italiano è stato così complicato, che faccio fatica a sentire i primi dischi dei La Crus. Era una voce monotona, e in più adesso è più vera, naturale. Quella era sopra le righe”. Il tempo ci cambia un po' dappertutto, è ovvio, ma sull'esecuzione dello spettacolo Cesare non vede grosse differenza. “Schiacciare play, per me è sempre uguale. Ma anche la gioia di farlo è la stessa”. Lo spettacolo viene definito poetico. Parola abusata, quindi sempre più spaesata. Poetico perché? Cesare ci pensa un po'. “Per il ritrovarsi in un'atmosfera in cui senti tutto, e stai bene”, dice. “Ti senti immerso, però in un'altra dimensione”. Joe conferma: “Un viaggio fatto solo per il gusto di andare da un'altra parte. Nessun altro scopo”. Allora veniamo anche noi.