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il foglio della moda

Perché De Meo farà quello che nessuno osa fare (tagliare i rami secchi, nel caso McQueen)

Sean McGirr

Il mondo McQueen è finito: è una moda senza immaginario, perché heritage non significa copiare l’archivio, come credono i giovani direttori marketing, ma innestare un pensiero contemporaneo su un passato forte e ancora valido

Visto che ci pregiamo di captare l’aria che tira con un refolo di anticipo, già lo scorso giugno, in un lungo articolo per le pagine culturali del sabato, avevamo scritto quanto fosse incongrua, o per meglio dire comoda e ipocrita, la pretesa del sistema della moda, tenacemente abbarbicato ai suoi piccoli privilegi, di preservare ad aeternum il sistema stesso e dunque anche quei marchi che hanno fatto il loro tempo e che sarebbe ora di riporre nell’armadio della storia della moda, a dispetto di quanto si raccontano i direttori marketing e commerciali perché vuoi mettere campare su un piccolo capitale di notorietà, sia pure vecchio e slabbrato, invece di ricominciare tutto daccapo che fa molta fatica, costa, ma soprattutto è un rischio per la carriera. Scusate per l’autocitazione, che è brutta cosa, ma ecco quanto scrivevamo: “Qualche settimana fa, parlavo del caso McQueen con uno dei consulenti strategici che vanno per la maggiore; si diceva convinto che Sean McGirr, il creativo prodigio messo a capo dello stile del marchio, avesse ancora bisogno di qualche stagione per entrare nello spirito del fondatore.

Gli ho chiesto per quale ragione, essendo appunto McGirr così bravo, non avesse diritto all’apertura di un atelier a suo nome, senza essere costretto a replicare, ovviamente senza riuscirci, i fantasmi di un ragazzo londinese di molto genio e terribile angoscia che si è suicidato quindici anni fa. Ha replicato che “la community” del marchio è ancora abbastanza forte, al che ho ribattuto di provare a scendere per strada e di chiedere a un ventenne chi sia stato Lee Alexander McQueen, e la conversazione si è chiusa con tante promesse di vedersi per un caffè nei prossimi mesi”. In quelle settimane, quando era già molto evidente che il grande albero della moda, per continuare a esistere, avesse bisogno di una bella scrollata ai rami e anche che ne venisse tagliato qualcuno, Luca De Meo non era ancora stato nominato ceo di Kering sebbene, dalla rapidità con la quale sta agendo da inizio settembre, è molto, ma molto probabile che avesse già iniziato a mettere mano al dossier del gruppo della famiglia Pinault e all’incredibile cifra debitoria accumulata, 9,5 miliardi di euro, in un momento di difficoltà per il mercato per le molte ragioni economiche, di posizionamento e di mantenimento delle promesse di cui scriviamo da due anni buoni.

Qualche settimana fa, dopo aver rinegoziato l’acquisto di Valentino, De Meo ha ceduto Creed e tutto il segmento beauty a l’Oréal per 4 miliardi, inclusivi di un lucroso contratto che porterà royalties per mezzo secolo e ha sconvolto il mercato dichiarando l’esatto contrario di quello che i modaioli si aspettavano dopo la più ricca stagione di debutti creativi dell’ultimo ventennio e cioè che, stante la situazione attuale di mercato, forse è davvero arrivato il momento di ribilanciare o per meglio dire di ridurre il peso dei direttori creativi al minimo perché una collezione di moda possa dirsi tale e non campionario, e di dimezzare i tempi di produzione. Al di là dello sconcerto offeso che l’ha accolta, l’affermazione rivela un’ovvietà, e cioè che piccola pelletteria, cappellini, t shirt, tute quando ci sono e insomma tutta la fascia di primo accesso ai brand deve essere di facile approccio, di stile ed economico, che è cosa che si fa da sempre ma che nessuno esplicita, perché raccontare la favola del direttore creativo che sovrintende anche al design del portachiavi è troppo bella perché se ne interrompa l’emozione.

Per quanto riguarda l’accorciamento dei tempi di produzione, dettato come naturale dalla necessità di non lasciare troppo spazio al fast fashion per trasformare quel venti per cento di libera creatività che si ritiene buona e giusta in nuovi pascoli per la loro moda, che peraltro ormai non è più nemmeno copiata perché nomi come Zara e Cos possono permettersi di pagare i direttori creativi più importanti, poche sere fa, a una cena milanese, il ceo del gruppo Florence Attila Kiss al quale avevamo chiesto un parere si è detto totalmente d’accordo con De Meo perché il problema dei dodici mesi di tempo ufficialmente necessari per trasformare un’idea in un capo in vetrina si potrebbero facilmente accorciare se le varie fasi di taglio, cucitura, ricamo eccetera non fossero divise fra façonisti diversi (immaginiamo che, a questi scopi, le peculiarità del gruppo di filiera certificata che dirige verranno molto utili, dunque molti auguri). Mentre il mondo della moda spia tutte le mosse di questo alieno venuto dal mondo delle quattro ruote che ha l’ardire di trattare la moda per quello che è diventata, cioè industria di massa, e non per quello che gli uffici comunicazione continuano a raccontare sia, ovvero una rete di piccoli sarti e artigiani chini ogni giorno al deschetto per produrre meraviglie che è giusto pagare 4 volte il loro valore elevato alla terza potenza, nel parterre di chiacchiere attorno a Kering è arrivata un’altra notizia, e cioè che vi sono diverse ridondanze presso il brand Alexander McQueen a partire dai dipendenti e dunque, dopo aver ufficializzato la prossima soppressione di cinquantacinque posti di lavoro nella sede londinese, pari al venti per cento dell’organico della sede stessa,  e la volontà di riportare “il marchio a una redditività sostenibile entro tre anni”, è iniziata a circolare l’altra ovvietà di cui scrivevamo la scorsa primavera, e cioè che se Sean McGirr è tanto bravo come tutti dicono a prescindere dalle sfilate che mette in scena, è giunto il momento di scommettere sulla sua linea e di procedere con l’unica scelta possibile ora che noi della X Generation siamo rimasti gli ultimi ad aver assistito alle sfilate del fondatore e che abbiamo scritto articoli dolenti nel giorno della sua morte: chiudere McQueen finché potrà ancora godere degli ultimi sprazzi di una gloria che, stagione dopo stagione, va perdendo di lucentezza e di senso.

La moda di Mc Queen senza McQueen, i suoi demoni, le sue ossessioni, la sua sartorialità minuziosa, senza nemmeno il suo braccio destro Sarah Burton che da un anno è andata a dirigere Givenchy, è una lunga sequenza di giacche con le stecche e di gonne e pantaloni balloon. È una moda senza immaginario, perché heritage non significa copiare l’archivio, come credono i giovani direttori marketing, ma innestare un pensiero contemporaneo su un passato forte e ancora valido. E quel passato non lo è più. Il mondo di McQueen è finito, come quello di John Galliano, e lo scriviamo con il senso di una profonda e dolorosa consapevolezza, perché Galliano è stato il più grande creatore dell’ultimo mezzo secolo. Ma così come nessuno mette più in scena e sue sfilate coltissime, spiazzanti e faraoniche, ben pochi ritengono divertente vestirsi come negli anni in cui la Russian Fashion Week interagiva con quella di Milano e si inauguravano boutique di lusso sulla Strada Dritta di Damasco. Quel mondo è finito, distrutto talvolta anche fisicamente, una discreta parte dei suoi protagonisti è scomparsa, la gente quando spende preferisce farlo per viaggiare o farsi bella, magra, tonica, senza contare che esibire abiti fosforescenti nelle piazze dove ogni giorno si manifesta per qualcosa di davvero “rilevante”, rubiamo l’avverbio peggio usato di quest’anno, rischia di certificarti come cretino.

Le uniche spese accettabili e accettate sono quelle che anche le nostre nonne avrebbero approvato, cioè di grandissima qualità, destinate a durare, sebbene perfino in Giappone stiano lanciando l’allarme per la progressiva riduzione degli ordini di quei kimono preziosi che venivano trasmessi di madre in figlia. Il resto, l’ottanta per cento del mercato o di quello che ne rimarrà, può essere solo divertente, avere un prezzo accettabile, non essere troppo sfacciato, se prodotto localmente meglio anche perché avrete notato che nessuno parla più di agenda della sostenibilità. Nel suo accordo con l’Oréal, vale la pena di puntualizzarlo, De Meo ha inserito la creazione di una joint venture per lo studio e lo sviluppo di tecniche per la longevità. Non crediamo intendesse quelle dei marchi di moda, e il suo esempio sarà seguito da molti. Anche dagli stessi vertici del gruppo Kering che, prima del suo arrivo, ridacchiavano alle cene parigine domandandosi chi avrebbe avuto il coraggio di rivedere prezzi e modalità produttive. Ecco, lui.

 

I forzati dell'heritage. L'ultima sfilata di McQueen a firma di Sean McGirr

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