Glenn Martens, direttore creativo di Maison Margiela e Diesel, sul set della campagna per la linea limited edition che ha creato per H&M

il foglio della moda

Il prezzo giusto. Come fare quattro conti in tasca alla moda

Fabiana Giacomotti

Sotto qualunque aspetto vogliate vederla, che sia dalla filiera (le storture si correggono pagandola meglio, innanzitutto) fino alle nuove collaborazioni fra stilisti-star e fast fashion, è arrivato il momento di introdurre nel sistema quel vecchio concetto caro al mass market: il rapporto fra valore e costo. Che non può essere semplicemente “percepito”

In estrema sintesi, non è una questione di stile o di disaffezione, ma di prezzo. Vero, percepito, troppo basso, troppo alto, mancato, ipotetico. E’ un problema di soldi quello che agita il presidente della Camera della Moda, Carlo Capasa, quando lamenta la mancata inclusione nel ddl Concorrenza approvato in Senato delle misure già annunciate dal Governo per contrastare l’ultra fast fashion, un fenomeno che sta in effetti mettendo in seria difficoltà la filiera del Made in Italy, mentre il ministro Adolfo Urso risponde che provvederà “al primo provvedimento utile”. E’ una questione di prezzo la scissione commerciale in atto in Francia fra Galéries Lafayette e la Société des Grands Magasins dopo la decisione del suo patron Frédéric Merlin di ospitare il marchio cinese Shein (da ore al centro di una polemica planetaria anche per la vendita di bambole gonfiabili di aspetto infantile sulla piattaforma: il governo francese chiederà di avere l’elenco degli acquirenti, e i vertici cinesi si sono messi a disposizione per fornirglieli, fossi nei panni della Polizia Postale italiana farei un giro online a mia volta, chissà che cosa potrebbe saltare fuori) all’interno di cinque negozi affiliati. E’ una questione di prezzo la battaglia per la trasparenza della filiera che è il vanto dell’Italia perché, la neo-presidente di CNA Federmoda Nazionale Doriana Marini l’ha espresso chiaramente nell’incontro che abbiamo avuto una decina di giorni fa alla Camera (leggere a pagina 2), un rapporto equilibrato fra richieste e prezzi pagati alla filiera sana e pulita eviterebbe che alcuni piccoli laboratori, presi alla gola, subappaltassero a laboratori che non rispettano le minime norme della sicurezza sul lavoro e sottopagano i dipendenti (e su questo, vale la pena di aggiungere che se i manager delle grandi aziende della moda non fossero stati premiati per anni per i tagli sui costi che riuscivano a praticare, forse qualche stortura in meno ci sarebbe stata. Come sottolineava Antonella Centra, avvocato specialista ESG già ai vertici della pratica in Gucci, i modi per capire come e dove intervenire sono evidenti già alla lettura dei bilanci, a sapere e a volerlo fare). Come dice spesso Brunello Cucinelli, pagare un capo cinque euro in più a chi lo produce non erode i margini in maniera significativa e mette tutti nelle condizioni di lavorare meglio, con paghe più eque e maggiori soddisfazioni, oltre a rassicurare un pubblico che è sempre meno interessato a pagare pro quota al brand la festa alla quale non ha partecipato e la sfilata hollywoodiana a cui ha potuto assistere solo su Instagram e che, dopo gli ultimi scandali sulle storture della filiera, ha iniziato a farsi sospettoso. Ma è chiaro che anche i brand si stiano rendendo conto del cambio di passo.

   

Poche settimane fa, nel corso della presentazione della nuova ricerca di Deloitte sull’evoluzione del branding, non necessariamente della moda, condotta in sette paesi e su un campione superiore alle settemila persone (leggere a fianco l’editoriale di Andrea Laurenza, partner di Deloitte che alle molte competenze, anche musicali visto che ha fondato anche la radio del colosso del consulting e scrive libri sulla storia del pop, è a capo della divisione consumer industry per l’area del Mediterraneo Centrale), è risultato evidente quanto i marchi commerciali continuino a rappresentare un punto di riferimento per i consumatori, addirittura superiore al brand-governo che, in alcuni Paesi fra i quali l’Italia non è estranea, gode di una fiducia inferiore a quella della propria comunità (negli Emirati, la fiducia nel governo è al contrario altissima). Ma se le aziende con identità chiare, narrazioni autentiche e relazioni dirette continuano ad avere risultati buoni al punto che gli analisti, forse per risollevarsi il morale, li prendono come il segnale di recupero del settore che non sono, perché al contrario il mercato si polarizzerà sempre di più, è anche vero che “esiste una propensione elevata all’infedeltà, allo switching”. Si cercano le occasioni migliori, un rapporto corretto fra costo e benefici: che la linea sviluppata da Glenn Martens per H&M, peraltro ampiamente ispirata alla storia del celebre designer Martin Margiela di cui ha preso la direzione creativa meno di un anno fa, sia andata esaurita in quattro giorni, (le vendite sono iniziate la mattina del 30 ottobre, ieri non c’era più un capo disponibile in tutto il mondo), la dice lunga sul tipo di moda che la gente vuole comprare oggi e soprattutto quanto intenda spendere per un capo nuovo che sia divertente e “faccia la stagione”, che è esattamente quello che si dicevano le nostre mamme quarant’anni fa, quando vestirsi dagli stilisti era una cosa eccitante, accessibile e non quella barba sull’heritage e i codici-iconici che spesso sono solo una scusa per alzare prezzi di oggetti e abiti industriali oltre i limiti dell’accettabile e fino a quando il gioco regge (a proposito di marchi storici e di heritage, poche ore fa la maison Balmain ha annunciato di aver risolto consensualmente e dopo quattordici anni il contratto con Olivier Rousteing, che vi era entrato a ventiquattro anni, geniale e simpatico e anche rivoluzionario, ma che nel mentre ha del tutto cancellato il ricordo della jolie madame del fondatore, Pierre Balmain, che vestiva gratis Gertrude Stein e Alice Toklas perché le trovava, giustamente, geniali e che per anni decorò e inghirlandò di fiori le “prime” del Teatro alla Scala). Fino ad oggi, nella moda, il value for money era un concetto antipatico, e la sua applicazione, benché ampiamente praticata, del tutto indicibile. L’universo lessicale e semantico della moda di alta gamma era flou, evanescente; per anni, all’inizio del millennio, siamo stati tormentati con l’epica del “lusso accessibile” che in alcuni casi assomigliava alla produzione delle catene a basso costo. Ora, il value for money è diventato il perno attorno al quale, sebbene con circonlocuzioni alate e seducenti, si tenta di far comprendere a clienti ipotetici e in occidente ad eccezione degli Usa molto riluttanti, perché valga la pena di spendere la tale cifra in un cappotto. Il punto, dunque, è diventato un altro, e cioè stabilire quale sia il giusto equilibrio fra credibilità e prestigio di brand, valore intrinseco del capo e costo stampato sull’etichetta, dopo due generazioni in cui il brand ha fatto aggio su tutto e anche i content creator che additano le storture della filiera nazionale senza aver messo mai piede in una fabbrica non sarebbero in grado di distinguere un’armatura da un’altra e il satin da un raso duchesse. “Si tratta di un equilibrio in cui intervengono molti fattori, anche congiunturali, sebbene non varino di molto: un rapporto solido, che si costruisce col tempo, rappresenta anche un conforto per il cliente”, dice Gianni Giannini, presidente di Doucal’s, a cui fa eco il ceo di Peserico, Riccardo Peruffo, indicando quello che è sempre di più uno dei punti deboli del sistema: “Il rapporto corretto è un equilibrio tra valore percepito del brand e qualità tangibile di prodotto, con un prezzo che rifletta l’eccellenza artigianale senza ostentazione. Il cliente deve sentire di pagare per l’autenticità, non per il marketing”, che è la scelta compiuta anche da Beatrice Beleggia, messa dal babbo Lanfranco, fondatore del gruppo Brosway, a occuparsi del brand Pianegonda, nel momento in cui ha sviluppato una linea con la designer di moda e gioielli Maria Vittoria Paolillo: “Vogliamo che i giovanissimi si sentano a loro agio con un brand storico come questo e il suo nuovo design”. Dunque, margini ridottissimi, investimento sulla costruzione della fiducia nei confronti di una linea che si affaccia sul Quadrilatero, poi si vedrà.

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