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Shein apre a Parigi. Sui dazi all'ultra-fast fashion aveva ragione Trump
Il grande non detto delle sfilate di Parigi è l’inaugurazione prossima ventura della prima boutique europea del colosso cinese. Ne seguiranno altre cinque. Insorgono le Galéries Lafayette contigue e la Federazione del pret-à-porter. Bisognava pensarci prima. Come correre ai ripari
In attesa di fare i complimenti a Pierpaolo Piccioli per la sua prima collezione per Balenciaga e anche per aver ricevuto la prima standing ovation della settimana della moda di Parigi, nel corridoio che porta al backstage della sede di Kering, l’ex ospedale Laennec in re de Sèvres due operatori di primissimo livello del sistema moda nazionale commentano sabato sera a bassa voce la notizia che nessuno avrebbe voluto ricevere e che, nonostante riguardi ufficialmente solo la fascia bassa del mercato, in realtà avrà un impatto devastante su tutta la moda, ed è l’apertura, a novembre ma davanti al BHV Marais abbiamo già visto i primi capannelli di gente che si informa, del primo negozio fisico di Shein in Francia, e in Europa. Le ha ceduto gli spazi per inaugurarlo la Société des Grands Magasins (SGM) della famiglia Merlin, proprietaria anche di alcuni grandi magazzini Galeries Lafayette. Immobiliaristi.
Le cose non vanno benissimo, la società di Chris Xu offriva molto. Secondo i piani, dopo Parigi nell’Esagono apriranno altri sei negozi Shein: uno all'interno delle Galeries Lafayette di Digione, poi a Reims, a Grenoble, ad Angers e a Limoges.
Il gruppo Galéries Lafayette, contrariatissimo dalla futura contiguità con “il posizionamento e le pratiche commerciali di Shein, incomptibili con il nostro posizionamento”, ha agitato di poter adire le vie legali, mentre il presidente della Federazione Francese del Pret-à-porter, Yann Rivoallan, l’altra sera è andato perfino a Tf1 a denunciare il pericolo di dare credibilità e status al gigante dell’ultra-fast fashion cinese concedendogli di vendere i propri abiti, che una multa da 40 milioni di euro comminata lo scorso luglio in Francia per “pratiche commerciali ingannevoli” hanno certificato come inquinanti, tossici per chi li indossa, cuciti in ogni spregio alle norme del lavoro. La risposta dei rappresentanti di Shein, sibillina, suonava più o meno così: i nostri clienti nel mondo hanno espresso il desiderio di avere un contatto diretto con noi, che cosa possiamo fare se non accontentarli. Ecco, bisognava respingerli. Come ha fatto finora Donald Trump con i suoi dazi a quota zero sui prodotti di importazione cinese e con le lunghe opposizioni della SEC, in realtà iniziate anche sotto l’amministrazione Biden, allo sbarco a Wall Street del colosso da 38 miliardi di dollari di fatturato.
Nell’Europa tanto accogliente che fissa a 150 euro la soglia dell’imposizione daziaria, tutti i capi di Shein, la sua intera produzione resta abbondantemente al di sotto di questa cifra. Questo spiega non solo perché il saldo commerciale fra Italia e Cina sia a favore di Beijing (nel 2024, l’export verso Beijing è calato del 22,8 per cento), ma perché tutta l’Europa si prepari a un’invasione senza precedenti di merce (non solo di moda, ma anche) di produzione cinese: il flusso di merce a basso costo, oggi resa meno attrattiva negli Usa, rischia di far crollare occupazione ma anche cultura del famoso “bello e ben fatto” del Made in Italy di cui la politica si fa bella al punto di averle intitolato un ministero. In attesa di una sfilata nei pressi, abbiamo chiesto al gruppetto di (ahinoi, turisti italiani) che si informava sull’inaugurazione di Shein perché comprassero beni prodotti senza regole e senza etica. Hanno fatto spallucce, ribattendo di non avere i mezzi per comprare altro, e che pare loro che anche i brand del lusso spesso non le rispettino, quelle regole. Da cui è chiaro che le campagne di informazione sulla in-sostenibilità dell’ultra-fast fashion non sono state sufficienti e tanto meno efficienti, che la coscienza ecologista dell’Europa è una balla colossale mentre la sua propensione alla soddisfazione immediata ed egoista è prioritaria ed effettiva, e che i brand hanno un grosso problema da risolvere, perché se la gente si abitua al brutto e mal fatto, recuperare terreno sarà difficile. Da Valentino epoca Alessandro Michele abbiamo visto in passerella un generale alleggerimento del messaggio, un bel concept che guardava agli Anni Quaranta e alla loro reinterpretazione nei primi Settanta da parte di Yves Saint Laurent, bellissime scarpe e borse, ma anche un evidente taglio nel costo dei tessuti. Gli abiti di satin o di seta leggerissima si avvolgevano alle gambe delle modelle o svolazzavano nell’aria senza tenere la forma, ed era un peccato. Nel lusso, tentare di recuperare fatturato abbassando la qualità non è la strada più efficace. Per la moda che si percepisce di serie A è ora di correre ai ripari.

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