
Cate Blanchett sosta davanti allo "Sposalizio della Vergine" di Sandro Botticelli (1445 - 1510) alla Pinacoteca di Brera (courtesy SGP Italia/Alfonso Catalano)
Il foglio della moda
Le nuove cattedrali della moda
I brand in crisi corrono a cercare suggello e certificazione nelle pinacoteche e nei musei più importanti del mondo, mentre i visitatori in aumento certificano che in questi “templi laici” si cerca oggi la risposta all’inquietudine. Il direttore generale della Grande Brera, Angelo Crespi, parla del difficile equilibrio fra la scelta e la necessità di fare della cultura un’impresa nel senso più nobile
“Oggi, i musei sono cattedrali laiche agenzie di senso in un periodo storico di grande incertezza. Per questo è aumentata la loro frequentazione; perché fra le loro sale si cerca la salvezza non solo la bellezza, ma identità, risposte alle proprie inquietudini. E per questo, anche la moda ha aumentato le proprie richieste di avvicinarsi all’arte museale”. Quando incontro il direttore generale della Grande Brera, Angelo Crespi, manca qualche giorno all’apertura della grande mostra celebrativa del cinquantenario di attività nella moda di Giorgio Armani. Lo stilista è mancato pochi giorni prima, due week end dopo questa mattinata di sole pre-autunnale ancora caldissimo, una squadra di duecento operai creerà nel cortile del palazzo e lungo il peristilio una sala effimera e incantevole per una sfilata che, scritto ex post è evidente, entrerà nei libri di storia della moda, e la smonterà nella stessa notte per permettere la ripresa regolare delle lezioni dell’Accademia il lunedì. La capacità organizzativa delle squadre di allestitori del “signor Armani”, come lo chiamavano tutti, è leggendaria: nel settembre del 2018, venne organizzata una sfilata con concerto di Robbie Williams per migliaia di persone nell’hangar di Linate che espone l’insegna dell’Emporio dal 1996. La mattina dopo, tornai in aeroporto per prendere il volo per Napoli delle otto: della magia della notte precedente, gradinate comprese, non c’era più traccia. L’argomento chiave per il quale ho chiesto a Crespi che ci incontrassimo è che raccontasse il suo punto di vista sull’assalto a cui la moda ha sottoposto negli ultimi tempi i musei di mezza Europa. Non i musei della moda, naturalmente preposti allo scopo e di cui, a Milano, Palazzo Morando è l’esempio più rilevante, ma le pinacoteche d’arte classica, i musei archeologici, i luoghi insomma finora inaccessibili alle gonne e alle giacche in serie, o anche couture. Ogni giorno qualcuno, non sempre rilevantissimo, annuncia la sua prossima sfilata e/o presentazione e/o cena nelle meravigliose sale affrescate della tale località imprescindibile: Versace alla Biblioteca Ambrosiana comunque riallestita per sembrare l’appartamento che non è, i lasciti di Ferré nei castelli della Valle d’Aosta, gli esempi sono infiniti, mentre, per converso, gli amministratori locali ti telefonano per sapere se saresti disponibile a rilanciare la tal villa in decadenza con un po’ di vestiti perché la mostra è ormai utile strumenti di comunicazione e posizionamento da ambo le parti, benché fra i piatti della bilancia, quello della moda sia ancora il più leggero, ancora e anzi più necessaria la sua certificazione come agente culturale di valore, dopo che il suo cachet come creatrice di tendenze e interprete dell’evoluzione sociale inizia a perdere lucentezza e smalto.
Talvolta, come nel caso della mostra “Per amore”, una definizione che nel lessico armaniano degli ultimi anni è tornato anche nel suo ultimo libro autobiografico, l’esposizione è imprescindibile davvero e spiega le lunghe file che si formano ogni giorno lungo lo scalone che porta alla Pinacoteca per visitarla. Suppongo che, dopo le immagini di Cate Blanchett ferma per lunghi minuti davanti allo “Sposalizio della Vergine” di Raffaello, Brera sarà il “place to be” di milioni di influencer che di solito si fotografano davanti alle vetrine dei brand, e credo che altrettanto si aspetti Crespi che, in un’intervista di poco successiva alla sua nomina, ma lo ribadisce adesso, disse che “i musei sono imprese perché in questo termine c’è anche l’idea del coraggio e di osare”. Imprehendere, dal latino: afferrare dentro, cioé gestire, portare con sé, sviluppare. Di Armani sono in mostra centoventi abiti, il minimo per una storia così importante, e non vi è alcun impatto sull’allestimento permanente, nessuna ricerca visibile di “richiami” o “collegamenti” come ovvio impossibili. Pedane semplici, una minima attenzione cromatica e di forme, un senso al tutto dato dall’atmosfera del luogo e dalla comunanza di sentire fra le due istituzioni. Armani stesso aveva voluto così, dopo aver fatto un sopralluogo qualche mese fa con Crespi, di quella visita rimane una traccia fotografica: “Percorrendo le sale, aveva specificato che mai avrebbe voluto confrontarsi con maestri come Bellini o Mantegna”. Questa ennesima prova di grandezza e di umiltà dello stilista era molto piaciuta ai vertici dell’istituzione, tanto che, specifica Crespi, “la mostra è stata coprodotta”. Per il momento, non ve ne saranno altre, resterà un unicum. La contiguità fra il palazzo di Armani in via Borgonuovo e Brera (nel Settecento si trattava di un’unica, grande area verde limitata da un lato dal canale che è oggi via Pontaccio, dall’altro dall’istituto dei Gesuiti, ex sede degli Umiliati, poi soppresso, che Maria Teresa d’Austria aveva trasformato in un centro culturale che oggi si definirebbe polivalente, quindi da Palazzo Citterio e, sull’altro lato, da Palazzo Orsini sede appunto della holding di moda) aveva fatto sì che negli anni il massimo stilista nazionale, peraltro il primo anche a varcare la soglia del Guggenheim di New York, in una mostra tematica del 2001, stringesse un legame molto forte con la Pinacoteca. La sosteneva in ogni occasione, anche e per esempio nel restauro di un muro di cinta che Crespi conta di terminare a breve.
Per qualche giorno, durante la fashion week milanese appena conclusa, nelle sale di Palazzo Citterio è stata invece allestita la presentazione della nuova collezione di Loro Piana: forse anche in questo caso si è trattato di una scelta di affinità stilistica, perché nonostante gli intenti di questo progetto fossero ovviamente commerciali, non si è percepita alcuna discrasia di segno e di immagine, quelle forzature imbarazzanti che, purtroppo, avevo notato nella recente esposizione di moda al Louvre, che commerciale non avrebbe voluto essere e invece. A Palazzo Citterio, giornalisti e buyer entravano dalla grande sala che ospita il “Quarto stato” di Pellizza da Volpedo, lasciata naturalmente intoccata (era la forzatura da non fare, non è stata fatta) e rilanciavano sui propri account tanto i vestiti quanto, e forse più, i Picasso e i Morandi e i Boccioni delle collezioni Jesi e Vitali. “La moda deve essere considerata prodotto di cultura, nonostante la sua natura transitoria”, osserva il direttore, specificando però l’importanza fondamentale di distinguere, esercizio che molti non fanno, “fra luogo e location”, che significa anche valutare caso per caso. Le polemiche sul cenone pink di Cristina Fogazzi, meglio nota come Estetista Cinica nella sala, pur laterale ma insomma, della Braidense, nel giugno del 2024, non si sono infatti ancora del tutto spente e, pur osservando come lo stesso Caravaggio, oggi star ubiqua e popolarissima in tutto il mondo sia stato oggetto di riscoperta negli Anni Cinquanta del Novecento dopo secoli di oblio, e che insomma anche la stessa arte, per non dire il suo mercato, sia soggetto a mode e che tutto sia contemporaneo e attraente fino a quando non lo è più, è chiaro che Crespi sia ormai attentissimo ai nomi, ma soprattutto agli scopi, per i quali concede le sale di Brera. Va riconosciuto che, negli anni anche precedenti alla sua nomina, cioè in epoca James Bradburne dagli inarrivabili panciotti damascati, vedemmo nelle sale della Pinacoteca esibizioni di insopportabile arroganza modaiola.
La prima avvenne poco tempo dopo che l’allora ministro della cultura Dario Franceschini aveva approvato una riforma che, di fatto, rendeva accessibili a costo per così dire calmierato gli affitti dei musei a privati: per cenare ai piedi del David di Michelangelo bastavano 20mila euro, mentre il cortile del Museo Civico Comunale di Bologna si prendeva alla giornata per soli duemila. Per Franceschini, si trattava di un mezzo agile e abile per raccogliere fondi da investire in opere di restauro o conservazione, ma ho ancora negli occhi, e non con piacere, la prima sfilata di Giada, marchio che in quel 2016 era stato acquisito da poco da una società cinese, con i pre-spaziati del logo attaccati alle colonne del salone che conserva la “Predica di san Marco” dei Bellini in modo che ben figurassero nelle foto. L’equilibrio fra la “moda che ha dalla sua la forza del marketing” come dice Crespi e che, come nel caso di Armani, è un’ottima leva per ampliare pubblico e interesse, e certe operazioni che tolgono prestigio al museo, senza offrire in cambio patenti di nobiltà a chi ne è totalmente sprovvisto, è infatti delicato e necessariamente da negoziare. Per Brera, va ulteriormente ricordato, l’apertura alla moda e in generale a quelle che gli Umiliati originari avrebbero definito le vanitas data comunque settant’anni: nel 1956 Fernanda Wittgens, la grande studiosa che guidò la Pinacoteca fra le insidie della Seconda Guerra Mondiale, ne difese e tutelò le opere, che subì una lunga detenzione a san Vittore per le sue attività antifasciste, nel museo riaperto e in via di recupero definitivo dopo i danni dei bombardamenti lanciò l’iniziativa “Fiori a Brera”, che sancì la prima collaborazione tra un museo e un’azienda privata, in quel caso La Rinascente: il cortile, lo scalone e tutti gli ambienti museali del palazzo vennero decorati con grandi composizioni floreali, ton-sur-ton con le stanze che le ospitavano, e con grande successo. Le foto dell’epoca mostrano via Brera brulicante di visitatori impazienti: nel primo giorno di apertura, furono più di quarantamila. Fu lei, la grande Fernanda, che aveva salvato il Cenacolo vinciano e ne avrebbe guidato il restauro, la prima a progettare la Grande Brera. Pochi mesi fa, Crespi ha siglato, e festeggiato, la definizione del primo progetto che si era prefisso, l’istituzione del “Patto per Brera” che coinvolge una ventina di aziende e imprenditori sfruttando le potenzialità dell’Art Bonus, e nel quale è appena entrata a far parte Barbara Berlusconi.
Gli stakeholder del museo, fa notare, non sono solo i visitatori, ma anche privati e aziende che lo sostengano in senso ampio, potenziandone anche le opportunità sul territorio. Dopo l’apertura di Palazzo Citterio, che noi della zona abbiamo visto languire dietro i suoi vetri sporchi e vuoti per decenni, un degrado che toccò il punto più alto durante un’occupazione squat che includeva falò nei locali sotterranei alla metà del primo decennio Duemila, oggi il Polo è diventato non solo attrattivo per i visitatori, le previsioni parlano del superamento dei seicentomila visitatori nel 2025 grazie anche a un picco turistico ad agosto che ha doppiato i dati di gennaio e febbraio anche sotto il non trascurabile profilo economico, ma un ulteriore incremento percentuale rispetto alla crescita del 14 per cento dello scorso anno. Crespi che, in origine e prima che gestore di importanti istituzioni culturali e museali, è giornalista e autore teatrale, ha in mente di “trasformare il museo in una media company, cioè in un’impresa che studia e progetta la comunicazione integrata con il prodotto, pensando il prodotto anche in funzione della comunicazione che genererà, ma fermo restando che è il prodotto è pur sempre arte”. Peccato che la scomparsa di Armani abbia reso impossibili le riprese già progettate con la troupe del “Diavolo veste Prada 2”. Il parterre di domenica 28 settembre 2025, con Richard Gere, Lauren Hutton, Glenn Close, Spike Lee e decine di altre star del cinema, sono state comunque una bella riuscita.



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