
Il Foglio della moda
La moda italiana è sotto attacco. È arrivata l'ora di serrare le fila
L’ultra fast fashion cinese, i dazi che non abbiamo applicato contro la Cina come avremmo dovuto fare, i giovani che non riescono ad emergere, le vacue riscritture creative, i raider Usa che mettono nel mirino gli indipendenti. Sì, la settimana a Milano è andata bene. Ma non basta. Adesso ci vuole un piano nazionale. Perché il nostro futuro è nell’industria
Sarebbe bello potersi pascere, come un tempo, di conversazioni leggere sulla “ripresa di Milano nel panorama delle fashion week”, prendo un titolo a caso fra i tanti, e di dissertazioni creative sull’aderenza o meno della collezione di Simone Bellotti allo stile di Jil Sander e di Dario Vitale ai “codici” (ah, i codici-iconici e ci ci ci) dell’eredità Versace. In realtà, il sistema della moda italiana, che pure si difende creativamente come una leonessa e ha, in effetti, presentato una serie di collezioni estate 2026 interessanti, prime fra tutte Prada e Missoni e Fendi (dove, come abbiamo anticipato lunedì scorso sul “Foglio”, sta per arrivare Maria Grazia Chiuri alla direzione creativa), sta subendo un attacco reputazionale senza precedenti, e perché ne possa uscire ci sarà bisogno che, per la prima volta sul serio e in tempi rapidi, tutte le sue forze, dalle associazioni ai sindacati di categoria alle istituzioni, lavorino insieme.
Proviamo a mettere insieme tre fatti apparentemente lontani, fortunatamente non tutti negativi, per capire che cosa stia succedendo in questo che passerà alla storia come il periodo più turbolento della moda e dove il sistema italiano, anello altamente produttivo ma strategicamente e politicamente debole della catena mondiale, da qualche mese viene sottoposto a un attacco senza precedenti, purtroppo indirettamente anche in patria perché è chiaro che non abbia aiutato tutto il bailamme attorno al caporalato, che non riguarda solo la moda ma vuoi mettere i titoli che ti prendi denunciando Armani e Loro Piana invece della sconosciuta società di logistica.
Il primo: l’uscita di scena triste e geniale, una settimana fa, di Loris Messina e Simone Rizzo, i due fondatori del brand Sunnei, peraltro già ceduto cinque anni fa al gruppo ungherese Vanguards, attraverso un’asta realizzata in collaborazione con Christie’s: una messinscena, certo, con i “fashion dollars” usaati per le contrattazioni e i “bidders” vestiti con la nuova collezione. Ma il loro abbandono è stato reale, e la dice lunga sullo stato in cui versano i business dei creativi di nuova generazione, vedi il geniale Daniele Calcaterra che ultimamente ha avuto la fortuna di incontrare sulla propria strada il Consorzio Cuoio di Toscana che gli produce gli accessori, ma non tutti godono della sua stessa fortuna, e sulla scarsa fiducia dei buyer e dei produttori nei loro confronti. Questo, nonostante un grande investitore come Filippo Cavalli, partner di Style Capital, si dica convinto della prossima ripartenza del sistema delle boutique e della grande importanza del wholesale (l’e-commerce, di cui lui è invece un grande protagonista attraverso la controllata Luisaviaroma, è invece in crisi nera, ci torneremo fra qualche riga).
Fatto numero due: la speculazione alla quale un gruppo di analisti-ribassisti statunitensi ha sottoposto nella giornata del 25 settembre il titolo di una delle poche aziende indipendenti del lusso nazionale, Brunello Cucinelli, ora in via di recupero anche reputazionale dopo le accuse, respinte al mittente con prove, di mantenere pressoché inalterate le attività in Russia nonostante le sanzioni. Ieri si è tenuto il cda anticipato sui primi nove mesi della società di Solomeo, che hanno indicato ottimi ricavi, pari a 1.019,6 milioni di Euro, in crescita del 10,8% a cambi correnti (+11,3 per cento a cambi costanti) rispetto ai primi nove mesi del 2024, con un balzo superiore del 9 per cento dei ricavi relativi proprio agli Usa. Avrebbero agito nello stesso modo, i raider di Morpheus, se dall’altra parte avessero avuto Kering o Lvmh che negli Usa ha fabbriche e gode del credito pressoché illimitato del presidente Donald Trump? Mi permetto di dubitarne.
Il terzo fatto: la brillante iniziativa di Zara di coinvolgere, per il proprio mezzo secolo di storia, cinquanta creativi e personaggi di rilievo dell’arte, la moda e l’architettura come Annie Leibovitz, Charlotte Rampling, Christy Turlington, Cindy Crawford, Es Devlin, Kasing Lung (Labubu, avete presente?), Kate Moss, Leslie Zhang, Luca Guadagnino, Norman Foster, Pedro Almodóvar, Pierpaolo Piccioli, ciascuno dei quali ha realizzato un oggetto disponibile dal 6 ottobre in negozi selezionati della catena. Sono accessori imprescindibili, innovativi, dei “must” come si diceva negli Anni Ottanta ai quali guarda anche la moda che si sta vedendo in questi giorni a Parigi, a partire da Saint Laurent? No, la maggior parte di questi oggetti si “ispira”, cioè copia, poltrone di design molto note (povero Mies van der Rohe), lampade entrate nella storia del design, oppure si replica in gadget di assoluta banalità. Eppure, l’iniziativa avrà sicuramente successo perché interpreta al meglio la strategia di base del consumo voluttuario di questi anni e che, in Italia, oltre a una recentissima linea di Pirelli che, un decennio dopo aver chiuso la sua linea di moda, ha sviluppato un interessante brand di merchandising legato ai suoi grandi eventi, dal Calendario alle corse, segue solo il gruppo OVS. Lo sta facendo ultimamente anche con il marchio Les Copains, storico ma di recente acquisizione e riscrittura creativa pressoché totale, che lo rende uno dei nuovi casi di successo del gruppo dopo Piombo: offrire abiti e oggetti di buon contenuto creativo e buona qualità, facilmente comprensibili, a un prezzo accessibile. Nessuno o quasi dei giovani che affolleranno Zara la prossima settimana ha mai sentito parlare di Mies van der Rohe e di Vico Magistretti e Maddalena De Padova, e in OVS, mi perdonerà Massimo Piombo, pochissimi avevano sentito parlare di lui e del suo gusto inimitabile nell’accostare i colori prima che il gruppo di Mestre decidesse di trasformarlo in un marchio globale, stringendo al contempo accordi con ambasciatori mondiali dello sport italiano come Deborah Compagnoni per le linee tecnico-sportive. Si parlava di questo difficile equilibrio qualche giorno fa a Milano, alla Galleria Deloitte, dove veniva presentata l’annuale ricerca sul sentiment degli analisti e degli operatori e dal quale emergeva il dato, molto rassicurante, che il 90 per cento degli investitori continuerà a scommettere sul settore, nonostante l’impatto negativo dei dazi sul mercato, il rallentamento delle operazioni di fusione e acquisizione dell’ultimo semestre e l’evidenza, questa tenuta un po’ sottotraccia ma evidenziata nella discussione, che la Cina non tornerà mai più ad essere il mercato di sbocco del nostro lusso, perché grazie al nostro know how, scioccamente offerto con la delocalizzazione degli ultimi trent’anni, l’abbiamo resa un competitor temibile, oltre che un creatore di marchi propri interessanti.
Nel frattempo, fra la moda occidentale e il suo pubblico ideale si è rotto un patto, fatto di desiderabilità, qualità, prezzo, e che fino a quando tutti questi fondamentali non torneranno al loro posto, la moda non ripartirà, e quel poco di creatività espressa finirà appunto ad alimentare i copycat del fast fashion, o dell’ultra-fast fashion. La leggenda mille volte ripetuta dalle istituzioni che il Made in Italy sia il nostro brand più forte, lo stemma che “tutti ci invidiano” e al quale abbiamo non a caso intitolato addirittura un ministero, necessita di correttivi importanti, perché se una manager di Lvmh può permettersi di ribaltare pubblicamente le responsabilità delle storture della filiera alla quale il suo gruppo si affida sulla filiera stessa, e se perfino una rivista btob francese non esattamente imperdibile, tale “Journal du luxe”, può permettersi di organizzare per la prossima settimana a Parigi un convegno sulla “inquietante crisi morale del lusso italiano”, cito testualmente. È chiaro che abbiamo un problema non irrilevante e che, più che “invidiarci” tanto, il resto del mondo si prepari a farci a pezzi. Noi, i nostri gruppi indipendenti che non sono nemmeno pochi ma che agiscono ognuno per sé, oltre alla filiera che, non a caso, le multinazionali vanno costruendosi a nostre spese, acquistando ogni giorno nuove piccole imprese messe spesso artatamente in crisi, assottigliando ogni stagione in po’ di più i loro margini, chiedendo esclusive che le rendono dipendenti, e tutto il nostro savoir faire, le nostre scuole del cuoio fiorentine di impronta e spirito sociale alle quali la collega Eva Desiderio ha appena dedicato un libro meraviglioso e tutte le nostre bellezze dalle quali non sappiamo distogliere lo sguardo per studiare un piano di difesa collettivo nell’immediato, senza perdere tempo. E adesso passiamo alla questione-dazi e all’ultra-fast fashion. Mentre Trump applica dazi rilevanti su ogni pacco proveniente dalla Cina, una cifra attorno ai venti dollari che in pratica raddoppia il costo di un abito di questo segmento e rende lo shopping meno attrattivo per un ragazzino che mira a cambiarsi d’abito ogni giorno senza pensare all’inquinamento o alla tutela del lavoro (spiace riconoscerlo, ma la storia che i giovani siano tanto attenti all’ambiente è una balla colossale), l’Italia e cioè l’Europa applica ancora a una soglia minima di 150 euro sotto i quali vi è esenzione, che significa farsi inondare di moda cinese, che ne costa in media venti a pacco, e come sta effettivamente accadendo. Qualche settimana fa, a Parigi, in occasione del salone del tessile Première Vision, il presidente di Confindustria Moda Luca Sburlati ha firmato, con le principali federazioni europee del tessile e dell’abbigliamento: un documento che esprime “profonda preoccupazione per l’espansione delle piattaforme extra-Ue di e-commerce che alimentano la moda ultra-veloce, con impatti devastanti sull'ambiente, come la sovrapproduzione di abiti a vita brevissima, crescita esponenziale dei rifiuti tessili e aumento dei consumi insostenibili”, oltre a “una pressione insostenibile sulle aziende e sui brand italiani ed europei che rispettano standard ambientali e sociali elevati, concorrenza sleale legata a frodi Iva e violazioni di proprietà intellettuale” alla “desertificazione dei centri urbani e la perdita di valore del tessile europeo basato su qualità, durata e innovazione”, chiedendo alla Ue la riforma del Codice Doganale europeo, inclusa l’introduzione di tariffe sui piccoli pacchi per finanziare controlli doganali più efficaci, il recupero dell’Iva sulle spedizioni di ultra fast-fashion, oltre all’obbligo per le piattaforme di e-commerce di avere un rappresentante legale nell’Unione, responsabile al pari delle imprese europee, l’uso del Digital Services Act e del Digital Markets Act per sanzionare le pratiche scorrette, l’avvio di un dialogo con le autorità cinesi sul contrasto a modelli produttivi contrari agli obiettivi ambientali condivisi. C’è bisogno di un piano nazionale di ripresa e resilienza specifico per la moda. Perché il nostro futuro assomiglia molto al nostro passato e sta nell’industria, nella manifattura, ben prima che nei brand.