Una moda antistorica è un grande rischio
Lo show celebrativo di Giorgio Armani, le molte sfilate di una stagione milanese “estate 2026” senza particolari novità, troppe “riletture” e la necessità che marketing e merchandising si facciano finalmente da parte. Più che di “codici rispettati” e di rivedere gli Ottanta tanto sexy di Versace, abbiamo bisogno di idee nuove. A prezzi accettabili

Antonio Marras

Gaw

Prada

Brunello Cucinelli

Fendi

Ermanno Scervino

Versace

Jil Sander

Luisa Spagnoli

Roberto Cavalli
La fashion week milanese è finita con lo show spettacolare di Giorgio Armani alla Pinacoteca di Brera, commovente come atteso, grandioso come inevitabile e come lui stesso aveva voluto e programmato. In passerella centoventisette modelli, abiti ma anche volti: donne e uomini che lungo il mezzo secolo di storia della Giorgio Armani fino a oggi hanno sfilato e interpretato i suoi abiti. Sete lavate, lini nei toni dal grigio al blu al viola del mare al tramonto, un rimando ai suoi due luoghi del cuore: Milano, Pantelleria. Energia e seduzione, una collezione lieve, dalle forme allungate, sognante. Due giorni prima della scomparsa, cioè il 2 settembre, stava facendo l’ultima selezione di abiti e apportando gli ultimi tocchi al programma: centoventisette modelli sono tanti anche per una celebrazione così importante come il mezzo secolo di attività, si era preso del tempo per scegliere con calma, e una presenza mancata per tre settimane alla consacrazione di una vita imprenditoriale grandiosa è il grande scherzo che il destino si sia concesso con un uomo che faceva della pianificazione e della meticolosità la sfida costante all’imprevedibilità della vita e che la vita stessa gli aveva inflitto in una occasione. Sala, tende, americane, le tipiche poltroncine bianche montate in quarantotto ore da una squadra di duecento persone (mai più qualcuno ci venga a dire che per montare una pedana e un po’ di abiti ci vuole una settimana), luci perfette a illuminare il colonnato, il Napoleone canoviano glorioso al centro, settecento ospiti. Fra tutti, emerge anche per altezza Cate Blanchett che, terminata la sfilata, si farà accompagnare lungo le sale della Pinacoteca e resterà ferma per cinque minuti davanti allo Sposalizio della Vergine di Raffaello a farsi raccontare la struttura dell’opera, quindi Richard Gere e Lauren Hutton seduti l’uno accanto all’altro, quindi Dries Van Noten e sir Paul Smith e, in veste di amico di lunghissima data, Santo Versace, per tutti tre ore di permanenza minima nel palazzo che gli Umiliati iniziarono, i Gesuiti ricostruirono e Maria Teresa d’Austria volle grandioso.
Il sovrintendente del Teatro alla Scala Fortunato Ortombina impressionato dalla mostra celebrativa aperta fino al prossimo gennaio alla Pinacoteca ma soprattutto dal rispetto, nell’allestimento e nelle scelte, mostrato dal Maestro della moda italiana nei riguardi dei Maestri della pittura italiana: nessun tentativo di paragone, tanto meno sovrapposizioni o prese di possesso, diversamente da quanto accaduto di recente al Louvre, dove abbiamo visto fare strame del lascito di grandi artisti da parte di produttori di scarpe col tacco dall’ego smisurato. Per molti, la visione del Cristo alla Colonna era un inedito assoluto, ci sono stati influencer che hanno perfino guardato le opere d’arte, e dunque c’è speranza sotto il cielo visto che anche altri, per esempio Versace alla Biblioteca Ambrosiana e Loro Piana a Palazzo Citterio, hanno scelto di presentare collezioni e rilanci in luoghi scarsamente frequentati dal sistema. Ma se Armani ha dimostrato di aver capito perfettamente il ruolo della moda, la sua collocazione nel discorso culturale o, per meglio dire, sociale, resta però e piuttosto da discutere questa incapacità generale del settore, vezzeggiato e idolatrata da anni, di comprendere la propria collocazione nel mondo e soprattutto il momento.
Solo a scriverlo pare una contraddizione in termini. Per questo, al termine della settimana milanese e a poche ore dall’apertura della fashion week parigina, tocca sintetizzare quello che molti pensano e che solo qualche buyer e pochi critici dicono, e cioè che non è possibile continuare a pensare che nulla stia succedendo nel mondo. Anche al netto delle guerre, dei dazi americani che stanno creando molti problemi a chi fa e-commerce, (peraltro settore nei guai già per conto suo come dimostra il crollo di Luisaviaroma e le agitazioni in corso da Ynap, che Richemont ha ceduto a Mytheresa con una dote di 500 milioni purché se la accollasse), del sostanziale stop della Cina, della disaffezione degli europei nei riguardi del pret-à-porter di lusso e anche dell’ovvietà che nessuno prende mai in considerazione, e cioè che il mondo è pieno di marchi interessanti extra-europei e che la Cina è appunto ben contenta di comprare i suoi, da questo giro milanese è evidente che buona parte dell’industria e anche degli osservatori creda di vivere nel 2015, e che la più grande preoccupazione sia di capire se la prima collezione di Jil Sander firmata da Simone Bellotti sia davvero bella ma anche noiosa come sembra (sì, non si possono rivivere i Novanta pari pari, soprattutto perché sono trascorsi trent’anni), se Bottega Veneta interpreti il gusto del momento (parecchio, ma lo fa allo stesso modo e con gli stessi stilemi Daniele Calcaterra, che nessuno di noi critici capirà mai perché la Camera della Moda tenga in ombra, quando è in tutta evidenza il migliore di tutti, e continui invece a proporci eterni debuttanti che diventano più mediocri ogni stagione che passa e non facciamo nomi per carità di patria) oppure se Dario Vitale abbia interpretato bene i codici di Versace (abbastanza, ma lo ha fatto anche con quelli di Miu Miu in combinato disposto se è per questo e anche aggiungendovi un abito stampato della collezione Prada 2013, non sappiamo quanto il nuovo patron del marchio, Patrizio Bertelli, ne sarà felice e in ogni caso davvero non abbiamo voglia di rimetterci i jeans verde menta del 1989 etichetta “Versace jeans couture” col taglio a carota che si trovano comunque già nei negozi del fast fashion da una stagione). Fra le moltissime frange di questa fashion week che era un tripudio di tripolina, fra le moltissime giacche oversize, ci hanno convinti (e usiamo il plurale perché prima di scrivere le nostre impressioni abbiamo consultato i quattro buyer più importanti: Mario dell’Oglio, Tiziana Fausti, Federico Giglio e la presidente della categoria Maura Basili) sempre Prada, in particolare le sue gonne, che moltissime donne collezionano una stagione dopo l’altra, quindi le calzature e le borse di Ferragamo, al netto degli abiti sommamente inutili di Maximilian Davis che è e resta uno stilista di accessori, al di là della storia e della cultura personali che sono lontani anni luce da quella dell’Italia e di Firenze. Quindi in buona parte è piaciuta la collezione di Fendi, elegante e contemporanea ancorché si dica da più parti che la stagione stilistica di Silvia Venturini Fendi stia per tramontare e che Maria Grazia Chiuri stia per prenderne il posto, è piaciuta moltissimo la collezione di Tod’s che tutti sanno già non andrà in produzione per il novanta per cento, perché quelle nappe meravigliose e quei tagli eleganti, e quelle sovrapposizioni inedite fra lini e pelle, che tutti vorremmo indossare e per le quali saremmo pure disposti a spendere servono per l’immagine mentre il core resta sempre il “gommino” delle scarpe originarie.
Naturalmente hanno convinto la grande qualità e la bellezza delle lavorazioni (“fino al settanta per cento della collezione è realizzata a mano”) di Brunello Cucinelli, a prescindere ovviamente dal brutto incidente borsistico che gli è occorso questa settimana, perché cadere nelle maglie tese dai raider americani, sui quali, spiace dirlo, le autorità di controllo Usa sono da sempre molto lassiste, è quanto di peggio possa capitare e oggi, come dicono gli analisti, l’importante è che recuperi terreno e soprattutto mantenga il proprio status di “Hermès italiano”. Quindi, Gucci. E’ chiaro che, in attesa di approfondire la propria conoscenza del marchio e delle sue dinamiche, Demna si sia rivolto, con una presentazione furba sviluppata secondo un modulo cinematografico già messo in atto per Balenciaga, alle due stagioni migliori del brand negli ultimi vent’anni, e cioè parzialmente quella di Alessandro Michele e, moltissimo, quella di Tom Ford. In giro ci sono migliaia di ragazzine che chiedono quei meravigliosi stiletti e quegli stivali, che tante di noi hanno depositato nei guardaroba nel 2002 e ora si preparano a rispolverare, sempre abbiano nuovamente la forza di issarsi a quelle altezze. Ma basta, guardare indietro per guardare avanti? E, soprattutto, è la strada corretta? “Ho qualche difficoltà a fare ordini fra quanto ho visto”, dicevano ieri sera, al ricevimento di Armani, Dell’Oglio e Fausti. Vorrebbero investire su qualche giovane, ma sanno che le difficoltà produttive e di riassortimento di chi non può ancora investire a sufficienza per affermarsi saranno loro di freno. Non convince molto, questa moda che eternamente “reinterpreta i codici”, cioè e innanzitutto offre qualche appiglio al marketing o che, come nel caso di Jil Sander, riproduce in ogni dettaglio uno stile passato da trent’anni. Chi, che cosa impedisce alla nuova generazione di stilisti di fare della moda nuova, che interpreti il presente, che sia competitiva anche nei prezzi, abbordabile per quella fascia media che fino a oggi ne ha sostenuto l’ascesa e l’affermazione e oggi non può più permettersi nemmeno una borsa? Ne parlavamo pochi giorni fa nella Galleria Deloitte, che presentava la sua annuale ricerca sul sentiment degli analisti e degli operatori, tutti moderatamente ottimisti, e dicevamo quello che ci pare di dire da tre anni a questa parte, e cioè che fra la moda e il suo pubblico ideale si è rotto un patto, fatto di desiderabilità, qualità, prezzo, e che fino a quando tutti questi fondamentali non torneranno al loro posto, la moda non ripartirà, e quel poco di creatività espressa finirà ad alimentare i copycat, i copioni, del fast fashion. Questo, a prescindere dalle cene, dai premi, dalla granitica volontà di tutti, esclusa Miuccia Prada che è stata l’unica ad esprimere il proprio imbarazzo per dover continuare a fare moda in un momento drammatico come questo, di bere ogni sera champagne come nulla fosse. Di moda vivono, in Italia, oltre mezzo milione di persone. Come diceva Bette Davis, “prendete il salvagente, stasera c’è aria di burrasca”.