Il film di Demna per Gucci. Parabola della crisi della moda

Fabiana Giacomotti

Cast di premi Oscar e parata per il cortometraggio di Spike Jonze e Halina Reijn presentato ieri sera a Milano. Il nuovo ceo De Meo molto a proprio agio. E’ un po’ l’ultima chiamata. Facciamo il tifo

Come da titolo e sinossi dettagliata, “The Tiger” con Demi Moore nel ruolo della stessa tigre, che cosa non si fa per conquistare il titolo di matriarca dell’anno, è il cortometraggio di Spike Jonze e Halina Reijn che segna il nuovo tentativo di rilanciare il marchio più glorioso e più in crisi della moda mondiale, Gucci. Ma è certamente riduttivo, la brillante sceneggiatura già lo smentisce, che lo scopo del nuovo direttore creativo Demna e di quella pletora di artisti da Oscar chiamati a interpretare una strepitosa galleria di tipi nevrotici e disfunzionali - bisogna proprio essere Edward Norton per dare credibilità allo sfaccendato picchiatello di mezza età che vede presenze aliene e danza sotto la luna, uno così Yorgos Lanthimos avrebbe potuto facilmente inserirlo in “Bugonia” - sia di presentare lo spaccato di una famiglia italo-americana ridondante, eccessiva, sontuosamente abbigliata come il cinema, ma anche la realtà, ce le hanno rimandate dagli Anni Trenta in poi, con i loro chignon laccati da mob wife e l’eccesso di chirurgia.

   

  

Sebbene sia molto divertente leggere come occhi stranieri continuino a interpretare il modello della “famiglia italiana”, dal grottesco involontario di Ridley Scott con la sua “House of Gucci” del decennio scorso a questo distillato di bella scrittura e ottime interpretazioni, e nonostante la galleria fotografica di fenotipi sociali e bellissimi vestiti diffusa in via digitale il giorno prima della presentazione milanese del film abbiano fornito a tutto il mondo la consistenza della collezione Gucci per la prossima estate, oltre a una nuova prova della passione di Demna per la vecchia tradizione delle fisiologie ottocentesche à la Balzac (la “principessa”, la “snob”, la “diva”, la “sciura”, il “principino”, raccolti sotto una ipotetica “Famiglia”), è molto possibile, in realtà piuttosto chiaro, che sotto a quei caratteri e a quella ironia profusa senza risparmio aleggi l’ombra della moda stessa. Un settore in crisi profonda, attraversato da correnti idiosincratiche, da odi, antipatie, ambizioni represse, domande definitive sulla propria essenza e la propria ragion d’essere.

   

La famiglia polverizzata della matriarca fittizia Barbara Gucci, head of Gucci International e president of California, tigre repressa sotto l’apparente perfezione, è l’antitesi e il ghigno cinematografico al mito inesistente e ridicolo della “community della moda”; gli abiti meravigliosi (una grande rilettura dei codici dell’epoca-Tom Ford, chi non ha vissuto quegli anni apprezzerà molto, soprattutto la profusione di pelli pregiate e di piume) rivestono con un ruolo e uno status una lunga, impagabile serie di nevrotici, insicuri di sé, dimostrando che Demna ha molto ben chiara quale sia la funzione della moda e la sua stessa ragion d’essere. Il cortometraggio è stato presentato ieri a Palazzo Mezzanotte, trasformato in sontuosa sala cinematografica Anni Settanta con boiserie, poltrone in suede testa di moro e applique di cristallo Anni Settanta con evidente gran spesa (dopo questa esibizione di sfarzo, nessuno oserà più organizzare un convegno a sala disadorna).

     

     

Tutti, crediamo fino a Palazzo Chigi perché i dipendenti del brand anche solo in Italia sono moltissimi, mille di loro un mese fa avevano proclamato lo stato di agitazione per presunto mancato rispetto delle normative nazionali sul welfare, sperano che questo deciso cambio di rotta nel posizionamento sia coronato dal successo. La cura predisposta dal nuovo ceo di Kering, Luca De Meo, per il marchio che da anni, un trimestre dopo l’altro, cala a doppia cifra, non sarà indolore. Che ne abbia affidato l’esecuzione a Francesca Bellettini, fino alla scorsa settimana vice del gruppo, sostanzialmente sua pari, oggi mandata a occuparsi esclusivamente del brand che, da solo, per decenni ha fornito ossigeno alla holding, rivela molto dei metodi di questo cinquantenne di bell’aspetto, dal sorriso aperto, che ieri sera sedeva al centro della sala, alla sua destra, Gwyneth Paltrow in completo monogram a doppia G. Appariva molto felice, molto a suo agio, decisamente galvanizzato dalla parata di star che, come ovvio, nella Renault di cui ha guidato il rilancio e sostanzialmente la salvezza non si sono mai viste: dalla nomina, dieci giorni fa, ha già dato interessanti indicazioni a tutti sugli orari di lavoro, la preferenza per i whatsapp rispetto a Teams e gli obiettivi da raggiungere. Resta da capire se lui, estraneo al sistema, riuscirà a cambiarlo prima che questo e le sue seduzioni cambino lui. Nota di merito a margine per Elliott Page, eccezionale nel ruolo del figlio di ultimo letto, ansioso di compiacere la madre così come dieci anni fa ma sembra un secolo, era stato una straordinaria madre adolescente in “Juno”.

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