Un look dalla sfilata inverno 2025 di Onitsuka Tiger

Il Foglio della moda

Una vita senza lacci. Intervista milanese ad Andrea Pompilio

Gianluca Cantaro

Il direttore creativo di Onitsuka Tiger, che vive fra l’Italia e il Giappone, dice che nei viaggi l’importante è mettersi in ascolto. Anche di sé stessi: “Se in un posto mi sento bene, quello diventa casa mia”

Tutti viaggiano o raccontano di viaggiare. Ma pochi sanno davvero dove vanno e soprattutto perché ci stiano andando. Andrea Pompilio fa parte di quei pochi: per lui, nato a Pesaro nel 1973 in una famiglia ad alto tasso creativo - padre architetto, madre pittrice - una destinazione è uno spazio di verità. Non una fuga da copia ciclostilata, per chi sa ancora che cosa significhi, per produrre contenuti da social media, ma un stato mentale, ancora prima che fisico, dove ogni cosa si riduce all’indispensabile.

“Quando arrivo da qualche parte e mi sento bene, anche se non è casa mia, lo diventa. Non faccio neanche troppe analisi, è qualcosa che sento”, racconta il designer. Si tratta di un approccio istintivo e insieme lucidissimo, che mette da parte le categorie classiche come mete, tappe, preferenze per sostituirle con una mappa più intima e sottile. 

La sua geografia è fatta di luoghi che restituiscono calma, che allineano il ritmo del corpo a quello dei pensieri, che regalano una forma temporanea, ma concreta, di pace. Da Pantelleria a Ibiza, da Tokyo alla Cambogia, ogni posto diventa il pretesto per rallentare, per mettersi in ascolto, per dimenticare le frizioni

Non c’è gerarchia tra natura, città, spiaggia o grattacielo. “Mi capita di atterrare in un posto e di provare subito una sensazione di benessere mentale, prima ancora che fisico. E allora so che devo restarci per un po’. Non perché vi trovi qualcosa da fare, ma semplicemente perché quel posto ha toccato le mie corde”, puntualizza. "La felicità autentica che certe persone trovano in poche cose mette in crisi il nostro sistema. Non sono loro i ‘poverini’ che vivono con l’essenziale: siamo noi, intrappolati in una ruota che ci spinge a inseguire senza sosta desideri sempre più vuoti. Ogni tanto, serve sperimentare certi contrasti per ricordarsi cos’è davvero la vita”. 

 

          

 

Per questo per lui il viaggio non è solo una questione privata: è anche uno strumento di lavoro, un modo di osservare, imparare, assorbire. “Lo considero un'altissima forma di educazione per me e per tutti. Cammino tanto, ovunque. Entro nei caffè, nei ristoranti, nelle stradine dove nessuno va. Guardo come si muove la gente, come parla, come si veste. È una ricerca spontanea, non è nemmeno più un metodo: mi viene così. E ogni volta torno con qualcosa che, seppur piccolo, mi resta”. Non c’è romanticismo, solo l’occhio di chi osserva da sempre, perché viaggiare da curioso significa riconoscere la bellezza dove non te l’aspetti, o proprio nel momento in cui pensavi di non volerla vedere. 

E questo sguardo aperto ha trasformato, con il tempo, il suo modo di intendere lo stile. “Una volta pensavo ai capi in base alla forma, al taglio. Adesso nel processo creativo entra anche chi li indossa: guardo la personalità del modello e di conseguenza costruisco il look. 

Diciamo che è una cosa che ho assimilato osservando la strada; ormai è assodato che una T-shirt bianca, un paio di jeans e mocassini possono avere uno stile potentissimo o risultare di una noia mortale. È frutto di un mix fatto di attitudine, contesto e atmosfera, perché non c’entra l’abito, ma la presenza”, spiega. Un’affermazione che potrebbe sembrare generica, se non fosse che lui la declina in ogni dettaglio della sua produzione, spostando l’attenzione dal panorama alla persona affermando l’idea che lo stile sia un’attitudine da riconoscere e non un’estetica da applicare. 

Dopo esperienze da Prada, Calvin Klein e Saint Laurent, dal 2011 lavora con Onitsuka Tiger e dal 2017 ne è direttore creativo, in uno scambio che, dice, gli ha insegnato a vivere le differenze culturali come uno spazio fertile, non come un ostacolo. 

L’azienda giapponese ha una lunga storia nello sportswear (per chi l’avesse dimenticato: l’iconica tuta e le sneaker “Mexico 66” gialle che indossa Uma Thurman in “Kill Bill” sono sue), ma Pompilio sta traghettando questa conoscenza nel prêt-à-porter, salvaguardando l'heritage e aggiungendovi una visione internazionale. “All’inizio il rapporto era un po' complesso”, ricorda. “Noi occidentali siamo diretti, diciamo subito se una cosa non funziona. In Giappone invece hanno un modo di comunicare diverso, dove anche un rimprovero deve passare come una forma di rispetto. Ho dovuto ricalibrare tutto il mio modo di approcciarmi agli altri, però oggi capisco che quella giapponese sia una forma più delicata e forse più intelligente di gestire le relazioni”. 

La collaborazione con Onitsuka Tiger è iniziata come un incontro tra mondi: la visione italiana (e comunque europea) trapiantata in un brand nipponico, con l’idea di trovare una sintesi nuova. “All’inizio il la sovrapposizione era più evidente e le citazioni più esplicite. Ora il messaggio è molto più fluido perché è diventato cosmopolita e di conseguenza anche la mia visione si è evoluta. Prendo ispirazione dall'incredibile storia dell'azienda, certo, ma in modo meno didascalico. Non è il kimono, ma l’atteggiamento. È la loro coolness che mi colpisce, quella che loro hanno da sempre e che da noi arriva solo dopo che la validazione di un grande marchio” puntualizza. 

E subito viene in mente la tuta da ginnastica rétro viste su molte passerelle maschili per la prossima primavera-estate 2026: loro sono stati tra i primi a lanciarla negli anni Settanta. Però ciò che conta davvero, nella narrativa di Andrea, è la capacità di riconoscere valore dove altri vedono abitudine. 

Un altro esempio, I giapponesi tolgono le scarpe quando entrano a casa e in molti ristoranti. “Il più delle volte non è un cerimoniale, ma una cosa che fanno tutti, tutti i giorni. E questo cambia anche il modo in cui si pensano le scarpe, i materiali, le chiusure. C’è una praticità elegante che mi ha fatto riflettere molto. Mi sono ritrovato più volte a fine serata, con lo zaino pieno di capi vintage, stanco, sazio, ad allacciarmi goffamente le scarpe per l'ennesima volta. E loro? Erano già fuori in cammino grazie alla loro innata agilità dei gesti”, racconta. Così il viaggio come osservazione si affianca sempre più spesso al viaggio come scelta. E in questa scelta c’è una mutazione di priorità che riguarda ormai molte persone, non solo chi lavora nella moda.

“Una volta spendevo molto di più in abiti. Ora se posso scegliere preferisco una cena, un weekend, un’esperienza che mi dia delle vibrazioni. Non ho smesso di comprare vestiti, ma compro meno, e solo se davvero ne vale la pena”, dice. Non è la fine del desiderio, semmai è la sua rifondazione: il passaggio da una logica dell’accumulo a una del significato. E anche questo, in fondo, ha a che fare con l’identità e con il modo in cui si vive. “Per me è impensabile tornare a lavorare chiuso in un ufficio, sono libero professionista da anni e il periodo del Covid ha accelerato tutto. Non riesco più a creare se non mi muovo: ogni città, ogni luogo mi dà un’energia diversa che poi riverso nel design, nelle relazioni, anche in palestra. Questo moderno nomadismo è diventato parte di me e in fondo lo è un po' sempre stato: fin da bambino in spiaggia non stavo un attimo fermo, dovevo girare e conoscere tutti quelli che erano intorno”. In un mondo sempre più attraversato, l’over tourism è il sintomo più visibile di un desiderio collettivo che non riesce più a contenersi. 

È l’espressione del momento e un fenomeno che riversa nei luoghi milioni di individui con una fame di emozione spesso più orientata alla condivisione social, che alla reale voglia di conoscenza, per questo dovrebbe essere affiancata dalla misura: più rispetto per cosa si visita, per chi ci abita, per chi ci torna. “Tante persone non vogliono evadere, ma sentirsi vive. Cercano esperienze, eccitamento, un’idea di bellezza che li scuota e li sottragga dalla routine quotidiana. Viaggiare può essere una forma di cura”, ma soltanto se si impara anche a integrarsi, senza trasformare una vacanza in una invasione barbarica, aggiungerei. Ed è proprio nel gesto di sottrazione che Andrea sembra trovare il suo equilibrio: nella scelta di non inseguire più ogni cosa, ma solo quelle che davvero contano. In un paio di scarpe senza lacci, per esempio, disegnate con eleganza ma che contengono un significato culturale.

Di più su questi argomenti: