
(foto Ap)
in francia
La moda allo specchio parigino
Cronache dalla settimana della haute couture. Schiaparelli brilla, poi c’è Armani Privé. Intanto il sistema vacilla, trainato solo dai super ricchi: gli “aspirazionali” non spendono più. Cosa si nasconde dietro marketing e maquillage
Lunedì 7 luglio, primo giorno delle sfilate della haute couture di Parigi. Piove a dirotto, tira vento, italiani felici dopo la canicola dei giorni precedenti, meno le celebrities che devono apparire truccate e svestite alle nove del mattino perché i loro follower possano sospirare sulla vita favolosa che conducono. Apre come di consueto Schiaparelli, pregevolissima proprietà di Diego Della Valle che migliora ogni anno i propri conti senza essere ancora diventata una voce in attivo nel bilancio del gruppo ma che di sicuro non manca di allure. All’ingresso del Petit Palais, progettato come padiglione espositivo da Charles Girault per le grandi esposizioni nel 1900 e che in questi mesi ospita una bella mostra su Charles Frederick Worth, padre fondatore della haute couture sostenuta da Chanel, gli ospiti sono invitati a lasciare gli ombrelli prima ancora di superare i controlli “pour préserver le tapis”, cioè quella che noi cisalpini chiamiamo moquette: distese di materiale ignifugo beige aspettano infatti di accogliere i passi cadenzati delle modelle del momento nei bustini rigidissimi e modellanti che le clienti americane ritengono equivalenti all’arte della sartoria, vedi Lauren Sánchez Bezos in versione clessidra da tavolo al matrimonio con Jeff Bezos.
I fotografi accalcati ai piedi della scalinata sono tutti qui per lei, nella speranza che abbia interrotto il viaggio di nozze e sia venuta ad omaggiare il direttore creativo Daniel Roseberry e la sua arte che dopo pochi minuti si rappresenterà in una bellissima serie di abiti a sirena e di modelli “traje de luz” da toreador di Mérimée, disturbati però da un bustino ricavato da una sella, si spera non un invito a sottomettere le donne come cavalcature perché anche in Occidente il momento è abbastanza difficile senza che si rendano necessari suggerimenti. Invece della nuova mrs Bezos (sarebbe andata il giorno dopo da Balenciaga), arrivano Cardi B infossata in una rigida scollatura a cratere alta quaranta centimetri carica di perline, Dua Lipa in bianco, Chiara Ferragni che fa molta tenerezza, Philippine Beaulieu Leroy che grazie a “Emily in Paris” ha raggiunto il successo inseguito per decenni ed è di gran lunga la più sexy. Per la soddisfazione del patron, sale le scale anche una lunga serie di clienti, fra i quali il più importante di tutti per volume d’affari e di relazioni generate è Michael Kliger, ceo di Mytheresa, la più rilevante piattaforma del mondo nell’e-commerce di lusso soprattutto da quando la principale concorrente, Luisaviaroma, ha dimostrato di non sapere reggere il ritmo della competizione post-Covid per un eccesso di grandeur combinato a una forte miopia strategica e la controllante Style Capital l’ha messa in vendita, finora senza successo.
Mentre Luisaviaroma montava show faraonici in piazzale Michelangelo a Firenze a beneficio della cittadinanza locale che sembra un controsenso data la natura del suo business e infatti lo era, Kliger è stato invece il primo a comprendere che al cliente disposto a spendere anche due milioni di dollari all’anno in abiti non interessassero i concertoni popolari accompagnati a sfilate di moda vintage o molteplici “collab” con i designer di grido, bensì le cosiddette “cene intime” con lo stilista, i servizi di consulenza a casa, insomma “those moments that money can’t buy” come mi disse tre anni fa con la tipica cadenza nasale del sud una signora di Santa Fe mentre osservavamo il tramonto dal giardino della villa di Antibes dove Francis Scott Fitzgerald ambientò “Tenera è la notte” e dove cenavamo con Christian Louboutin, primo di una lunga serie di incontri riservati di cui i Dolce&Gabbana sono diventati maestri (alla conferenza stampa della quattro giorni di sfilate e presentazioni romane dell’alta moda del duo, attualmente in corso, l’assessore Alessandro Onorato ha magnificato i 10 mila posti letto occupati, quasi parlasse di un tour operator di grido) e che si rappresentano plasticamente in una fitta sequenza di cene in luoghi ameni e “alfresco” scritto tutto attaccato. Kliger è uno dei maggiori venditori della linea di pret-à-porter di alta gamma di Schiaparelli con cui Roseberry e Della Valle intendono pareggiare i conti faraonici della couture, i risultati paiono ottimi e dunque ha ragione di rallegrarsi, anche in vista delle “grandi novità d’autunno” che, aggiunge, “metteranno un po’ di frenesia e di eccitazione nel settore, in cerca di novità e di sostanza”.
La moda è in crisi ormai da un paio di anni, un tempo sufficiente per instillare il dubbio che il cambiamento sia ormai strutturale e che si debbano rivedere in toto strategie e obiettivi, cioè il perimetro economico, e invece l’impressione è che si lavori di maquillage, nella speranza che tornino i favolosi anni delle sfilate di Fendi sulla Grande Muraglia e della festa mobile continua e che, una volta raggiunta un tregua permanente nei due conflitti più aspri in corso, quello medio-orientale e quello russo-ucraino, dove peraltro tutti continuano a fare affari, ancorché a volumi ridotti e, nel caso di Kyiv, con un forte impegno di brand e clienti a sostegno della difesa (dai giorni dell’attacco russo, qualunque tipologia di acquisto, dal caffè al completo sartoriale, è autotassato fino al cinquanta per cento per aiutare chi abita nelle zone più esposte ai bombardamenti con cucine mobili, tende da campo e altri beni di prima necessità), il sistema riprenda come se nulla fosse successo. L’altra sera, a un ricevimento parigino, il numero due di un grande gruppo ha esclamato allegrissimo che erigerà una statua al “primo che avrà il coraggio di abbassare i prezzi”, senza pensare per un solo istante che potrebbe farlo lui e farsi erigere la statua fra gli applausi di tutti. Si cambia perché nulla cambi, ha sempre ragione Tancredi Falconeri, secondo una pratica che l’editoria di moda conosce benissimo, visto che da vent’anni sostiene i propri conti periclitanti imponendosi rivisitazioni, rilanci e “nuove grafiche” ogni tre stagioni, accompagnandole con feste sponsorizzate e campagne che in realtà trovano un senso soprattutto sui social, cioè al di fuori dell’editoria tradizionale che per molti versi inizia appunto ad assomigliare alla haute couture: un privilegio e un florilegio di belle immagini e di vestiti dichiaratamente “da sogno” per pochi eletti, (persino “Le Figaro” costa 3 euro e 90 centesimi in un giorno qualunque della settimana), mentre il resto del mondo compra t shirt da Zara a nove euro e novantanove e scrolla senza sosta lo smartphone in metro. Le frenesie che attendono la moda nell’autunno e nelle quali spera Kliger sono in effetti numerose, e riguardano principalmente il debutto di Demna Gvasalia da Gucci, quello di Pierpaolo Piccioli da Balenciaga che ne ha preso il posto nella gioia generale e in particolare, si dice, della sceicca Mozah bint Nasser a-Missned del Qatar che lo adora e ne aveva osteggiato fino all’ultimo l’estromissione da Valentino, brand del fondo sovrano Mayhoola, oltre all’esordio di Matthieu Blazy da Chanel, di Louise Trotter che ne ha preso il posto da Bottega Veneta, di Simone Bellotti da Jil Sander e, pare ma ne scriveremo fra poche righe, di diversi altri nomi che, non avendo gli attuali occupanti di alcune prestigiose cariche “performato” come ci si sarebbe aspettato e come, stante la situazione del mercato, sarebbe stato difficile accadesse al di là del brutto ed efficacissimo termine, verranno sostituiti a breve.
Nei giorni scorsi Altagamma, la fondazione che riunisce le principali imprese italiane del lusso, dalla moda all’hotellerie, ha illustrato la situazione nel consueto studio sui consumi sviluppato con Boston Consulting Group e con il contributo del managing director della sezione global luxury goods di Bernstein Luca Solca, certificando quanto tutti andiamo scrivendo da tempo, e cioè che la fascia media della popolazione mondiale non ha più i mezzi per accedere ai beni di lusso, o di quel genere di consumo di apparenza che per trent’anni è stato spacciato come tale. Oggi, come l’altroieri, cioè cento anni fa, è il cosiddetto cliente top-tier – pari allo 0,1 per cento della popolazione – a generare il 37 per cento della spesa totale del settore. In un momento di rallentamento generalizzato, è questa élite di “Uhnwi” (ultra high net worth individuals) a trainare la crescita, ridefinendo strategie, linguaggi e canali distributivi dei brand di alta gamma. Crollano, invece, le opportunità di spesa per gli aspirazionali, fino all’altro ieri il cuore di questo sistema essendo la moda un trastullo borghese, che continuano a ridurre la spesa. Le cene con lo stilista, il servizio di guardaroba a casa, i treni riservati su rotte dedicate, nascono per queste 940 mila persone in tutto il mondo che spendono in media all’anno dai 360 mila ai 580 mila euro all’anno e che spendono equamente in moda, design, auto, viaggi, benessere, arte, pretendendo in cambio qualunque cosa come il cumenda di Guido Nicheli, “il Dogui” che lavora, guadagna, paga e dunque pretende. L’85 per cento di questo gruppo di danarosi, come il matrimonio veneziano di Bezos ha reso evidente, prevede infatti di aumentare o di mantenere stabile la propria spesa nel prossimo anno e mezzo, purché l’esperienza sia “rinnovata in qualità, agi, attenzione”. Satrapi at the gates, come dire, e come tocca compiacere. E d’altronde, osserva il ceo di Brunello Cucinelli Luca Lisandroni, “i nostri clienti non hanno bisogno di nulla di ciò che vendiamo, ma possiamo far sì che, quando acquistano, quello diventi un momento di gioia e benessere”.
Due settimane fa, Gianluca Isaia ha invitato a Capri duecento di questi “unvi”, finiremo per chiamarli così, in riduzione fonetica, per festeggiare gli undici anni della sua boutique sull’isola o, per meglio dire, per far festa e basta che è quanto gli “unvi” vogliono: traghettino riservato, attracco in caletta vista Isola dei Galli, party proseguito per tutto il giorno con dj set in spiaggia perché, siano statunitensi, russi o ucraini che sono sempre presenti entrambi, sebbene accolti in tavoli diversi (gli ucraini arricchiti hanno lasciato il Paese tre anni fa e vivono perlopiù a Montecarlo), sembra non possano fare a meno della musica a palla h24, come dicono i nuovi analfabeti, e hanno trasformato le spiagge ricche del sud Italia in discoteche permanenti, annaffiate di champagne e di aragoste scelte ben vive, nelle quali le famiglie e gli “aspirazionali” non mettono più piede, vuoi per il fracasso, vuoi per i prezzi, vuoi per l’estetica raccapricciante del tutto. I consumatori impoveriti, quelli che quest’anno faranno vacanze più brevi e berranno un numero inferiore di spritz, fino al 2013 costituivano il 74 per cento del mercato del lusso, con 5 mila euro netti di spesa all’anno: oggi sono scesi al 61 per cento e solo nell’ultimo anno, il 35 di loro ha ridotto la spesa, per via dei prezzi, che percepiscono come ingiustificati a fronte del valore percepito.
Questa nuova sensibilità, segnala la ricerca di Altagamma per chi non avesse ancora capito il giro del fumo degli ultimi anni, va oltre la congiuntura economica: per molti il lusso, o per essere più precisi i brand, stanno perdendo di rilevanza simbolica, mentre alle aziende della moda, con i loro moltiplicatori economici favolosi, si chiede un sempre maggiore impegno etico dimostrato e ben comunicato. A questo proposito, basti come esempio il can can che si è creato attorno a uno sciopero un po’ pilotato chez Max Mara che ha portato a una clamorosa frattura fra la città e l’azienda, oggi in rotta anche col sindaco di Reggio Emilia, al quale ha comunicato il proprio ritiro da un importante progetto di recupero industriale, un investimento da 100 milioni di euro che avrebbe fornito di nuovi spazi di lavoro ottocento persone e che forse non è stata la decisione più efficace negli urticanti tempi attuali, che richiedono doti di mediazione più che di ostinazione. Cresce invece il second-hand, con un aumento della domanda di prodotti senza tempo e qualcuno ammette di sfogare la propria voglia di acquisti nel fast e ultra-fast fashion, pur sapendo bene che cosa questo comporti in termini di sfruttamento del lavoro e delle risorse del pianeta ma sapete com’è: noi dell’universo che consuma osserviamo nei documentari le scogliere dei nostri vestiti usati sulle coste del Ghana con grande partecipazione, ci indigniamo sui social per l’ennesimo incidente nella fabbrica di vestiti in Asia e poi stacchiamo un altro ordine online su Shein, senza considerare nemmeno l’impatto che anche la logistica ha sulla in-sostenibilità dei nostri acquisti. “Lo so che sbaglio, ma è tanto comodo, e poi anche Zara ha aumentato i prezzi e la qualità, immagino produca meglio”, ha ammesso l’altro giorno una ragazza carina e dall’aria responsabile mentre discettavamo di smalti dalla manicure cinese del centro di Milano dove vanno tutti e che, a una nostra osservazione sul “rosa Pucci” delle sue unghie, ha chiesto chi fosse quel nuovo stilista, tanti saluti alla storia della moda italiana e anche ai denari profusi da Bernard Arnault nell’ultimo quarto di secolo.
A dispetto di tutte le comunicazioni trombone sull’heritage a uso di chi spende molto e dunque vuole sentirsi confortato sulla rilevanza anche culturale della propria scelta, non è per caso che chiunque possa permetterselo stia sostenendo mostre e riletture ponderose della propria storia in giro per il mondo, fra sei mesi toccherà nuovamente a Schiaparelli al Victoria&Albert Museum, la curatrice Sonnet Stanfill si dice certa di poter raccontare qualcosa di nuovo dopo che perfino i Licei sono andati a cercare alla Biblioteca Nazionale di Firenze i poemi giovanili e molto sensuali della grande Elsa, nata appunto a palazzo Corsini, il numero di brand storici occidentali ancora rilevanti per il pubblico giovane sta andando pericolosamente assottigliandosi, mentre crescono e giustamente marchi e nomi nuovi. Non tutti funzionano, il debutto di Michael Rider da Céline è stato un collage di esperienze precedenti che ha fatto storcere il naso ai buyer e alla stampa indipendente, ma non ci sono dubbi che, per chi potrà permetterselo e il numero di pullover e shirt presenti nella galleria del Marais affittata per presentare il “concept” del nuovo progetto personale lascia intendere che gli obiettivi siano moderatamente pop, Anderson sia il nome del momento ben oltre l’incarico per Dior.
I compratori di moda, come osserva Mario Dell’Oglio, non possono più basarsi sui soli grandi brand per continuare e vendere, devono tornare a “fare ricerca” come agli albori del sistema attuale, mezzo secolo fa. Oltre ai produttori meno specializzati, a quella filiera di media qualità che in Italia è stata la più colpita dal brusco calo degli ordini e che chiede insistentemente aiuti al governo, sono in crisi i grandi magazzini tradizionali negli Usa, in Europa e in Giappone, ormai sostanzialmente spariti dalle prime file delle sfilate, e la maggior parte delle piattaforme di e-commerce, come si scriveva nelle prime righe, hanno fallito nella costruzione di modelli economicamente sostenibili, come dimostra il tracollo di Farfetch. A prevalere, dunque, è ancora il canale monomarca, sempre più strategico e dominante sia nel fisico sia nell’online, come osserva la direttrice generale di Altagamma Stefania Lazzaroni, e un’attenta gestione del volume della produzione. E qui arriviamo al punto vero, e anche al motivo per il quale operazioni come quella promossa nell’ultimo anno e mezzo da Valentino non abbiano funzionato, insieme con molte altre: “I marchi che hanno inseguito volumi eccessivi oggi pagano il prezzo dell’instabilità. Al contrario, chi è rimasto fedele al proprio cliente “core” ne raccoglie i frutti”, spiega il presidente di Altagamma Matteo Lunelli, auspicando “un ritorno ai fondamentali” e un futuro “favorevole ai brand capaci di costruire legami profondi, offrire qualità estrema e intercettare valori condivisi con una clientela che non vuole essere solo servita, ma riconosciuta”.
L’altro giorno, dopo la sfilata di Armani Privé e il passaggio di un abito da sera a bustino di velluto che sembrava appoggiato sul nulla e che dunque richiedeva uno sguardo da vicino per scoprirne la tecnica di costruzione, abbiamo chiesto una visita privata, che ci è stata posticipata sine die perché l’agenda della sartoria era già affollata di clienti: fra chi sa lavorare, funziona così, con le agende di indirizzi riservate, le clienti che comprano senza parere e senza sfoggiare il sacchetto griffato per strada. Il “core” di oggi è anche alla base del ritorno di interesse per le piccole sartorie di grande sapienza e dei couturier con cui si intrattiene un rapporto personale senza dover spendere milioni di euro: a Parigi è tornato ad affacciarsi Sylvio Giardina, consegnando la medaglia di Officier des Arts et des Lettres a Giambattista Valli, la ministra Rachida Dati ha messo in valore la rilevanza assoluta dell’artigianato e della capacità artistica nella creazione di moda, evidentemente in confronto ad altre dinamiche.
Per tentare di capire le ragioni per le quali la moda appaia sempre meno di moda e il suo perimetro vada effettivamente e progressivamente restringendosi a colpi di decine di miliardi all’anno come andiamo scrivendo da qualche tempo e come è fisiologico, dopotutto non si possono gonfiare a lungo i fatturati spacciando merce di massa e ciabatte indiane clamorosamente scopiazzate per ineguagliabile lusso, vale la pena di citare la riflessione che Marco Bizzarri, ceo della migliore stagione di Gucci dopo quella dell’inarrivabile team Domenico De Sole – Tom Ford e oggi partner di Elisabetta Franchi, oltre che importante operatore della ristorazione nella “sua” Emilia Romagna, fece circa un mese fa in occasione dell’incontro organizzato in apertura del Phygital Sustainable Expo, organizzato presso i Mercati di Traiano per volere del Mimit e su progetto di Valeria Mangani. Si tirava tardi, in attesa del ministro Adolfo Urso che avrebbe dovuto premiare i tre partecipanti, nell’ordine Renzo Rosso che al titolare del dicastero è molto legato, Leonardo Maria Del Vecchio che ha cose sempre interessanti da dire sull’evoluzione tecnologica dei servizi e anche dei beni che produce e appunto Bizzarri che, sfinito dopo tre quarti d’ora di dibattito e dunque forse dimentico della presenza di una cinquantina di persone e delle telecamere della Rai, rivelò quello che ad altre condizioni si sarebbe ben guardato dal dire, e cioè che fra gli amministratori delegati della moda di oggi è pratica comune cambiare spesso direttore creativo per garantire a se stessi la sopravvivenza, o almeno un po’ di tempo per procrastinare il redde rationem con gli azionisti. Non è che non lo sospettassimo; nessuno prima di lui, però l’aveva ammesso fino a oggi.
Per i pochi che ancora non lo sapessero, la moda ha tempi di produzione semestrali, quando non annuali come nel caso della moda maschile, ma l’effettiva messa in opera di una collezione dura più di un anno, fra scelta o produzione dei tessuti, eventuali collaborazioni con artisti o produttori terzi, iniziative collaterali, campagne e presentazioni e rivisitazioni a cura dell’ufficio merchandising, e di certo non si può pretendere, tantomeno oggi, che una star dello stilismo affronti pubblico e mercato nel giro di quindici giorni come avvenne per il debutto di Alessandro Michele, nel 2015, che però era già il braccio destro della sua predecessora, Frida Giannini, e che è e resta un mago dello styling. A una nuova nomina si danno almeno sei mesi di tempo, oppure se ne occulta la presenza fino a tempo debito, che è quanto è successo per esempio da Dior con J.W. Anderson, nuovo direttore creativo di tutte le collezioni, couture compresa, che ufficialmente ha preparato la (strepitosa) sfilata uomo presentata tre settimane fa in poco più di un mese, ma che in realtà occupava già gli uffici in avenue Montaigne dai primi dell’anno.
Quando, lo scorso gennaio, scrivemmo che Maria Grazia Chiuri avrebbe lasciato il giorno successivo alla sfilata Cruise di maggio a Roma e che il suo successore si trovava già nel palazzo, eravamo certi di non sbagliarci. Chiuri ha lasciato a quarantott’ore dalla presentazione, una sontuosa serata organizzata nella Villa Albani solitamente inaccessibile, dopo aver quadruplicato il giro d’affari della maison negli otto anni in cui se ne è occupata, diventando una donna ricca e rispettata per la sua indubbia capacità di intercettare l’evoluzione del gusto rispettando al contempo la natura femminile e il suo fisico, cosa che gli stilisti maschi tendono troppo spesso a dimenticare, e oggi che si trova nella sua città e ufficialmente si occupa solo del delizioso Teatro della Cometa ai piedi del Campidoglio, che ha acquistato e restaurato mantenendone solo la maggioranza relativa perché ha voluto favorire i due figli e in particolare Rachele, pare sia osservata con molto interesse dagli attuali azionisti dell’azienda in cui ha lavorato per oltre vent’anni, e cioè Valentino. Di quanto stia succedendo a Palazzo Mignanelli, oggetto di un articolo pubblicato sul Foglio della settimana scorsa che ha scatenato una ridda di commenti e di aggiunte “in privato” via social e dunque irriferibili, bastano per farsi un’idea i risultati ufficiali, meno 22 per cento, le vetrine di borsette e pochi capi di abbigliamento per una maison che fino allo scorso anno viveva di abbigliamento di sartoria, e la prova provata di quanto dice Lunelli, e cioè che aver tentato di gonfiare i fatturati svilendo e massificando il prodotto (al fondo del Qatar che tuttora lo controlla era stato promesso il raggiungimento di un fatturato di tre miliardi di euro, del tutto incoerenti con la natura del business) è stata una strategia sbagliata. Oggi che Kering con i suoi bellissimi palazzi e quell’incantevole sede parigina nell’ex ospedale Laennec o “degli incurabili” si trova in difficoltà finanziarie e non è chiaro come riuscirà a rispettare l’impegno di salire alla totalità delle quote di Valentino entro il 2028, par di capire che il fondo Mayhoola, insieme con il governo francese a cui si deve il suggerimento di Luca de Meo, ex-Renault, come nuovo ceo, sia discretamente accanto alla famiglia Pinault nelle scelte più delicate, come appunto in Balenciaga e nella stessa Valentino.
Dicono le ultime ricerche e un discreto numero di analisti che le “nuove frontiere del lusso” siano l’India (non ne siamo convinti, la moda vive e prospera in società mobili, e il subcontinente è cristallizzato nel sistema delle caste da tempi immemorabili, chiunque ci abbia provato ha perso un mucchio di denaro) e il Sud-est asiatico, che starebbero accelerando nella creazione di nuova ricchezza, sebbene non sia affatto ovvio che vorranno spendere la loro nuova ricchezza in beni occidentali. I brand devono quindi prepararsi a servire “clienti mobili, culturalmente differenti, con aspettative sempre più alte e articolate”. E per farlo, servirà un cambio di mentalità.

Il Foglio della moda
Vesto l'individuo, non il genere. Incontro con Niccolò Pasqualetti

Il Foglio della moda
La sponda della seduzione. Intervista a Sláva Daubnerová in zona palcoscenico
