Niccolò Pasqualetti (foto Getty)

Il Foglio della moda

Vesto l'individuo, non il genere. Incontro con Niccolò Pasqualetti

Gianluca Cantaro

Scelto indifferentemente da uomini e donne ancor prima di lanciare la linea maschile, il trentenne fiorentino in rapidissima ascesa sa anche che l’Asia è più ricettiva sulla fluidità rispetto all’Occidente e dunque sa calibrare il suo messaggio con attenzione. La sola cosa che conta adesso, dice, è l’autenticità. Il marketing sta uccidendo la moda

La timidezza venata di fragilità che affascina quando si incontra Niccolò Pasqualetti è in realtà un velo che scherma, senza troppo celare, forza, determinazione e una visione precisa su cosa debba essere la sua moda e quale sia il suo pensiero sul sistema. 

Nato nel 1994 a San Miniato, in provincia di Pisa, si è formato allo Iuav di Venezia e alla Central St Martins di Londra, passando per esperienze lavorative in Belgio, a New York da The Row e a Parigi da Loewe, con Jonathan Anderson, ora approdato da Dior come direttore creativo di tutte le linee, con un debutto nel maschile molto apprezzato. Nel 2021, Pasqualetti fonda il suo marchio, con un debutto tutt’altro che sottovoce e sottotono: nello stesso anno riceve il Premio Franca Sozzani, quindi il Grant del Camera Moda Fashion Trust nel 2023 e nel 2024 la nomina a finalista del LVMH Prize. Anche se questa intervista si svolge a Milano, oggi il designer vive tra Parigi e la Toscana, dove continua a rifinire il proprio linguaggio estetico con il contributo degli artigiani locali. “È stato tutto molto veloce, sicuramente. La collezione cresce e si sviluppa insieme con me, ma l’importante è che sia sempre uno specchio di quello che mi succede. Per questo non è sempre una linea dritta, ma curva a seconda del mio scambio con la realtà”

Infatti, la sua moda non è mai cambiata, ma si è molto evoluta. Dalle prime presentazioni in piccoli “studio” parigini trasformati in showroom e atelier fino alla sua ultima sfilata nella cavea del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, guest designer dell'edizione 108 di Pitti Uomo e del sovrintendente Carlo Fuortes, dove si è confrontato per la prima volta con una collezione maschile, l’essenza di Pasqualetti è rimasta invariata, benché e per fortuna sia sempre più matura. La giocosità del suo stile, che inizialmente era preponderante, ora è diventata sottile, un segno di riconoscimento. 

Sebbene il marchio che porta il suo nome abbia solo quattro anni, gli chiedo quale consiglio darebbe a chi inizi a introdursi nel settore, perché da un coetaneo, un suggerimento ha sicuramente maggior valore emotivo. “All’inizio della mia carriera, che è ancora agli inizi naturalmente, non avevo l’idea, nemmeno l’obiettivo, di lanciare una mia linea. Facendo altre esperienze, ho capito invece quando è arrivato il momento giusto” spiega. “Quindi, ai ragazzi che stanno intraprendendo questo percorso dico di provare più strade per mettere a fuoco ciò che è più affine alle loro capacità, ai loro desideri, esigenze e aspirazioni. Spesso si cade nell'errore di pensare di essere già pronti a lanciare un marchio, ma a volte non è così per una serie di complessità che si scoprono provando anche altri ambiti”, aggiunge. “Lavorando per altre aziende, ho capito il valore del team, ho visto che spesso se non c’è affiatamento nel gruppo non funziona neanche il resto. Nel mio atelier siamo cinque persone, attive su ogni aspetto, impegnate su ogni fronte, ed è tutto molto intenso. Per fortuna, abbiamo anche il supporto dei professionisti con cui lavoro per la produzione; senza di loro non avrei fatto nulla”.

Tutto è fatto localmente e per il designer, che ha girato il mondo, il Made in Italy e l’Italia rimangono un punto di riferimento stilistico e culturale, così gli chiedo quale sia “il tocco di Niccolò”, l’elemento che fa subito riconoscere un suo capo senza leggere l’etichetta. “La genesi avviene d'istinto. Parto da un universo fatto di sensazioni e immagini vaghe e astratte che vanno concretizzandosi attraverso la ricerca e il disegno che, trasposto nella tridimensionalità dei capi, fa diventare tutto più reale. Cerco di non essere troppo classico perché la classicità non mi appartiene, ma ciò che mi definisce è inserire qualcosa di spiazzante, anche un dettaglio, che sia un po’ fuori dalla norma: nel design, nelle rifiniture, nella scelta dei bottoni o dei nastri. Però è fondamentale non diventare ossessivi sul piccolo perché per me alla fine quello che conta è la visione d'insieme”. 

Jean Arp, Barbara Hepworth, Georgia O’Keeffe fanno parte della sua sfera d’ispirazione e sono chiaramente percepibili nella sinuosità delle silhouette, ritrovate anche nella sfilata organizzata a Pitti, che ha aggiunto alla sua storia un capitolo in qualche modo già scritto: una collezione maschile che parla a tutti, come già faceva quella femminile. In passerella, sotto un sole cocente che però non ha distratto gli ospiti (il presidente di Pitti Uomo, Antonio De Matteis, post-sfilata commentava ammirato la linea dei blouson in pelle), ha sfilato una selezione di look di grande e delicata competenza nei materiali - seta, lino e cotone come macchiato dalla vernice, camoscio laser-cut effetto camouflage e denim “crudo”, assemblato con grande ariosità, leggerezza e al tempo stesso assoluto rigore. 

“Essere a Firenze è stata un po’ una coincidenza, nel senso che l’idea di avvicinarmi all'uomo partiva da un certo interesse che già riscontravo fra i miei clienti. Per esempio, quando presentavo la donna a Parigi ricevevo richieste per taglie e numeri più grandi di abiti e scarpe, quindi questa occasione è stata perfetta” per sperimentare l’evoluzione delle linee e dei modi d’uso, anche in dinamica opposta. “Alcune mie clienti hanno chiesto dei pezzi visti a Firenze”, spiega. “Inoltre io sono toscano, la nostra manifattura è universalmente riconosciuta per la sua eccellenza e la manifestazione è anche il simbolo globale dell’eleganza maschile. Dunque, dato che il mio lavoro parte dall’eleganza e la classicità del vestire italiano, non ho avuto dubbi, la coincidenza di queste cose ha dato un senso a tutto”. 

Così, partendo da un dna formale, Pasqualetti ha creato un immaginario che ha fatto dell'ambiguità progettuale il suo tratto distintivo. Risulta difficile definire il genere di un capo proprio perché non è pensato per un genere specifico, ma per l’individuo e per come lo indosserà. “Quando disegno guardo più alla personalità e alle sensazioni che a specificità legate a uno o all'altro” spiega. “Spesso mi capita di pensare al pezzo singolo e al suo significato per poi contestualizzarlo nel look e questo approccio mi permette di mantenere tutto coerente. Comunque, un elemento fondamentale della creazione è che ogni capo possa stare bene con gli altri senza che l’outfit completo prenda il sopravvento”. 

È chi li indossa ad aggiungere la componente maschile o femminile, in base a come lo fa e in quale contesto. “A ogni capo, deve essere però sotteso un filo sottile che connetta il risultato alla realtà. Se per me può non esistere più questo tipo di distinzione, mi rendo conto che nel quotidiano questa differenza è ancora molto radicata, soprattutto in Occidente a differenza dell’Asia; quindi aver definito le due collezioni è stata quasi più una scelta di praticità che stilistica”. La moda a volte va più veloce della società e in casi come questo incarna un progresso che risponde a esigenze individuali ancora poco considerate; talvolta, invece, si chiude a riccio ignorando i cambiamenti sociali. Per questo, gli chiedo come veda la situazione attuale nel sistema della moda. “Mi sembra che molti marchi siano troppo concentrati sul merchandising e su quali prodotti vendano di più. Ma credo che il cliente si renda conto dei meccanismi commerciali messi in atto e non si faccia più affascinare soltanto dal logo. Sperimento questo cambiamento in prima persona, perché molte mie clienti comprano anche altri marchi più importanti del mio, purché vi trovino quel qualcosa in più, un aspetto seducente. In un indipendente come me apprezzano l’autenticità”. La apprezzano in tutti, in realtò, “purché sia vera”. E sono ormai perfettamente in grado di riconoscerla. “Se è simulata o frutto di iniziative di marketing, viene respinta. Io sono sempre stato presente in ogni passaggio della produzione, così come nel rapporto con chi acquista, così molti ora sono diventati amici”. Collezionisti sparsi per il mondo, che “hanno creduto nel mio racconto fin dall’inizio”.

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