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Il foglio della moda

Vèstiti, andiamo a dormire

Fabriano Fabbri

Dal Settecento di Füssli a oggi, ritrarre e indossare abiti sciolti e leggeri significa sancire i diritti di un’asserzione esistenziale, di una scelta di atteggiamenti che celebrano il corpo e la sua libertà di espressione, motoria e perfino sessuale

“Quand’è che ho cominciato ad abbandonarmi così al sonno, che ho smesso di opporre resistenza? È davvero possibile che un tempo fossi sempre piena d’energia e completamente sveglia?”, si chiedeva Banana Yoshimoto in “Sonno profondo”. Terako, la giovane protagonista della storia, dopo il suicidio dell’amica del cuore si addormenta in lunghe sessioni di sonno riparativo, in una forma di torpore che ammanta di sé ogni frammento di vita quotidiana. Quello di Terako è di fatto un filtro emotivo proiettato sulle vicende di tutti i giorni come ne sono apparsi in quantità fra i pilastri della letteratura, ma che tocca anche certi momenti apicali della moda e dell’arte, dove si spinge proprio quel filone della moda e dell’arte che, in forma velata o diretta, si ispira al mondo del sonno e delle sue manifestazioni: il letto e i complementi indumentali che gli sono affini hanno infatti non poca rilevanza fra musei e passerelle. Se andiamo a rovistare l’origine di “intimità”, parola quanto mai connessa ad alcove e lenzuola, ne ricaviamo ciò che già avvertiamo d’istinto, anche se raramente ci fermiamo a soppesare il valore di un termine tanto diffuso. La prova dell’etimo ci dice che “intimus” significa “il più profondo”, nel senso logico e più o meno spontaneo di un gesto o di evento infrattati dentro un perimetro di inaccessibilità, di protezione dallo sguardo altrui, in sostanza di una dimensione di vita gelosamente custodita fra la chiusura delle pareti domestiche.

Sulla carta, insomma, la sfera dei nostri desideri e dei nostri comportamenti più intimi non sarebbe materia da negoziare, noi gente comune faremmo di tutto per sigillarne i contenuti da occhi indiscreti e da morbosità non richieste. Eppure, all’opposto, la moda e l’arte del contemporaneo ci dimostrano che proprio l’intimità è diventata l’oggetto di una condivisione collettiva, talvolta da sciorinare in faccia nella maniera più cruda e perturbante, talaltra da esibire nella facilità di una gag. Moda e arte, si diceva. In volo libero fra armadio e pittura, basta volgere l’attenzione alla fine del Settecento per ammirare due esperti d’eccezione in fatto di intimismi, con l’intento di distillarne la diagnosi di una svolta culturale, di un assetto di pensiero stanco dello status quo, ovvero dell’Età dei Lumi: era giunto il momento di rifiutare il culto di quanto appariva “chiaro e distinto”, e per conseguenza di immergersi fino al collo in una bolla di oscurità, fra le pieghe dell’inconscio “più profondo”. Come non citare, allora, l’opera di Francisco Goya? L’autore de “Il sonno della ragione genera mostri” ha raffigurato ridde di streghe e di demoni che hanno alimentato la sartorialità al nero di Cristóbal Balenciaga, se fra le altre pensiamo alle due figure poste sullo sfondo di Majas al balcone. A proposito di letti e cuscini è però la doppia declinazione della “Maja desnuda” e della “Maja vestida” a darci uno spaccato di moda e al tempo stesso di intimità capaci di scavare in profondità fra stile, pulsioni e desideri. Nella variante desnuda, Goya descrive una giovane in profferta erotica, smaccata e maliziosa, come del resto accadeva in parallelo fra le pagine de “La filosofia nel boudoir” del Marchese de Sade e come avverrà più avanti con l’”Olympia” di Edouard Manet. Quanto alla versione vestida, deve averla avuta ben presente un’altra personalità da sangue blu, Hubert de Givenchy, che per la Audrey Hepburn di “Cenerentola a Parigi” ha confezionato uno dei suoi celebri completi con blusa, spezzato – maja insegna – da una visibile fascia rosa. 


Certo, riguardo a soggetti “in intimità” carichi di tormenti, altrettanto forieri di creature che sembrano uscite dagli angoli più reconditi dell’inconscio, “L’incubo” di Heinrich Füssli è forse l’esempio più limpido ed eclatante, con la povera ragazza accerchiata da un drappello di mostruosità demoniache e tenebrose. L’abito? Una vestaglia, data l’ovvietà del contesto notturno; tuttavia, è bene ricordare che proprio nello stesso periodo i pesanti panier e i corsetti opprimenti del tardo Barocco vengono sostituiti da abiti ampi, leggeri e spumosi per nulla distanti dal déshabillé de “L’incubo”, nel nome di una tendenza che sarebbe passata alla storia con l’appellativo di Stile Impero. In definitiva, ritrarre – e indossare – abiti sciolti e leggeri significava – e stringi stringi significa tutt’ora – sancire i diritti di un’asserzione esistenziale, di una scelta di atteggiamenti che celebrano il corpo e la sua libertà di espressione, motoria e perfino sessuale, aprendo la strada a una moda e naturalmente a un’arte che nel contemporaneo avrebbero saggiato mille altre sfumature di una vita in chiave “lingerie”. A tale proposito, bisogna riconoscere a Jacques Doucet – couturier in realtà poco capito dalla storia del costume – il merito di aver sdoganato ufficialmente le vesti tipiche della biancheria intima per farne abiti da portare nelle circostanze di tutti i giorni, e non sono affatto da meno il coraggio e la creatività di Lady Duff Gordon alias Lucile, couturière inglese peraltro sopravvissuta al naufragio del Titanic, nota per le trasparenze, per le stamine “a tela di ragno” delle sue creazioni, diceva Gabriele d’Annunzio, prelevate direttamente dal mondo del dessous. D’altra parte, non è stato proprio il Vate a battezzare “Domina” – la padrona, la mistress, la dominatrice – la famosa linea di abiti-biancheria di Biki, altra splendida portavoce della moda italiana e tra le antesignane del Made in Italy?


Veniamo invece a tempi più recenti, in un intreccio di arte e moda che tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, grazie ai protagonisti della Body Art, esibisce le qualità e le lacerazioni a tratti sanguinolente di corpi nudi e crudi. Le performance estreme di Gina Pane o Marina Abramović, solo per citare un paio di nomi, nelle finalità e nelle intenzioni sono assimilabili alla filosofia indumentale di Sonia Rykiel, stilista e scrittrice parigina che nello stesso giro di annate propone abiti da portare senza biancheria a contatto diretto con la pelle, e che accompagna con le dichiarazioni di libertà contenute in libri come “Et je la voudrais nue” (Paris, Grasset, 1979, su Amazon ne risulta ancora una copia disponibile): “Pensavo di maneggiare tessuti, lana, colori, e invece mi rovesciavo dal di dentro, dalle viscere. Legavo, tagliavo, ma intanto mi squarciavo il corpo”. Sì, gridava la designer francese, “io la vorrei nuda”, nella stessa condizione adamitica o quasi di Yoko Ono e John Lennon accucciati fra le lenzuola di Bed-in, in un inno di protesta contro l’infuriare della guerra in Vietnam ma con la stessa scala di valori promossa da un’arte che non sa cosa farsene di moralità e perbenismi. Ancora talami, ancora coperte, ancora intimità. 


Nel 1976, sempre Rykiel realizza un giaccone invernale ricavato da un piumone da letto, dando prova di una moda in grado di competere addirittura con la sperimentazione a oltranza del maestro del Dadaismo, Marcel Duchamp, noto per i suoi oggetti “tali e quali” – i cosiddetti “readymade” – e ispiratore numero uno di un altro fuoriclasse delle passerelle, Martin Margiela: il quale, a sua volta, proprio sulla scia della Rykiel e per la collezione autunno-inverno 1999-2000, realizza una serie di cappotti-piumino-piumone con un efficace effetto di straniamento dovuto alla reinvenzione di articoli d’uso domestico, come se redenti, riscattati, strappati dal loro anonimato. Bisogna guardare alla realtà con altri occhi, sembra suggerirci Margiela, bisogna vivere l’esperienza di tutti i giorni – quella vera, a contatto con il nostro circondario più prosaico e scontato – con un atteggiamento rinnovato, capace di massaggiare, di sollecitare, di provocare sensazioni più vivide rispetto alla monotonia di consuetudini e convenzioni. Così facendo, lo stilista belga ci permette di entrare in un ambito di creatività denso di riferimenti esistenziali, non ultimo con i letti sfatti, ancora caldi di tepore, apparsi in gigantografia fra le strade di New York per opera di Félix González-Torres. Un semplice, banale giaciglio da sistemare come ce ne sono milioni di altri, si dirà, sennonché sul biancore di quelle stesse lenzuola si consumano i contorni di una perdita drammatica, di un amore finito in una tragedia senza speranza: il letto delle foto è la culla dove l’artista dormiva con il suo compagno Ross, morto per Aids. Il “sonno profondo” così bene indagato dalla Yoshimoto nel suo libro omonimo non è pertanto un semplice momento di ristoro, sotto questa luce assume la spinta di una consapevolezza ben più incisiva, didi reagente contro la patina delle abitudini, anche a costo di mettere a nudo, vedi González-Torres, i propri tormenti e le proprie fragilità.

Ce ne mostra un esempio paradigmatico anche la Tracey Emin di “My bed”, con tutte le tracce oggettuali di una vita reale testimoniata da kleenex usati, mozziconi di sigarette e biancheria sporca, in un’installazione senza gioco e senza ironia. Ben diverso il discorso per Viktor&Rolf. Nel 2005, in “Bedtime Story” i funambolici stilisti olandesi hanno creato una collezione interamente dedicata alla stanza da letto, ma con i toni di esagerazione e giocosità loro tipici, vale a dire con un trionfo di capi dove la stereotipia si fa gioco ironico e surreale: lo stile “out of bed” è reso alla lettera, con le modelle in sfilata addobbate da cuscini e piumoni. Professore associato, insegna Stili e arti del contemporaneo, Forme della moda contemporanea e Contemporary fashion all'Università di Bologna. Il suo saggio più recente è “La voce del diavolo. L’arte contemporanea e la moda” (Einaudi): una riflessione sulla storia dell'arte dalla fine del Settecento agli anni Duemila che usa come bussola e metronomo le funamboliche evoluzioni del guardaroba fra tecnologia rivoluzione sessuale.