Bella Hadid sul red carpet del Festival di Cannes 2025 (foto Getty)

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Il nudo e il nero. Usi inediti del non colore, ricco di simboli come nessun altro

Fabiana Giacomotti

Dal red carpet di Cannes al conclave vaticano, torna il senso del decoro. Il nero, tra lutto, eleganza e simbolo universale di ordine e mistero. La metafora dei mali oscuri che affliggono l’uomo, spesso rappresentati come animali, ma anche segno della ricchezza e della dignità borghese

E così, nel mondo che non riesce a darsi una tregua su niente, il Festival di Cannes ha bandito ufficialmente le smutandate dal red carpet e imposto lo smoking anche ai fotografi. Mi vedo gli abbonati del turno A del Teatro alla Scala che reclamano codici di abbigliamento altrettanto rigidi per le prime, gli smutandati della lirica allignano prevalentemente fra gli uomini: indossano scarpe da barca sformate e completi macchiati per darsi un’allure da fini intenditori. L’hanno rispettato in poche, Bella Hadid era come sempre più nuda che vestita, ma solo la Francia, bisogna ammetterlo, poteva permettersi di respingere così apertamente la mania di avvolgere le natiche nel tulle trasparente che in queste settimane è percolata nelle vetrine del fast fashion dopo aver sfilato un anno fa sulle passerelle di Saint Laurent, riportando alla ribalta della società del selfie quel vecchio passepartout delle nonne borghesi che è il vestitino nero o petite robe noire; per dire, Anna Wintour, che da otto anni tiene Donald Trump fuori dal Met Gala, “he won’t be invited again”, disse nel 2016 al “Late Late Show”, ha tenuto fede alla parola, sul dress code dei suoi invitati ha dovuto lasciar correre, per cui la serata ufficialmente più selettiva del globo è ormai equiparabile a una festa in costume, perlopiù volgarissimo. 

   

Vietato il nude look sul red carpet  ma molte trasgrediscono. Bella Hadid era come sempre poco vestita

   
Che qualcuno abbia messo un punto fermo sul liberi tutti globale e purchessia è insomma una novità interessante, visto che, da decenni, nell’occidente post moderno si può avere una vita di successo ignorando le regole basilari dell’abbigliamento sociale, cioè di quel linguaggio parallelo che permette di regolarsi nella vita quotidiana senza troppa fatica. Nelle scorse settimane, per esempio, è stata consegnata alla storia l’immagine di Trump vestito di un luminoso punto di blu che parlava in quella che dal pavimento si desumeva fosse una chiesa cattolica con il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky in giubbotto e scarpe sportive e fra dieci anni, gli ultimi rappresentanti della generazione a cui la mamma ha spiegato come si stia al mondo, senza una didascalia non potranno intuire in quale occasione sia stata scattata: se alla prova di un coro oppure un matrimonio o un battesimo (il blu, e non veniteci a dire che fosse stato scelto per ragioni di sicurezza come veniva fatto per la regina Elisabetta: ai funerali, la sovrana vestiva di nero). Comunque, in un futuro post-Cannes, perché state sicuri che anche la Mostra del Cinema di Venezia si sentirà in dovere di mettere uno stop alle cosciotte a vista di rapper e influencer e, a dispetto delle foto di queste ore, nel giro di un anno saranno sparite ovunque, a nessuno verrà in mente che quello scatto, già in finale come foto del 2025, fosse la prova di un’alleanza storica maturata in occasione del funerale di Papa Francesco: troppo irrituale, e al tempo stesso troppo coreografata. Che i colori scuri e una certa sobrietà fossero nuovamente nell’aria si poteva però desumere proprio da quell’occasione e soprattutto dall’ammirazione estatica che il mondo ha mostrato nei riguardi del dispiego cerimoniale del Vaticano in occasione del conclave.

Tredici anni e milioni di selfie dopo l’elezione di Francesco, nessuno in tutta evidenza si ricordava del valore di quella cosa inventata dai romani che si chiama apparato, e cioè regole, forme, uso simbolico dei colori, scansioni temporali precise, abiti di quel genere che, non a caso si definisce “da cerimonia”. Il cerimoniale, che bella invenzione per evitare a tutti l’imbarazzo di sentirsi fuori posto. Dell’album degli ultimi giorni del mese di aprile 2025 resteranno però nella memoria collettiva due immagini, anzi tre, e in tutte viene da osservare l’uso inedito del nero: innanzitutto, le grosse scarpe nere del vescovo di Roma che spuntavano dalla bara, scarponcini da film di Duvivier, Fernandel e don Camillo, da prete della Bassa uso a camminare fra la gente, niente pantofole rosse di morbido vitellino, solo cuoio per le marce, insomma un simbolo vestimentario potentissimo, quindi i pizzi sul capo delle signore, e niente, il velo femminile l’abbiamo inventato noi, quindi taccio, e infine gli elmi delle guardie svizzere che da qualche tempo sono stampate in 3d in materiale plastico, più leggere e resistenti e comunque perfette per non scintillare al sole distogliendo l’attenzione dei fedeli, scelta di genio da parte di gente che insegna al mondo che cosa sia il significato di apparato da duemila anni e che oggi conosce l’effetto delle riprese fatte dai droni e gli effetti cromatici dall’alto: cardinali porpora e vescovi rossi di qua, ospiti in nero o blu incongruo di là ma tutti a quadrato, a testuggine, ecco le milizie di Cristo. 


Ma poi, di quale nero si trattava? Chiunque conosca anche solo un poco le tinture o abbia provato a salvare da una scoloritura una vecchia camicia con l’idea sbagliatissima che il nero avrebbe coperto le macchie di candeggina, sa che nessun colore è più difficile da ottenere (è anche fra i più inquinanti), e che nessun altro gode, in Occidente, di una valenza simbolica così ricca e opposta: è la sfumatura della morte, la metafora dei mali oscuri che affliggono l’uomo, spesso rappresentati come animali (il gatto nero o, come scrivevano sia Samuel Johnson sia Winston Churchill, entrambi afflitti dalla depressione, “il cane nero” che “abbaia di continuo” e “non lascia mai l’abitazione”), ma anche segno della ricchezza e della dignità borghese, austera e sofisticata, proprio in quanto costoso e difficile da ottenere senza che viri nel grigio o nella gamma dei bruni che Caravaggio e tutti i pittori del Seicento usavano per gli effetti di chiaroscuro. Quello che noi definiamo genericamente con un solo termine, nero, un derivato del greco nekros secondo Franz Bopp, il linguista proto ottocentesco al quale dobbiamo la prima teoria comparativa degli idiomi e sulla quale continuiamo a spaccarci la testa in centinaia di migliaia anche oggi, è all’origine di tutta una serie di significati infausti, dal sostantivo necrosi al nuocere, e rappresenta una gamma di sfumature ricca almeno quanto il suo spettro a-cromatico, cioè prodotto dalla variazione dalla sintesi sottrattiva di tutti i colori dello spettro visibile. In ogni aspetto della vita, aggiungere è più facile che togliere, la vita è colore e luce e infatti, da qualche parte della nostra coscienza, inscritto nel nostro dna, c’è non il nero, ma il buio. Avete presente: “In principio la Terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso. Poi Dio disse: sia la luce. E luce fu”. Il buio è il colore che fa più paura per molti motivi, il primo dei quali è che nel nero assoluto, quello che la gente definisce buio pesto, si diventa decisamente consapevoli della limitatezza della nostra specie in quanto a udito e olfatto. Senza la vista, noi umani perdiamo il senso dell’orientamento e siamo vulnerabili dunque sì, in genere proviamo avversione per il buio notturno, e questo accade in tutte le culture. 


La mitologia greco-latina cercò di dare un nome e un volto al terrore della notte creando Nyx, la divinità della notte che nasce da Caos e che è madre del sonno, ma anche della discordia, dell’angoscia e della morte, non a caso temutissima dallo stesso Giove che si guardava bene dal travestirsi da toro o da cigno per andare a insidiarla, mentre nella saga tedesca e scandinava c’è Nott, dea del buio del crepuscolo, che guida un carro nero trainato da un cavallo scuro e fa calare sul mondo l’oscurità come un drappo, immagine cara anche ai pittori di ogni tempo. E ancora: Yama, il dio della morte secondo la religione hindu e Anubis, la sua controparte egizia, hanno entrambi la pelle nera; Kali, forza distruttrice e creatrice, ha il volto color pece, una collana di teschi al collo, una spada e una testa mozzata in mano, e perché non vi siano dubbi, in sanscrito il suo nome significa “la nera”. Nella leggenda del Minotauro raccontata da Plutarco, i giovani sacrificati alla creatura mostruosa ogni anno venivano fatti partire in una nave con le vele nere “a manifesta morte”. Il timore della notte buia, del nero più tetro, opaco, del nulla, è anche all’origine della parola latina ater da cui deriva atroce, l’orrore senza possibilità di scampo, mentre il nero luminoso e benigno perché sì, ovviamente esiste altrimenti non si capirebbe perché sia così frequentato dagli eleganti di ogni tempo dal Rinascimento fino alle sfilate di Comme des Garçons e Dolce&Gabbana, è definito niger. Negro, come è rimasto in spagnolo, e nero, in italiano. In quel campo semantico di mezzo fra ater e niger si trovano le pietre nere tipo ossidiana, da sempre legata al mondo dell’occulto tanto che, come ricorda un testo dell’antropologo statunitense J.A. Darling, che ha scandagliato a lungo le usanze della costa occidentale del continente nord-americano, fino agli Anni Novanta del secolo scorso durante le cerimonie tradizionali le donne del pueblo di Santa Clara, nel New Mexico, si vestivano di nero e recavano lunghe spade e lance di ossidiana per scacciare il maligno e le streghe la cui patrona locale, in azteco, si dice Itzpapalotl, appunto “farfalla di ossidiana”: bella, luminosa, maestra di guarigioni ma anche all’occorrenza di pozioni venefiche. 

   

Il giaietto intagliato e sparso a piene mani su mantelle, scialli, corpetti, lungo tutto l’Ottocento. I “mourning jewels”, i gioielli da lutto

   
E qui arriviamo alle nostre pietre eleganti e all’uso del nero come manifestazione sensibile del lutto, rappresentate dal giaietto, in francese jais, intagliato e sparso a piene mani, o per meglio dire fino a quando ce n’è stato, anche su mantelle, scialli, corpetti, lungo tutto l’Ottocento. I mourning jewels, i gioielli da lutto. Non c’è ritratto della regina Vittoria dopo la morte dell’amatissimo Albert senza un monile di giaietto in bella vista, anche per la semplice ragione che la più pregiata varietà di lignite fossile da cui si ricava questo materiale si trovava a Whitby, sulla costa dello Yorkshire, in Inghilterra. L’avevano scoperto i romani, gente di gusto, ritenendolo giustamente superiore per brillantezza e durezza rispetto a quello della penisola iberica, e fino all’Ottocento era così diffuso che sulle sue spiagge se ne potevano trovare cumuli alti come oggi gli scarti dei nostri abiti fast fashion sulle coste del Ghana. Negli Anni Settanta dell’Ottocento, quando il mourning fashion era all’apice e i cataloghi delle catene commerciali da Londra a New York proponevano abbigliamento nero a buon prezzo per tutti, ci sono decine di novelle per bambini delle varie Frances Hodgson Burnett a ricordarci che in caso fosse morta la mamma non si sfuggiva all’abitino nero con la fascia di seta nemmeno a quattro anni, l’industria del giaietto inglese impiegava più di millequattrocento persone. Verso la fine del secolo, insieme con la lignite si era esaurita anche la moda delle doglianze in crinolina nera dunque, se possedete orecchini o bracciali di vero giaietto e non di quel vetruzzo smerigliato francese che lo sostituì per un certo periodo, tenetevelo caro perché vale oro. 

  

Nel ’46 la mostra alla mitica Galerie Maeght. Si intitolava “Le noir est une couleur”, e forse solo lei avrebbe potuto permettersi, allora, di sostenerlo

  
Col nuovo secolo, il nero cambiava, letteralmente, colore, diventava brillantissimo, gioioso e lucido, adatto per accompagnare le maschiette col taglio corto à la Louise Brooks e il raso degli abiti delle flapper. Era il nero “ala di corvo”, animale caro agli dei ma anche alla cinematografia attuale per la sua intelligenza, tanto che un paio di anni fa, al Festival di Locarno, mi ritrovai con un centinaio di appassionati a seguire un lungo documentario austriaco sulle interazioni fra le società umane di oggi e le comunità di questo volatile che faceva da seguito ad Apollo e ad Odino e ne uscii impressionata come al termine della prima lettura della terribile ballata degli impiccati di François Villon: da millenni abbiamo delle spie sul tetto e non ci facciamo caso. Comunque, belle penne. Superati indenne i Trenta e perfino i Quaranta, le cose per il nero si era fatte talmente stratificate e complicate che nel 1946 la mitica Galerie Maeght sulla Rive Gauche organizzò la prima mostra sui risvolti cromatici di questo inarrivabile non-colore. Si intitolava “Le noir est une couleur”, e forse solo lei avrebbe potuto permettersi, allora, di sostenerlo, visto che sconfessava la lezione di Auguste Renoir (“la natura conosce solo colori”), il quale aveva ovviamente ragione visto che anche oggi, come scrivevo nelle prime righe, ottenere il nero assoluto, il buco nero perfetto, è del tutto impossibile. Nel 2014, la Surrey NanoSystems di Newhaven ha sintetizzato il Vantablack, una sostanza composta da nanotubi di carbonio che intrappola il 99,965 per cento dello spettro visibile: due anni dopo, ne ha concesso la licenza per il mondo dell’arte ad Anish Kapoor. Il vantablack è così scuro che inganna gli occhi e il cervello, impedendo di percepire correttamente profondità e distanze. Nessuno era andato ancora così vicino alla nostra paura atavica del buio.

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