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Il Foglio Weekend

Una vita in rosso Valentino: Giancarlo Giammetti si racconta

Michele Masneri

Gli inizi, la moda, il successo, e Roma nel cuore. E ora una nuova sede della Fondazione

Se Valentino è l’ultimo imperatore, come nell’omonimo film, Giancarlo Giammetti è il Papa Re della moda. Mentre Roma ha il suo nuovo pontefice americano, nel suo ufficio di via Condotti Giammetti il romano regna lì dove tutto è cominciato, tra le mani non il pastorale ma un pulsante elettronico per chiamare il maggiordomo francese che in un nanosecondo si precipita alla bisogna (ma l’improvvido intervistatore teme che comandi anche una piccola botola che si apra per sbarazzarsi di lui, magari alla domanda sbagliata, tipo Mr. Burns dei Simpson). Se un Papa Valentino c’è stato, il centesimo di Santa Romana chiesa, nell’800, un Papa Giancarlo non si è mai avuto. Fama da duro, anima sottotraccia della coppia e brand Valentino, tra i colossali Kiefer che pendono dalle pareti di questo ufficio da sovrano e gli stuoli di assistenti al soglio, Giammetti è di nuovo a Roma dove la grande avventura è iniziata, il 31 luglio del 1960, quando lui, giovane svogliato studente di architettura, incontra un giovane stilista in ascesa, tal Valentino Garavani da Voghera, e non si lasceranno più, creando un mito e un business model del ’900. “Ma noi non ce ne siamo veramente mai andati”, dice lui. Adesso il gran ritorno a Roma vedrà una nuova sede della fondazione Valentino e Giammetti che aprirà il 24 maggio nello storico palazzo di piazza Mignanelli, con un evento molto atteso. “Faremo mostre, un cinema, iniziative culturali. Ma anche molta filantropia, concentrata su bambini e anziani, che sono le due aree che Valentino e io consideriamo le più bisognose di aiuto. Un progetto specifico per gli anziani al Gemelli” (e Giammetti dice “anziani” come parlasse di un universo lontano, esotico, con l’aria vispa di un ragazzino che ne ha viste tante ma ne vorrebbe vedere ancora con gli occhi scuri pieni di curiosità) “e un nuovo padiglione di attesa al pronto soccorso del Bambin Gesù. Sono stato lì e ho visto che non c’è un posto decoroso dove le famiglie possano aspettare”. Viene fuori un po’ il suo essere anche un mancato architetto? “Assolutamente”, fa Giammetti. Dove frequentava? “Alla facoltà di  Valle Giulia, e prima al collegio San Gabriele”. Ha sempre detto che aveva detestato quegli studi. “Non amavo studiare, ma l’architettura mi è sempre piaciuta. Come l’arte. Amavo immaginare. Non mi piaceva la routine”. In una vita parallela sarebbe potuto essere un gallerista. Storico il suo fiuto per i quadri. “Tra i primi acquisti, alla Biennale di Venezia del ’66 presi un Fontana, tutto bianco. Lo portai a casa tutto contento mostrandolo ai miei: vi piace? E loro: ma quando lo apri? Pensavano che fosse l’incarto”. 
Però nelle vostre case sono celebri i Bacon, i Warhol, i Picasso. “Un Picasso lo prendemmo da un sarto milanese, Lizzola, che scoprimmo essere il sarto del pittore, che pagava appunto in quadri. Pensavo a uno scherzo, invece era uno dei Picasso migliori in circolazione”. Warhol invece fu una sòla. “Quando cominciammo a ingranare venne da noi a New York e chiese se poteva fare un ritratto di Valentino. Poi andammo da lui e ne aveva realizzati diversi. Che belli, pensai ingenuamente. Si possono comprare? Se ne vuole uno viene tot, se ne prendi tre tot, cinque un’altra cifra, offerta speciale. C’era tutto un listino, lui insomma li faceva per commissione, ma noi non ce li potevamo ancora permettere. Abbiamo fatto una figuraccia. Ne abbiamo poi comprati due pagandoli tantissimo molti anni dopo”. Che tempi però con Warhol. “Sì, Studio 54 sempre. Anche se noi non ci siamo mai drogati, e neanche alcol, Valentino e io”. 
Scusi, e a Roma il Piper? “No, andavamo al Pipistrello e al club 84 in via Sardegna, dove abbiamo fatto un sacco di feste con Valentino”. Comunque. “A un certo punto Andy viene a Roma. Andò a Napoli a fare dei quadri del Vesuvio, e poi voleva lavorare nel cinema: e noi conoscevamo Franco Rossellini che stava producendo ‘Identikit’, tratto da una novella di Muriel Spark, storia di una matura turista tedesca che viene a Roma tentando di liberarsi dalla depressione. Interpretata da Liz Taylor”. Scusi ma perché Liz Taylor accettò di fare quella parte non molto invitante? “Perché adorava Rossellini e adorava stare a Roma. Tutti volevano stare a Roma. Sa, era un periodo non comprensibile oggi. Diana Ross faceva il film ‘Mahogany’, Liza Minnelli stava pure lei sempre qui. Era un’epoca irripetibile. Che bello che era”. E si commuove, poi si ricompone immediatamente, si vede che gli piace tantissimo fare la parte del cattivo. Tornando a Warhol? “Alla fine c’era un unico ruolo disponibile, quello dell’autista in divisa della Taylor, e lui lo fece, si trova ancora online”. Roma era irripetibile all’epoca, ma oggi? “E’ comunque una città piacevole, meglio di New York, meglio di Parigi”. Meglio anche di Milano? “Milano la conosco pochissimo, noi sfilavamo solo con la collezione uomo lì, non ho mai avuto tanti amici, solo conoscenti a Milano. Città interessante, però Roma è un’altra cosa”. E l’America di oggi? “Non ci vado”. L’America fu alla base della vostra fortuna, con le attrici di Hollywood sul Tevere, con le first lady. “La prima volta che incontrammo Liz Taylor era nel ’60 e per la prima di ‘Spartacus’ a Roma comprò il vestito più caro della collezione, tutto bianco. Grande attrice e grande persona, molti anni dopo nel ’91 andammo insieme in una casa di accoglienza  della Caritas a Villa Glori tra i malati di Aids, lei che era in prima linea in America nella lotta al virus stava lì seduta a terra spiegando le cure e i protocolli sanitari ai pazienti”. E poi naturalmente Jackie Kennedy, come l’avete conosciuta? Col vestito del matrimonio con Onassis? “No, molto prima. La prima volta fummo segnalati dalla sorella di Consuelo Crespi, che lavorava da noi, e venne a una nostra sfilata al Plaza, e da lì creammo un bellissimo rapporto”. 
E Nancy Reagan, altra storica cliente e amica? “Era più piccolina, molto presidenziale. E molto curiosa, ogni giorno alle 15 chiamava Valentino e voleva sapere tutti i pettegolezzi. Ma Valentino non è per niente pettegolo, anzi”. Nancy Reagan come l’Avvocato Agnelli, altro amico e curioso sodale e anche un po’ musa del mondo Valentino. “Quando venne nel mio ufficio a piazza Mignanelli disse che sembrava quello di Chaplin nel ‘Grande dittatore’”. In effetti. “A Cetona invece dalla nostra casa che dà sul paese si vedevano un sacco di auto parcheggiate. Gianni lì fu molto spiritoso: ‘guarda il danno che abbiamo fatto noi con le nostre macchine’”. Con Gianni e Marella avevate in comune anche Renzo Mongiardino, sublime foderatore di case in ogni angolo del globo. “Fece quelle di Valentino a Roma, appunto Cetona, New York. E proprio a New York aveva appena finito di fare l’appartamento dell’Avvocato, che però lui non aveva amato, e camera sua se l’era fatta rifare da Gae Aulenti”. Altra passione in comune, Balthus. “Ah, Balthus, aspetti”, schiaccia il bottone e io non sprofondo, ma arriva invece il maggiordomo francofono, che viene spedito a cercare un catalogo del pittore francese di gatti e ragazzine. Ricompare un secondo dopo col catalogo (chissà che addestramenti). “Balthus era convinto che i quadri, anche una volta venduti, fossero comunque suoi. Per cui a un certo punto vide a casa nostra questo ritratto di ragazza, con la cintura, e mandò a chiamare un pittore per cambiare il colore della cintura, perché non gli piaceva. Non c’era verso di fargli capire che non era il caso”.  
Tornando ai tempi gloriosi degli inizi, ecco la più gloriosa start up romana che si ricordi. “Cominciammo qui, in questo appartamento, poi ci spostammo in via Gregoriana che era la strada della moda all’epoca. Eravamo in coabitazione con la proprietaria, la signora Ricupito, ancora mi ricordo il nome; era un appartamento pieno di gatti, un posto molto modesto. Ma arrivava Marella Agnelli, arrivava Mia Acquarone, tutte le signore più importanti. Davanti a noi c’erano gli atelier di Simonetta, poi c’era Capucci, e poco distante Galitzine, e ancora Federico Forquet, Fabiani, tutti bravissimi”. Però solo voi siete diventati star globali e siderali, come mai? Mi fulmina con un colpo di sopracciglio. “Forse perché avevamo talento?”. Poi si rilassa. “Forse perché eravamo bravi nella comunicazione. Forse perché eravamo anche curiosi, di conoscere. Di imparare. Come ricevere, come arredare una casa: poi non eravamo timidi ma neanche presuntuosi. Uscivamo dal guscio”. In effetti solo loro hanno navigato e dominato quel mondo che non era quello degli influencer in ciabatte di oggi, bensì un universo che mescolava altezze reali, intellettuali, industriali, cigni alla Capote, dove insomma essere ricchi era necessario ma non sufficiente  per far parte  di una grande storia del gusto transatlantico in the making. 
“E poi c’era la nostra unione, un’unione che nessun altro aveva”. Forse, azzardo, c’erano Saint Laurent con Pierre Bergé. Altro fulmine. “La differenza è che Saint Laurent era una persona molto sofferente, che alla fine era circondata da persone che non lo rendevano sereno. Io invece nella mia vita ho sempre fatto di tutto per rendere la vita serena a Valentino, lo sento tutti i giorni, e ci vediamo, e quando mi vede sento che è felice. Sento che questo è il mio più grande vanto”. Non c’è mai stato un momento in cui si è stufato, di rimanere  un passo indietro, di esercitare questa pazienza? Di  essere il numero due? Ride, come fosse una domanda assurda, e forse lo è. “No. Io non ho mai cercato la gloria. Del resto, Valentino presentandomi alla regina Elisabetta disse: ‘Can I introduce you to my assistant?”. Voi poi siete stati pionieri della vera famiglia queer. Anche oggi, compagni, ex compagni, tutti insieme. “Sì, ora ci sono le gemelline di Sean, uno dei figli di Carlos (storico collaboratore e figlioccio di casa Valentino), a me è sempre piaciuto tenere intorno le persone a cui voglio bene”.
 Improvvisamente la famiglia queer foderata Mongiardino divenne di dominio pubblico, era il 2008 ed esplose “Valentino, the last emperor”, il documentario su una coppia di stilisti che trasformò un coming out in uno dei momenti audiovisivi più alti degli anni Duemila. Battute come “Troppa sabbia”; “troppo abbronzato”, “non voglio nessuna nana nella sfilata”, “tieni dentro la pancia”, “l’Ara Pacis? Sembra Macy’s” sono lessico comune per chi non sia il generale Vannacci (o forse anche per lui). E poi i carlini e i maggiordomi che gli lavano i denti a Gstaad o sul jet privato. Anche lì precursori, oggi che un documentario non si nega a nessuno, e quello sugli stilisti è un format obbligato, ma allora non si usava. “Ci seguì ininterrottamente per due anni una troupe di tre persone. Quando  vedemmo il film in anteprima convocai il regista, Matt Tyrnauer, e gli dissi: chiama i tuoi avvocati”. Poi invece vi convinceste. “Tagliammo solo qualche scena minore”. Si dice che Marta Marzotto se la prese per come bullizzaste il figlio Matteo, che all’epoca era presidente dell’azienda Valentino. “Marta era stupenda, ma non parlava l’inglese e quando  vide il film  in sala al festival di Venezia fu entusiasta, poi glielo tradussero e il giorno dopo, eravamo all’hotel Monaco, si infuriò”. Ma i carlini ci sono ancora? “Sì, due, io invece ho due pomerania. Ma io sono meno canaro di Valentino”. Tra le scene più esilaranti, Valentino che sbrocca in francese perché contesta alcune scelte di Giammetti e soprattutto perché non sopporta più la troupe. Perché parlavate francese tra voi? “Perché quando ci siamo conosciuti a via Veneto Valentino mi disse che lui pensava in francese, era stato a Parigi. A me sembrava un po’ esagerato, e mi chiese se lo parlavo pure io, io bluffai, facemmo un po’ di conversazione, e lui disse: sì sì ho capito, ora te lo insegno io, e da allora abbiamo sempre parlato francese”. In francese anche la consegna della Legion d’Onore a Valentino che si commuove parlando di  Giammetti (in disparte, che si commuove pure lui. Ovviamente solo per un attimo, poi c’è una nuova festa e nuova sfilata). Never complain e never explain, come si usava nel Novecento; e “Private” del resto è una specie di suo motto, si intitola così un suo librone di ricordi fotografici del 2013 ma anche il suo account Instagram, e in inglese “private” vuol dire anche “soldato semplice”, come “Saving Private Ryan”, e nel film viene da pensare talvolta “salvate il soldato Giammetti”. 

Ma avete poi deciso una volta per tutte qual era il bar in cui vi siete visti per la prima volta? Nel film lei sostiene il Café de Paris, Valentino Doney. “Valentino rimane irremovibile su Doney”. Le vostre famiglie come avevano preso la vostra storia d’amore? “Le nostre madri furono molto amiche. Due tipi completamente diversi. La famiglia di Valentino era di Voghera, i miei romani. Sua mamma era una donna straordinaria, lombarda, all’antica. Per dire: qui in questo atelier, lei girava la sera con una calamita a raccogliere le spille che cadevano alle sarte, poi le spolverava e le faceva trovare pulite al mattino. Mia madre invece era più mondana, amava giocare a carte. Andavano molto d’accordo”. E suo padre? “L’ho perso molto presto. Era un imprenditore, un uomo del boom, aveva un’azienda e un negozio di elettrodomestici, in via Lazio 13. Abitavamo in via Adda”. Insomma un ragazzo di via Veneto. “Lui a via Veneto era di casa. Sognava un figlio ingegnere, che poi ebbe, mio fratello, e un architetto, che non ebbe”. Come prese la vostra storia? “A un certo punto mi affrontò e dissi la verità. Gli dispiacque un po’ all’inizio, poi diventarono intimi con Valentino. Mi dispiace perché non ha potuto vedere tutto il nostro successo”. TM Blue One, la leggendaria barca di Valentino, si deve alle iniziali dei genitori Garavani, vero? “Sì, Teresa e Mauro”. Fate ancora le crociere con le due barche affiancate,  Tm e Gg? “Certo”. Ma meglio New York o Voghera? “Eh, a Voghera c’è la via Emilia, non la Quinta strada. A Voghera abbiamo restaurato il Teatro sociale che ora si chiama teatro Valentino Garavani. E da Voghera ci passavamo quando andavamo a Cannes o St. Tropez in macchina”. A un certo punto arrivaste con una Rolls Royce blu. “Ma abbiamo fatto anche una grande spettacolo nel 2023 con Eleonora Abbagnato”. Che poi c’è un po’ di Voghera anche lì, l’istitutore dell’Avvocato era Franco Antonicelli, celebre antifascista vogherese. E ci fu un tempo poi in cui nel raggio di duecento metri da Piazza di Spagna vivevano tre illustri vogheresi, Valentino, Arbasino e Maria Angiolillo. Vabbè. Ma tutte queste memorie, non vuol fare un altro libro, dopo “Private”, composto soprattutto di Polaroid? “Mah, non so, non mi va, non vorrei qualcosa di troppo scritto”; dice Giammetti, santo subito, in un mondo in cui tutti sono ormai grafomani. Si dice che abbia da parte 57 mila foto. “Ma questo era dieci anni fa, ora sono molte di più. Anche questo è un insegnamento di Warhol, che come me era ossessionato dall’immortalare l’attimo. Lui arrivava al bar e lasciava il registratore acceso sul tavolino, poi lo faceva sbobinare, e qualcosa ne veniva fuori. E poi le sue, di fotografie, quante ne abbiamo buttate,  oggi valgono 25 mila dollari l’una. Anche io ero un maniaco della Polaroid, giravo sempre con la macchinetta, anche alla Casa Bianca”. Ma non le dicevano niente? “Diciamo che eravamo abbastanza benvoluti”. Continua a fare foto anche oggi? “No, col telefono mi sembra cheap, e a girare con la macchina fotografica mi prenderebbero per un turista”. 
Però lei  è molto tecnologico. “Quello da sempre. Ricordo il primo computer, gigantesco. Oggi sono bravino con l’intelligenza artificiale”. Cosa usa? ChatGPT? “Midjourney. Faccio disegni, ho progettato un’intera collezione di Valentino completamente inventata, dicevo, qui mettici Naomi, qui mettici Christy Turlington”. E poi le tiene o vanno perdute? “Ma scherza, io sono un maniaco dell’organizzazione, se lei mi chiede una lettera del 1988 io l’ho catalogata”. 
Catalogati anche i mitici progetti per le sfilate, prima che ci fosse l’AI. “Ho sempre cercato di essere creativo”. Una certa passione per la sabbia, come nel film, e come nella campagna primavera estate ‘67 con Mirella Petteni sulle dune. “Era tutto semolino. Ma per una sfilata a tema camouflage prendemmo in prestito un Warhol lungo 14 metri. Ah, se l’avessimo comprato”. Ma c’è un quadro a cui è affezionato più di tutti, uno che vuole vedere ogni giorno al mattino? “Non sono così romantico”. Non faccia finta, su. Diciamo allora uno che si è pentito di non aver preso o venduto? “Ecco, meglio. Un Basquiat che ho venduto troppo presto”, fa lui, col campanello pronto tra le mani, privato ma non troppo (ma la botola ancora non è scattata, vabbè).

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).