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Il foglio della moda - I vanti della moda

La modista che disse di no a Christian Dior e altre utili imprese al femminile

Claudia Vanti

Prima del mito del Made in Italy, la moda italiana è stata costruita da donne visionarie e artigiane. Da Rosa Genoni a Isotta Zerri, hanno plasmato un’eccellenza spesso dimenticata

Se il Novecento è stato il secolo dell’affermazione della moda italiana, la vulgata, e un discreto numero di testi, tendono a considerare questo processo dalla sua metà esatta o quasi, il 1951, cioè dalle sfilate in Sala Bianca di cui, peraltro, esistono testimonianze fotografiche importanti anche nel decennio precedente. Ma chi si tende a dimenticare, come se fossero nate in quel preciso momento o, in caso fossero state attive a cavallo del secolo precedente, non fossero mai esistite, sono le donne che hanno lavorato perché questo processo riuscisse a compiersi. E che sono state più numerose, più attive, più disincantate rispetto agli uomini. Rosa Genoni, a cui viene intitolata da questa edizione del premio “Donne e Moda” la categoria “antesignane del Made in Italy”, non può che essere citata per prima: attivista politica, docente dell’Umanitaria, première della sartoria Haardt&Fils di Milano, aveva fatto suo, assorbendolo già nei primi anni come “piccinina”, un dibattito sulla necessità di una moda italiana, affrancata da quella parigina, che era attecchito già prima dell’unità e per certi versi era attivo già dal Seicento.

Il suo repertorio di modelli di una moda nazionale che partiva dal costume popolare e dalla grande storia dell’arte, integrate in produzioni di eccellenza artigianale a cui lei stessa contribuiva attraverso l’associazionismo femminile, è un esempio luminoso di volontà e di impegno di cui restano molte immagini fotografiche, molti figurini e pochissimi esemplari, alcuni fra quelli con cui aveva sostituito gli abiti andati persi nel devastante incendio del padiglione italiano alla Mostra delle Arti Decorative del Sempione, nell’agosto del 1906, e oggi conservati alle Gallerie del Costume di Palazzo Pitti, a Firenze salvati dall’incendio del Padiglione. Come molte fra le couturières che l’avrebbero succeduta, già nel 1908 aveva ideato un abito che non comprimeva e modificava il corpo femminile, il modello “tanagra”, dalla denominazione delle celebri terrecotte greche, subito adottato dalla diva del momento, Lyda Borelli. Meno di vent’anni dopo, Luisa Spagnoli, oggi diventata un’eroina popolare grazie a serial, saggi, biografie romanzate come quello di grande successo firmato da Paola Jacobbi, affiancava alla sua fabbrica di caramelle e cioccolato una fabbrica per la lavorazione della lana d’angora, finendo per coinvolgere ottomila allevatori, e sostenendo fra le prime iniziative di welfare aziendale, lungo la stessa linea che, centotrent’anni prima, mel 1789 che sarebbe stato fatale a sua sorella Maria Antonietta, aveva spinto Maria Carolina d’Austria, moglie di Ferdinando IV di Borbone che porta immeritatamente la firma sul documento, a promulgare lo Statuto di san Leucio, esempio di socialismo illuminato attorno alla fabbrica di seta grezza, pregevolissima: il primo esempio al mondo di parità salariale e di supporto alla maternità.

E ancora, Maria Monaci Gallenga, la prima imprenditrice del lusso italiano ad attraversare l’Atlantico e tutto il continente nord-americano con i suoi velluti stampati già nel 1915, fra le artiste italiane presenti alla mostra dell’Art Déco di Parigi del 1925, fra le firmatarie del programma dell'Ente nazionale per l'artigianato e la piccola industria, fondato nello stesso anno per promuovere l'immagine del prodotto italiano nel mondo. E poi, e ancora decine di altre sarte che si legano a grandi artisti e musicisti, promuovendone l’opera, da Gigliola Curiel a Germana Marucelli, altre che si affermano non solo nella couture, ma nel pret-à-porter come le Sorelle Fontana, e ancora nomi meno noti, ma in grande affermazione oggi attraverso gli eredi, come Maria Peserico, tagliatrice maxima di pantaloni e ideatrice di soluzioni geniali per la vestibilità, per decenni a fianco di Giannino Marzotto e poi, da imprenditrice che sognava una donna in pantaloni già nel 1962, quando nelle riviste femminili era vietato portare altro che la gonna, consigliera e partner stilistica di geni dell’innovazione nella moda come Adriano Goldschmied. Prima di Donatella Versace, di Miuccia Prada, la moda italiana è stata costellata di donne. L’importante, è far sì che a tutte venga riconosciuto il giusto ruolo.

Mi trovo di nuovo a scrivere della mia città, Bologna, e in questo caso non di brand in crisi con un glorioso passato alle spalle, come La Perla di Anna Masotti, ma di una modista dimenticata oltre le torri, Isotta Zerri. Dagli anni Trenta agli anni Novanta, nel negozio con vista su Piazza Santo Stefano, questa artigiana creativa e di talento ha realizzato cappelli per clienti affezionate (da Edda Ciano a Idina Ferruzzi), star del cinema (Grace Kelly) e maison di haute couture: prime fra tutte Coco Chanel e Christian Dior, che nel 1952 l’avrebbe voluta accanto a sé, in atelier, a Parigi ma non riuscì mai a convincerla a lasciare la sua casa e la sua famiglia, dove peraltro dettava legge e si faceva rispettare. Quella di Isotta è una storia al tempo grande e piccola, emblematica di come la moda in Italia sia (sia stata?) un insieme di vicende individuali segnate da tantissimo lavoro, frequenti sacrifici e cura per la qualità senza la quale sarebbe stato impossibile crearsi “un nome” duraturo e affidabile.

Isotta Zerri, nata nel 1913 e morta nel 2001, imparò a cucire da bambina con la mamma e la zia, sarte, un dato biografico comune a tantissime altre donne che hanno dato vita a laboratori e atelier sui quali si è consolidata almeno in parte la struttura del futuro Made in Italy. L’abitudine al lavoro precoce, anche quando non era una necessità economica, era parte dell’apprendimento domestico, ma non era scontato che il saper fare di tradizione familiare si affinasse fino a raggiungere la fama internazionale: divenuta modista, “la signora dei cappelli” in poco tempo si fa amare per i modelli “da guardare, posare sul capo e non toccarli più” e una lucidità progettuale tuttora invidiabile: “Un cappello deve nascere di getto, appena ci si mette le mani. Deve risultare leggero, vaporoso, non acciaccato da modifiche o ripensamenti, che io ammetto solo nella fase di progettazione mentale”. Sono principi indicativi di una mentalità da designer, e sono stati raccolti nel documentario di Paolo Fiore Angelini, “Appunti per un film su Isotta Zerri”, realizzato a seguito della mostra a lei dedicata nel centenario della nascita da Lavinia Turra, stilista anch’essa bolognese, figlia di amici di famiglia, che negli anni dell’infanzia trascorreva pomeriggi interi nel suo atelier e lì, racconta, ha imparato ad amare la moda. Dai ricordi di familiari, clienti e lavoranti emerge una donna con una notevole consapevolezza della propria visione, tale da far notare a monsieur Dior come stesse creando cappelli troppo rigidi, “oggetti d’arredamento”, e come lei avrebbe potuto “fare di meglio”, e al contempo una imprenditrice dotata di senso pratico e capacità organizzative nel destreggiarsi tra le consegne per le maison e per le clienti private fino a sviluppare un’impresa di venti dipendenti. Non è un caso, infatti, che le sia stato dedicato un capitolo della raccolta di saggi “Le donne che fecero l’impresa” (“Chapeau” di Marta Casarini - Edizioni del Loggione), perché di questo si trattava, come attività economica e come azione che comportava rischi e un certo spirito d’avventura, oltre al duro lavoro.

Il substrato della moda è questo: la capacità di fare e di misurarsi tanto con la manualità che con le idee, e a Bologna, come in altre città e paesi di provincia, tante imprese sono state fondate da donne, o ispirate dalle donne della famiglia. Solo per citarne due, la pellicceria Gelosi Diva, che negli stessi anni di Isotta Zerri (a pochi metri di distanza) aveva organizzato la sua attività attraverso il controllo dell’intera catena (conceria, commercio delle pelli, ideazione e confezione); e Bovina, che, già fabbrica di fiori per cappelli negli anni Trenta, dagli anni Sessanta cominciò a proporre fiori in tessuto per le spose e l’alta moda (oggi per Saint Laurent, Valentino e altri) grazie al talento di Raffaella Bonetti Bovina e al marito Raffaele. Nelle scuole di moda capita di incontrare giovani designer e studenti attratti dalla dimensione laboratoriale e artigianale della moda, dai progetti a filiera corta e radicati nel proprio territorio, convinti che non sia necessario varcare la porta dei marchi del super lusso per sentirsi realizzati professionalmente. Un modo di pensare e di agire salutare, per certi versi, al di là del mito di carriere sempre più competitive e incerte, purché questo non si trasformi in chiusura, in collezioni senza ambizione progettuale.  

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