
Sarah Burton (foto Epa, via Ansa)
Sarah Burton da Givenchy. La moda non è per i giovani
In tempi di crisi dei consumi, tutte le multinazionali preferiscono scommettere su direttori creativi che sono già dei brand in proprio
La nomina di Sarah Burton alla direzione creativa di Givenchy era stata talmente prevista, anticipata e pre-commentata - in tempi di social, a fini di engagement, si specula per giorni anche sui desiderata – che quando, finalmente, la comunicazione ufficiale è stata consegnata nella casella della posta elettronica, sembrava già vecchia e fra i fashion insider è stata osservata con qualche stupore. Perché il gruppo Lvmh la comunica adesso? Perché adesso si sa che da marzo 2025 la designer inglese che per venticinque anni ha lavorato sul brand Alexander McQueen, per dieci anni accanto al suo fondatore, e dopo il suo suicidio nel 2010 da sola, prenderà le redini di Givenchy. Il che, se ci permettete, dimostra che anche la moda nutre un certo gusto per gli intrecci romanzeschi e le trame à la Daphne du Maurier, l’ineluttabilità del destino e la fatalità avete presente, visto che lo stesso McQueen, fra il 1996 e il 2001, aveva guidato la creatività di Givenchy prima di lanciare il suo marchio e assumere Burton che quindi, per la seconda volta, ricalca le orme del suo mentore.
Burton, gentile cinquantenne che negli anni aveva portato un tocco più morbido e lussuoso al marchio nel quale il genio di McQueen riversava le proprie ossessioni, mescolando il proprio gusto per blazer e anfibi con gioielli e accessori massicci e punk, aveva lasciato la direzione creativa del marchio del gruppo Kering meno di un anno fa per essere sostituita da Sean McGirr che purtroppo, per il momento, non ha prodotto collezioni degne di nota o, per meglio dire, ha portato in passerella un’eco dei vecchi archivi del tutto inadeguata al tempo e al gusto di oggi.
In relazione alla nomina di Burton, a cui spetta il compito di rivitalizzare un marchio che, dopo la lunga gestione di Riccardo Tisci, non ha più avuto direzioni interessanti e langue quasi da sette anni, vi è però un’altra considerazione da fare, ed è che il progressivo spostamento dei consumi nel mondo occidentale verso il turismo, il gusto, in genere il “leisuretime”, cioè in attività lontane dalla moda, chi produce lusso in abiti e accessori non può rischiare di affidare marchi storici a giovani creativi. Quello che accadde quasi trent’anni fa con Givenchy, dove si avvicendarono John Galliano prima di approdare a Dior e lo stesso McQueen, non sarebbe più possibile adesso. Il bacino dei papabili per quel gioco tanto amato dai media che è il “giro delle poltrone” è sempre lo stesso: firme che valgono come marchi, tutti cinquantenni o giù di lì. Il flop di McGirr dimostra che non c’è più tempo per aspettare crescita, che non c’è più modo di sbagliare. E adesso manca un solo nome sicuro e garantito da piazzare: quello di Pierpaolo Piccioli.

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