il foglio della moda
Scambio di ruolo, la dissoluzione delle certezze vetero-borghesi
Tutta una serie di preconcetti vengono smantellati dall'impatto con la realtà di un mondo sempre più difficile da incasellare e smentiti da una documentazione storica che racconta l'opposto
L’Ottocento ci ha convinti che esistessero professioni “più femminili”, ma anche fisici, voci e misure “più adatte” per certe professioni. Nelle sfilate (Balenciaga), nelle kermesse commerciali (Pitti Uomo), perfino nella politica nazionale, è arrivato il liberi tutti. Anche volgare e kitsch. Ma la rivoluzione, dopotutto, non è mai elegante
“La prima volta che lo vidi, a un reading, indossava un cappellino di lana color arancio sopra quella tonnellata di dreadlock, due maglioni sovrapposti di colori a contrasto, uno sul verde lime l’altro sul grigio, un paio di pantaloni troppo larghi, e un paio di sneaker favolose. Pensai che dovesse essere un ragazzino ricco, della comunità nera affluente. Nessuno sarebbe andato in giro con quell’aria sicura di sé senza avere alle spalle una barca di quattrini. E invece, probabilmente, non aveva nemmeno un posto dove dormire”. Il ragazzino così certo del proprio talento e della propria personalità da potersi permettere di mistificare il proprio aspetto è, o per meglio dire era, Jean Michel Basquiat, e chi lo descrive è invece la stylist Karen Binns, intervistata da Charlie Porter nel 2021 per “What Artists wear”, un saggio uscito per Penguin: è quel genere libro che chiunque si occupi di moda dovrebbe tenere sul comodino, un livre de chevet come si diceva ai tempi di Gustave Flaubert, perché per quanto si possano squadernare ancora e ancora le sue pagine, vi si trova sempre una chicca nuova, un’osservazione utile, uno spunto interessante di paragone. E nulla, soprattutto in queste ultime settimane, è più interessante dell’improvvisa dissoluzione di una lunga serie di certezze a cui ci eravamo abituati da una decina di generazioni.
In ordine sparso e con ovvia differenza di pesi: sta per inaugurare a Firenze un’edizione di Pitti Uomo, cioè un’esposizione commerciale di moda maschile, dove le due star sono due donne, Marine Serre e Carolina Castiglioni, che è una bella evoluzione di genere e di ruolo se si pensa che fino alle prime patenti, firmate da Luigi XIV, le donne non avevano il diritto di fare le sarte (a livello professionale, si intende) e che anche adesso trovate più signori che signore a tagliare cappotti e capispalla.
Le donne che vestono gli uomini senza limitarsi a ricamargli le pantofole, un classico del romanzo vittoriano, è ancora e per molti versi una novità. Quindi: è iniziato un Pride month che sembra, incredibilmente, meno commerciale del solito e più concentrato sui temi che contano che sulle magliette arcobaleno mentre, all’opposto, abbiamo appena assistito all’exploit di un Papa che, senza avvallare affatto l’ignoranza della lingua italiana che politici soccorrevoli gli riconoscono, ha dato fondo al proprio spirito più verace per arginare in puro vernacolo mediterraneo la presunta avanzata dell’omosessualità nella Chiesa Cattolica.
E ancora, abbiamo tutti seguito con divertimento misto ad apprensione patriottica all’esibizione di una premier che, invece di glissare elegantemente su un’uscita infelice a suo carico, ma detta en petit comité, insomma fra pochissimi, l’ha ripetuta a favore di telecamere al suo autore, brandendola come una mazza e trasformandola in uno slogan e in un manifesto di potere femminile (per dirla fuor di perifrasi, era dal 2022 delle “bad bitch” Beyoncé&Rihanna che le stronze non trovavano modo di affermare il sottile senso di esultanza che si accompagna alla definizione e, al di là appunto di quel filo di apprensione, sappia Giorgia Meloni che tante di noi, cresciute nel centro di Milano e nei collegi svizzeri e non alla Garbatella, avrebbero agito allo stesso modo, e persino con la maggiore sfrontatezza che un’educazione ineccepibile consente).
Comunque, nulla appare più incongruo, ultimamente, dell’esortazione del Padre Provinciale manzoniano al lenire e sopire: è come se si fossero rotti gli argini, già pesantemente scossi dalla pandemia, e ruoli, sentimenti, stili codificati, fossero stati polverizzati. Siamo più maleducati, più riottosi, meno disposti ad accettare verità codificate e ad adattarci a vecchi stampi.
Non a caso, gli osservatori più attenti della moda hanno eletto la sfilata di Balenciaga per l’inverno 2025, che si è appena tenuta a Shanghai, a secondo evento dell’anno dopo la presentazione indimenticabile di gennaio che ha riportato Maison Margiela nella mappa dei giovanissimi, al punto che per il suo autore, John Galliano, ci si attende non solo il perdono da parte del gruppo Lvmh a tredici anni dal licenziamento in tronco per le frasi antisemite pronunciate in stato di alterazione alcolica e psicotropa, ma la sua riassunzione, molto sostenuta peraltro anche da Anna Wintour che all’ultimo Met Gala si è prodigata perché l’ultimo dei grandi geni della moda del Novecento acconsentisse a vestire di (ben) tre abiti Zendaya, star del momento.
Il mondo del lusso quieto, del quiet luxury, continua la sua ricca e placida parabola, ma non è già più l’argomento del giorno. Insieme con la crisi del mercato della moda mondiale, con un Occidente che vive una terza guerra mondiale sottotraccia, senza dirselo e sperando che non ne scaturisca un diverso ordine geo-politico e culturale, la moda di cui si parla è tornata a essere espressione di inquietudine, terreno di sperimentazione per anime tormentate come, appunto, quella di Demna che, pur fra insopportabili provocazioni (la gonna-asciugamano, il bracciale-rotolo di adesivo), questa volta ha lasciato intendere di voler instaurare un dialogo vero, rilevante, non solo con i suoi clienti ma con il sistema della moda. L’ha fatto usando, pur con codici diversi, lo stesso linguaggio satirico amarissimo di George Grosz cento anni fa: le grasse borghesi impellicciate e con il muso di scrofa, i banchieri con il cappello a forma di pitale della sua narrativa pittorica, con Demna Gvasalia sono diventati abiti che, sotto la pura ispirazione Cristobal Balenciaga, modellati sulla lezione del fondatore, mostrano l’irrisione, lo sberleffo, realizzati come sono in sacchetti di plastica del supermercato.
E ancora, ecco la risposta, il retort, all’ossessione degli amministratori delegati e della stessa multinazionale di cui fa parte Balenciaga per gli accessori, nella trasformazione in borse dei capi della quotidianità, dai trench ai piumini, fino alle sacche porta-abiti e alle scatole di scarpe. Da anni non ci capitava di vedere un’affermazione così intelligente, così ribelle, alle povere, labili ossessioni dell’industria della moda e dei suoi stessi clienti. A questo sistema che non sa più quale strada prendere e che oscilla irrisolto fra belle e banali giacche di pelle “che durano una vita”, un’affermazione che farebbe uscire dalla tomba Coco Chanel, e borse trompe l’oeil, una risposta sembra arrivare, come sempre, dal basico, dalla semplicità e dal rigore estremi, dalle forme che più si legano alla storia umana, che il nostro spirito, ancora prima che il nostro occhio, riconosce.
Per questo, quando ci è stato chiesto di tenere a battesimo in Italia il nuovo libro di Cameron Silver, direttore creativo e collezionista extraordinaire di abiti vintage, dedicato ai caftani (“Caftans: from classical to camp”, Vendome Books), che verrà presentato il 13 giugno in Fortezza da Basso a Pitti Uomo, abbiamo subito detto di sì: perché questo indumento che è all’origine della pudicizia umana, e che si ritrova in quasi tutte le culture, compresa quella occidentale, prima che gusto e vanità e voglia di sperimentazione ci facessero adottare progressivamente brache e maniche staccabili e busti e verdugali e panier e sellini e ogni sorta di strumenti di modificazione delle forme naturali del corpo, è ancora il capo più elegante, il più sottilmente sovversivo perché azzera o diminuisce sensibilmente differenze di altezza, di peso, di occasione, di portabilità.
Per una donna, è molto facile diventare volgare o provinciale o entrambe le cose in tailleur pantalone, come si è dimostrato in via definitiva all’ultimo ricevimento al Quirinale per la Festa della Repubblica: in caftano, che questo accada è del tutto impossibile, ancorché si decidesse di indossarne uno bordato di piume come Marisa Berenson negli anni Sessanta.
“E’ l’antenato della t shirt”, mi ha detto al telefono da Los Angeles Silver, definito qualche anno fa da “Time” una delle venticinque personalità più influenti della moda e ha certamente ragione, benché alla forma a T si possa far risalire perfino il modello di abito prediletto da madame de Pompadour, la mantua in cui appare nel celebre ritratto di François Boucher, che di primo acchito tutto sembrerebbe fuorché semplice. Di caftani, aperti solo sul collo o abbottonati davanti o anche da incrociare come yukata giapponesi, Silver possiede una collezione pressoché infinita. Una passione nata dopo un dono prezioso e coltivata negli anni fino a giungere alla convinzione che nessun abito possa essere più insostituibile di questo, che è appunto all’origine di ogni altro.
Che per l’Occidente sia diventato al tempo stesso simbolo di libertà (la propria, di indossarlo nei momenti di relax) e di oppressione (quando imposto) è ulteriore esempio delle contraddizioni in cui ci dibattiamo nel nostro rapporto tormentatissimo con l’abito, e che è poi riflesso del nostro rapporto ancora più complesso con il corpo. Adottare in via definitiva il caftano, in tutte le sue forme e declinazioni, ci sembrerebbe una rinuncia definitiva dell’umanesimo e della centralità del corpo umano come sede e fulcro di bellezza che è alla base della nostra cultura. Ma le sfilate come quella di Balenciaga, con la sua modificazione delle strutture e delle proporzioni di questo stesso corpo, fra spalle sovradimensionate e scarpe dalla zeppa altissima, stanno a dimostrare che questa centralità, come nei secoli del verdugale, non è mai stata né naturale né spontanea, ma una proiezione delle nostre paure e delle nostre incertezze.
Il Foglio della moda