Il foglio moda

Il filo nascosto. Noi, che ci eravamo immaginati multinazionali

Qualche accenno alle vicende del Gft nel memoir molto personale di Chiara Boni, consente di rivangare la trama shakespeariana della nostra Lvmh mancata. Nuovi particolari di una storia vecchia di trent’anni di cui paghiamo ancora il prezzo

Il valore e l'attaccamento dei dipendenti del gruppo Gft a vent'anni dalla sua scomparsa si è avuto lo scorso 23 aprile, quando centonovanta dipendenti si sono ritrovati al Castello di Rivoli per una cena. Gli “ex Rivetti boys” sono tutti, da molti anni, in pensione. ma nulla dei ricordi di quegli anni è andato perduto, “Il nostro core business”, ha raccontato alla “Stampa” la responsabile della comunicazione di allora, Anna martina, poi entrata nel settore pubblico, “era di ingegnerizzare la creatività”. Ma anche di alfabetizzare la moda italiana dell'epoca in senso industriale. Lo scorso giugno, in occasione dell’annuale assemblea di Altagamma, che per festeggiare i settantacinque anni del Senato e del Made in Italy si teneva nella meravigliosa sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, la direttrice generale Stefania Lazzaroni rivolse a noi del “Foglio della Moda” la domanda capitale sulla moda italiana, quella che non smette di agitare le coscienze degli storici economici e sulla quale i politici più accorti sanno di avere qualche colpa e di dover scontare più di una negligenza. La domanda era la seguente: perché un Paese come l’Italia, l’unico che vanti ancora una filiera completa, che abbia storia e tradizioni e mani sapienti e tutte le cose belle e meno belle che sappiamo (ah, il mestiere di artigiano che nessuno vuole più fare, ah se sapessimo rendere il taglio delle tomaie sexy come l’affettamento dei prosciutti nei vari Masterchef), non sia riuscito a dare vita a gruppi delle dimensioni e del peso politico, commerciale e di comunicazione di Lvmh e Kering.

Rispondemmo quello che tutti gli analisti e gli storici sanno, e cioè all’Italia sono mancati non tanto imprenditori in gamba, quanto una Banque Lazard e un Antoine Bernheim in grado di capire che la moda meritava di diventare testa di ariete di una strategia di affermazione della produzione nazionale oltreconfine. Al di là della nota idiosincrasia nazionale per le alleanze, che rende difficile perfino la definizione del calendario delle sfilate, e dell’evidenza che anche in Italia vi sono gruppi di dimensioni ragguardevoli, vedi Giorgio Armani, Prada, Zegna, Tod’s, OtB, Moncler e, in fortissima ascesa, Brunello Cucinelli, che dal 18 dicembre andrà a raggiungere la società di Remo Ruffini all’indice Ftse mib, la haute couture di piazza Affari, grazie a una capitalizzazione che si aggira sui 5 miliardi di euro, all’Italia è mancato un supporto lungimirante, una visione che esulasse dalle manovre dei gruppi e dei gruppuscoli di potere che agivano di concerto negli anni immediatamente successivi a Tangentopoli. La nostra Lvmh si chiamava Gft, il nostro Bernard Arnault avrebbe potuto essere Marco Rivetti, l’uomo a cui non solo Torino ma anche Firenze dovrebbero intitolare una via, perché se Pitti Immagine oggi è quella che è ed è riuscita a resistere alle intemperie che hanno travolto quasi tutte le altre fiere lo deve a lui. Ma sulla propria strada, anzi a sbarrargliela, Rivetti non trovò Bernheim, bensì Enrico Cuccia e Cesare Romiti. Malato terminale, oberato da una montagna di debiti, a salvare Rivetti e Gft era arrivata infatti CvC-Citibank, disposta ad azzerare il debito.

Le banche creditrici sembravano tutte d’accordo fino a quando, a poche ore dalla firma, Bnl inaspettatamente si ritirò, l’accordo venne meno e ventiquattr’ore dopo si fece avanti Gemina, cioè la Fiat allora guidata appunto da Romiti, con il supporto di Mediobanca. I contenuti dell’accordo, penalizzante per Gft visto che gli americani avevano offerto una cifra più alta e soprattutto intendevano rimborsare i crediti vantati dalle banche nei riguardi del gruppo torinese, mentre Gemina si limitava a consolidare l’esposizione debitoria a breve del gruppo in cinque anni, finirono in un documento che l’ex ceo di Gft, Clemente Signoroni, portò all’attenzione dei magistrati di Torino e di Milano che si interessarono al caso e che suonava come un atto d’accusa nei confronti di Romiti padre e di suo figlio Maurizio, all’epoca direttore centrale di Mediobanca. Il seguito è più noto. Gemina trasferì le attività industriali alla HdP della famiglia Romiti. Vennero fatte acquisizioni, lanciati nuovi marchi, fatte molte cose e tutte molto stravaganti e molto costose, come per esempio – un dettaglio, ma significativo - concedere un favoloso appannaggio a Giancarlo Giammetti e Valentino Garavani, signori che di mestiere producevano vestiti, per il loro guardaroba personale.

Sei anni dopo, la società che nei primi Anni Ottanta aveva contribuito al consolidamento di Giorgio Armani venne chiusa, insieme con il suo marchio storico, Facis. Valentino spa entrava contestualmente a far parte del gruppo Marzotto, quindi del fondo Permira, e poi veniva ancora ceduta a Mayhoola e oggi a Kering, mentre il fondatore Valentino Garavani, che pochi giorni fa si è visto dedicare il Teatro Comunale della sua città di nascita, Voghera, si concedeva il lusso di schifare i nuovi padroni e tutta quella finanza che voleva numeri e risultati e non riteneva imprescindibile l’uso dell’aereo privato in quel capolavoro irripetibile sul mondo della moda che è il documentario “The last emperor” di Matt Tyrnauer. Qualche giorno fa, alle vecchie vicende del gruppo Gft ha accennato Chiara Boni nel suo memoir “Io che nasco immaginaria” (Baldini+Castoldi) a cura di Daniela Fedi, insieme con molti altri fatti interessanti sulla moda degli anni Settanta che sarebbe bello approfondire. Di seguito, la stilista fiorentina che oggi, dopo molti anni di lavoro, sta conoscendo un successo internazionale, risponde a qualche curiosità. 


 

Gft: storia di un pasticcio nell’industria della moda italiana a cavallo degli anni della globalizzazione, quando banche d’affari e società di consulenza avevano occhi solo per la Cina. Era lì che si concentravano le opportunità di crescita e di profitto per le aziende europee del settore. Solo che mentre la Francia, pur delocalizzando, è riuscita ugualmente a fare di Lvmh la multinazionale del lusso del vecchio continente, l’Italia ha perso la “sua” holding di partecipazioni che, con marchi come Valentino, Armani e Ungaro, tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta era un passo avanti a Parigi. La vicenda rispunta tra le righe del libro di Chiara Boni, che cedette a Gft il suo brand per poi ricomprarlo quando il gruppo biellese andò a rotoli. Successe dopo la crisi finanziaria del Gruppo finanziario tessile (600 miliardi delle vecchie lire di debiti) che culminò nella battaglia per il suo controllo tra Citibank e Gemina, la società della famiglia Romiti di cui Mediobanca era socio di riferimento.

Gemina ebbe la meglio, nonostante non fosse favorita nella contesa, ma nelle sue mani Gft arrivò al declino, complice la scomparsa prematura di Marco Rivetti, esponente della famiglia fondatrice e imprenditore-manager visionario, “al quale”, dice oggi Boni, in colloquio moda” – “volevo un mondo di bene, come amico, come mentore”. Fu un vestito con la gonna a forma di tulipano, cucito da Chiara nella sua boutique, a farla incontrare con Rivetti, che, restando molto colpito dal modello, le propose di comprare il marchio. Le vicende di Gft, dall’idea di lanciarsi nelle confezioni d’abbigliamento maschile con il marchio Facis, assecondando la richiesta del mercato in quel momento storico, ai problemi finanziari subentrati anche a causa di una gestione poco oculata dei costi – erano anni di sprechi nella moda, in cui non di rado capitava che centinaia di metri di tessuti pregiati venissero buttati dopo le prove di taglio – fanno da sfondo al racconto di Boni, che è soprattutto personale, della sua incessante ricerca creativa e di una vita molto densa di lavoro e di viaggi, ma anche ricca di relazioni e sentimenti.  

E però questo racconto, sebbene mantenga una certa distanza dai fatti che determinarono il tracollo di Gft, un po’ perché la stilista era “la piccolina” in un parterre di brand di fama internazionale e un po’ per il suo profondo e duraturo legame personale con Cesare Romiti, rappresenta oggi una rara testimonianza della parabola sfortunata del gruppo biellese, nato nel 1930 quando la moda non conosceva ancora lo sviluppo produttivo su larga scala. “Gft – spiega - è stata di fatto la prima grande realtà industriale europea del settore, con una crescita strepitosa tra gli anni Sessanta e Settanta che avevano fatto acquisire all’Italia un vantaggio competitivo rispetto agli altri paesi. Poi, però”, osserva critica, “non ha trovato grande supporto nella sua fase più critica, che è stata gestita senza visione strategica”. Fino a quando era rimasto nelle mani della famiglia Rivetti, la visione strategica c’era stata eccome. Lo dimostra la velocità con cui il gruppo seppe adeguarsi alle tendenze degli anni Ottanta lanciandosi nel prêt-à-porter griffato grazie alla collaborazione con i più grandi stilisti di allora.

Una mossa rivoluzionaria perché portò il lusso nell’abito confezionato. I problemi cominciarono all’inizio degli anni Novanta: Rivetti provò a integrarsi con il gruppo Miroglio, ma l’intesa saltò all’ultimo momento, in particolare per le difficoltà a definire i rapporti fra GfT e i grandi stilisti che produceva, legati da rapporti di licenza in qualche caso scaduti, e da un diverso approccio al settore. Fu l’occasione mancata di costituire uno dei maggiori poli europei del tessile-abbigliamento. Intanto, i debiti salivano e quando Rivetti si ammalò venne a mancare la guida carismatica del gruppo, le condizioni finanziarie precipitarono al punto di favorire una corsa al suo accaparramento. Gli americani fecero di tutto per rilevare Gft e a un certo punto sembrò quasi che ce l’avessero fatta. Ma a sorpresa, e grazie all’intermediazione di Mediobanca, la proprietà fu ceduta prima a Gemina e successivamente alla controllata Hdp dei figli di Cesare, Piergiorgio e Maurizio.

Ora, rilevare un gruppo in crisi vuol dire farsi carico anche dei suoi debiti con le banche, condurre complesse rinegoziazioni e dare il via a pesanti tagli di costi. Ma non si può non essere d’accordo con Chiara Boni quando rimpiange la mancanza di visione strategica in un piano di ristrutturazione che, se fosse stato messo in atto con più lungimiranza, avrebbe fatto un favore all’intero sistema moda “che in Italia ancora oggi risente della scarsa capacità di aggregazione che gli impedisce di fare un salto dimensionale”. È vero anche che la crisi di Gft coincise con gli anni in cui i produttori del settore delocalizzavano in paesi a basso costo di manodopera e in questo modo riuscivano ad ampliare i margini di profitto. È possibile che sia mancato il coraggio di fare scelte di espansione sui mercati internazionali? “Può darsi, ma – chiosa Chiara Boni - Gft è stato anche tra i primi in Europa ad avviare uno stabilimento in Cina, guardare avanti era una peculiarità di Rivetti, che dopo di lui non ho più visto”.