Il surrealismo molto femminile di Joana Vasconcelos. Molta meraviglia fra gli ospiti della sfilata Dior autunno inverno 2023-2024 a Parigi

il foglio della moda

Instagram show. Le scenografie, il set, gli ospiti contano ormai quanto la collezione

Fabiana Giacomotti

Un giro di centinaia di milioni per venti minuti di sfilata in cui tutto deve “essere postabile e memorabile”, come spiega Etienne Russo, il più importante creatore mondiale di eventi, che da poco ha scelto di vivere a Milano. “Un brand deve stamparsi nella testa di chi lo guarda”. E al contempo evitare accuse di footprint in-sostenibili. Spendendo quasi altrettanto per tentare di neutralizzare l’impatto ambientale mostruoso

È un mercoledì mattina di metà febbraio, ed Etienne Russo è appena rientrato da Londra, da dove ha diretto le operazioni – per il tipo di coordinamento richiesto, il qualificativo “paramilitari” è quello adatto – dell’ultimo evento di Moncler Genius, progetto di collaborazione fra creativi diversi che in questi ultimi tempi si è fatto interdisciplinare, aggiungendo alla moda esplorazioni nel design, nell’arte, nella scienza: diecimila persone presenti, musica live e in scena le auto del futuro, oltre a installazioni, robot, peep show (sottotesto anche-l’amore-è-una-forma-d'arte), e un laboratorio di ascolto tramite sensori delle vibrazioni delle piante, un linguaggio del tutto inudibile dall’orecchio umano, che è stato forse il più frequentato, comunque il più interessante, insieme con lo spettacolo live di interazione musicale fra le voci dei partecipanti guidato da Mike Dean, il leggendario producer di Jay Z, per la linea Moncler x Roc Nation.

 

“Mi ha colpito scoprire come le piante reagiscano a musica di natura diversa, crescendo e sviluppandosi per esempio con la musica classica e regredendo invece fino alla mera sopravvivenza se esposte a musica hard rock”, racconta Russo, nella panoplia da religioso shintoista - palandrana nera, scarpe eccentriche che spesso rivisita lui stesso – che lo rende distinguibile anche fra gli eccentrici veri della moda, sotto lo sguardo fisso e vacuo di un grande struzzo che ci osserva da una mensola della saletta riunioni. “Tassidermia antiquariale, ma ho pensato a lungo se esporlo e meno”, osserva.

 

La sensibilità del pubblico è cambiata, il pianeta ha parecchio caldo e molta sete, l’inquinamento prodotto dalla moda a partire dagli eventi che la celebrano abbastanza rilevante perché lungo tutto il corso dell’intervista, questo ex modello belga diventato mago del racconto visivo puntualizzi come la sua società, Villa Eugénie, si stia impegnando “da anni” per ridurre al minimo l’impatto prodotto da questi show multimilionari, riciclando, riutilizzando, producendo con materiali sostenibili, stringendo accordi con le società che lo fanno, come l’ormai celebre Réserve des Arts, e oggi creandone una sua, che punta “alla neutralità” ma, sapendo bene di non poterlo fare, si impegna almeno nella “restituzione”, piantando alberi, creando opportunità di impiego, coinvolgendo artigiani locali nella produzione delle sfilate, vedi il caso della collezione Dior Homme inverno 2023 presentata lo scorso dicembre al Cairo, a cui tanti giornalisti italiani scelsero di non partecipare per il caso Regeni irrisolto, ma che comunque coinvolse “ventitre ditte egiziane”, recuperando anche il legno usato e riutilizzando i tessuti con una ong. “Lo spirito colonialista di un tempo non sarebbe più tollerabile: oggi si creano collaborazioni con società locali, si aprono addirittura accademie, come ha fatto Chanel a Dakar. Devi portare nel paese che ti ospita più di quanto prendi”.

 

L’uomo che oggi parla di pozzi in Africa, del sostegno alle comunità svantaggiate, dei regali natalizi faraonici ai clienti sostituiti da donazioni per le cure mediche ai bambini in Africa è lo stesso che nemmeno dieci anni fa, era il 2017, piazzò una versione molto credibile di astronave al centro del Grand Palais per una delle ultime sfilate Chanel firmate da Karl Lagerfeld. Ma se la coscienza della moda, o almeno la sua rappresentazione, sono cambiate, è molto probabile che tentare di neutralizzare l’impatto ambientale mostruoso di queste kermesse che durano venti minuti al massimo e coinvolgono fino a mille persone per il solo allestimento e la diffusione costi quanto le stesse. L’aspetto incredibile della questione è come gli stessi ragazzini che blaterano di sostenibilità e sfilano in piazza contro i governi che “non fanno abbastanza”, tentino poi con ogni mezzo di accostarsi a queste produzioni faraoniche per portarsi a casa il clic dell’attore del momento e ripostarlo contenti e dimentichi, in un processo dissociativo e cognitivo totale fra realtà pubblica e responsabilità personali. Naturalmente, in questa ricerca ossessiva dell’entertainment continuo non sono esenti da colpe nemmeno gli adulti, nemmeno io che sono ben contenta di aver visto in queste settimane quello che è forse il mio tremillesimo show e che ricordo con entusiasmo la sfilata di Fendi sulla Grande Muraglia Cinese, un freddo e un vento da morire, ma anche la serata caldissima in cui Louis Vuitton allestì il bacino di carenaggio del porto di Auckland come una foresta tropicale in occasione della Coppa America. Etienne Russo ha alle spalle circa milleduecento sfilate, dalla prima organizzata nel 1991 a Parigi per l’amico e sodale Dries Van Noten quando, “preso dal panico”, corse a chiudersi in bagno e ci volle del bello e del buono per farlo uscire, fino a oggi che gestisce un team di oltre centotrenta persone fisse, “di cui l’ottantacinque per cento donne”, qualche migliaio di “collaboratori indipendenti” sparsi nel mondo e può permettersi di selezionare i clienti per l’interesse che gli suscitano le loro idee.

 

Non tutti si chiamano Chanel, Dior, Hermès, Miu Miu o Moncler. Ha sostenuto per esempio a proprie spese la sfilata di Marie Adam Leenaerdt, una sua ex studentessa che, dopo uno stage da Balenciaga, ha rifiutato un contratto di assunzione per lanciare la sua linea (Russo insegna all’IFM-Institut Français de la Mode a Parigi, sta scegliendo dove farlo a Milano, speriamo in un’università vera) e dice che la creatività di base deve arrivare dal brand stesso: “Se sento che non ho qualcosa da dire o da aggiungere, un progetto da sviluppare insieme, preferisco declinare, in tutta umiltà. Il cliente top non mi interessa in quanto tale, come non mi interessava quando iniziai a lavorare agli spettacoli del Mirano Continental a Bruxelles, negli Anni Ottanta, che aspirava a essere Le Palace belga”. Di quegli anni in cui montava spettacoli sensazionali, coinvolgendo transgender e ordinando costumi favolosi a Jean Paul Gaultier, ha conservato lo “spirito curioso: mi interessa tutto, assorbo qualunque stimolo, anche il più piccolo”, e la passione per il gruppo. “vorrei che anche Villa Eugénie diventasse un luogo di scambio culturale, una piattaforma creativa”.

 

Tre figlie di età variabile dai dodici ai ventiquattro anni, da qualche mese Russo ha preso casa, e aperto ufficio, nel cuore della Milano rinascimentale, a Palazzo Durini di Monza. Facciata inscritta delle lapidi di chi vi ha abitato, creato, scolpito (Antonio Canova), generato padri della patria, ha un colonnato comme il faut, ma anche e purtroppo scale rilastricate di marmi Settanta sulle quali – l’edificio, di origine quattrocentesca, è vincolato - non ha evidentemente potuto metter mano e che all’epoca dell’ultima ristrutturazione doveva aver trovato non pochi addetti compiacenti in Comune. Il restauro dell’appartamento ha preso undici mesi. L’interno, che in effetti ricordavo distrutto, i lambris pendenti dal soffitto, il pavimento a crateri, è arredato con il gusto di chi ha gusto oggi, cioè muri e affreschi semplicemente consolidati, effetto délabré patinato, pavimenti rifatti secondo disegno originale, arredi di Jean Prouvé, complementi da wunderkammer, come per esempio la distesa di funghi didattici del primo Novecento sul lungo tavolo nero all’ingresso.

 

Quando si arriva alla saletta riunioni attigua al suo ufficio, col grande struzzo a cui si accennava prima, si prova la stessa gratitudine estetica che doveva cogliere chi entrava per la prima volta nell’atelier di Charles Frederick Worth e, come in una processione religiosa, veniva guidato fra scale tappezzate di velluto e sale di collezioni di ventagli e tabacchiere. Vorrei avere un progetto da affidargli come le signore che si rivolgevano a Worth aspettavano un cenno del maestro per implorare una mise da ballo simile a quella di Elisabeth de Greffulhe. “Internet, ma soprattutto le app come Instagram hanno cambiato totalmente il nostro modo di lavorare. Un tempo mi bastava guardare una scenografia, una luce, una disposizione con l’occhio, per essere sicuro del risultato. Adesso guardo i miei allestimenti attraverso lo smartphone perché deve essere Instagram friendly.

 

Il fatto” puntualizza, “è che la gente non riesce a trattenere tutte le informazioni che riceve quotidianamente e dalle quali viene sollecitata di continuo. Per questo, dobbiamo andare al di là della bellezza pura, di un’estetica solo armoniosa, per creare immagini forti che rimangano impresse nella memoria di uno smartphone e del suo proprietario. Con lo show, dobbiamo inscrivere il brand nella sua memoria”.

 

La smania per le sfilate digitali di cui scrivemmo tutti durante il periodo pandemico è finita nell’istante stesso in cui si sono riaperti gli aeroporti. “Siamo animali sociali, il contatto con gli altri, la condivisione del momento, ci è indispensabile”. Dunque no, la sfilata non tramonterà mai. “È un momento che raccoglie l’interesse di un gran numero di persone, in cui ci si veste bene, si è felici di farsi vedere e di guardare. Come potremmo rinunciare a tutto questo per vedere il mondo dietro lo schermo di un computer?”. Eppure lo facciamo, in media per venti minuti al giorno, osservando ossessivamente il nostro smartphone. “Quello di oggi è un tempo diverso, sfaccettato, multiforme, una convivenza di culture, modi diversi, al tempo stesso collettivi e personali, di vivere”. Racconta di aver trovato tutta questa energia, questo spirito eclettico a Milano, e di trovarcisi benissimo. I nonni erano siciliani, parla un discreto italiano che “vuole assolutamente migliorare”.

 

Lo stupisce una sola cosa, e cioè la mediocre qualità dei fioristi italiani. Impossibile trovare qualcosa meno di standard, osserva, qualcosa di simile alle composizioni spettacolari di Debeaulieu. Quando gli spiego che il rispetto della natura non è mai stato il nostro forte e che il gusto per le composizioni è roba da ricchi, richiede generazioni di affinamento e di cultura, e che noi siamo benestanti da settant’anni, e neanche tutti, non ci crede. O forse sì. Il display di Villa Eugénie, con quel gusto perfetto, ne è la prova più evidente.

 

 

 

 

Di più su questi argomenti: