Fashion Week 2023

Cerebrale, borghese, lineare: la Milano migliore è quella di Prada

Finita l'era del massimalismo, nelle prime giornate di passerelle milanesi tornano il rigore e l'essenzialità, tratti cittadini da sempre. Per questo la collezione di Prada acquisisce un senso reale e nuovo. Interessante il ritorno di Mila Schon con Audibet, molta energia da Diesel

Fabiana Giacomotti

“Si pensa che nella moda solo il glamour sia importante, ma io odio questa concezione, l’ho sempre combattuta”, scrive Miuccia Prada nelle note della migliore sfilata Prada vista negli ultimi anni e certamente della più efficace sfilata vista finora sulle passerelle milanesi per il prossimo inverno. Per questo, disegnando la nuova collezione con Raf Simons, in uno scambio e un confronto virtuoso ormai quasi completamente raggiunto, i due designer hanno scelto di ispirarsi “alle uniformi che rappresentano la cura, come quelle delle infermiere”, perché, spiegano, “occuparsi degli altri è una cosa bellissima” ed era loro intenzione “trasformare queste uniformi da simboli di cura a simboli di bellezza”. Pochi, senza queste indicazioni, coglierebbero il senso profondo del progetto. Tutti, però, di questa collezione di golfini semplici che accompagnano gonne candide, dritte o a ruota, cosparse e illeggiadrite da fiori applicati che si muovono e ondeggiano a ogni passo, di questa teoria di abiti candidi, dritti e lunghi, che quasi si srotolano a terra (strascico? Bende?) o, all’opposto, di queste minigonne corte affiancate alle giacche-caban, di pelle colorata, hanno colto l’idea di una donna borghese sofisticata e consapevole. È questa la cifra di queste prime giornate di sfilate milanesi, ed è questo il segno della Milano migliore.

 

È ormai evidente quanto la pandemia e la crisi internazionale attorno alla guerra in Ucraina abbiano spazzato via ovunque, ma a Milano in maniera ancora più evidente, l’estetica onirica, multiforme e per molti versi destabilizzante degli anni precedenti che, crediamo di essere facili profeti, passeranno alla storia come “l’epoca Alessandro Michele”. Insieme con un revival generale degli anni Novanta, cadenzato in questi giorni dalla colonna sonora della serie “Twin Peaks” di David Lynch (musica di Angelo Badalamenti, voce di Julee Cruise, anno 1990 appunto) che ha accompagnato l’intera, essenzialissima e un po’ ripetitiva sfilata di Fendi, da cui sono praticamente sparite le pellicce tranne un breitschwanz color miele ma continuano a riapparire le gonne a pieghe sopra i pantaloni e i serafini, si respira ovunque una gran voglia di pulizia, di rigore, di freschezza oppure di quella apparente opposizione estetica e cromatica al gusto borghese rappresentata dal denim strappato, patchwork, decostruito fino alle fibre e poi ricostituito in pellicciotti, imbottitura a vista, ricami macramé, che è invece la cifra del filone capitanato da Diesel, davvero rinato sotto la direzione creativa di Glenn Martens. Molto denim anche da John Richmond, che sta nuovamente trovando una propria centratura creativa attorno a un’idea glam rock facile e accattivante e da Cavalli, di cui si sono rivisti, dopo quasi quarant’anni, debitamente aggiornati, i jeans patchwork e l’estetica sfacciatamente sexy che ne caratterizzarono i Settanta e che le ragazze di oggi ignorano del tutto, ritenendola nuovissima e dunque attraente. Non tutti, come ovvio, cercano l’eleganza sensuale e cerebrale della Monica Vitti degli esordi, che è stato lo spirito guida della bella collezione di Alessandro Dell’Acqua per il suo marchio, N21, costruita di certezze come le sue ormai classiche gonne a matita, sapientemente modellate, e di belle intuizioni nei trompe l’oeil che modellano la figura e nei volumi dei cappotti dalle spalle ampie e scese ma sempre donanti.

 

È comunque evidente che il massimalismo sia tramontato, insieme con una carta pesantezza dei tessuti. Anche da Emporio Armani, i completi pantalone di velluto, spesso colorati di verde cupo, hanno la leggerezza della seta, i top da sera si annodano attorno al seno come fasce, lasciando lo sterno scoperto, e i pantaloncini da sera si fanno cortissimi per enfatizzare le gambe avvolte nei cuissard di paillettes per i quali prevediamo un sold out immediato. Linearità, volumi ampi ma disincarnati, leggeri, anche da Calcaterra, coperte attorno alle spalle da Etro. Non è per caso che molti si siano affollati nell’ antichissima chiesa di San Celso che dà origine all’attigua chiesa di santa Maria dei Miracoli, incredibilmente messa a disposizione, per la presentazione del nuovo corso di Mila Schon con la newco Cofedo, guidata da Barbara Gabarrini Confalonieri, da Guido Formilli Fendi e dal gruppo finanziario giapponese Itochu. Non è certo che tutti si siano soffermati sulla simbologia dei capitelli romanici delle arcate, che raccontano in vario grado la temperanza, soprattutto sessuale: di quel genere di eleganza trattenuta, cerebrale, artistica, che caratterizzò l’ascesa di Mila Schon fra gli Anni Sessanta e i Settanta e che ora è passata nelle mani di Marc Audibet, già in Hermès, Prada e Ferragamo. Sotto l’allegoria della lepre azzannata dalla volpe, simbolo della lussuria combattuta e vinta dallo spirito, Audibet ricorda come “Mila creasse modelli che avevano la semplicità dell’evidenza, tagli rigorosi e generosi che offrivano benessere anche allo spirito” e come “l’influenza dell’arte moderna” l’avesse “portata a pensare capi moderni, efficaci, nel segno di una bellezza intelligente”. Audibet ha pensato a una nuova declinazione di questa formula difficilissima, lavorando sulle fibre stretch in versione mono e double face che ha inventato in questi anni esattamente come il double di cashmere era stato concepito da Mila Schon. Una ricerca che si nutre di “riduzionismo” e che è, davvero, il segno di questi tempi perfino nel lessico popolare. L’ormai ubiqua battuta sull’”anche meno” sta trovando un senso nel vestire. 

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