Foto Epa, via Ansa

Il Foglio della moda

Quell'irritante anatomia che intralcia il gender fluid

Giorgia Motta

Tutto bene quando si tratta di felpone e impermiabili. Ma già sui jeans si configura il problema del cavallo. 
Riflessioni di stilisti e industriali su qualche verità, molti fumosi idealismi, e qualche sospetto di dirigismo collettivo

Nel grande dibattito in corso sulla moda gender fluid, una cosa per la quale si ritrovano gruppi di studenti in un bellissimo palazzo di Firenze a smontare e rimontare vecchi abiti da “maschio” e “femmina” al fine di annullarne le differenze, nessuno si domanda mai la cosa più ovvia, e cioè se quello che i boomer definivano unisex e i ventenni di oggi fluido sia un ideale a cui tendere la pargoletta mano (il gender fluid è in genere una cosa da adolescenti con budget genitoriale e partecipe, possibilmente un po’ terrorizzato, poi ci si deve cercare un lavoro) o un’evoluzione realmente possibile dell’abito oltre i toga party di “Animal House” e di una storica festa dei primi Anni Quaranta a Brioni di cui scriveva Colette Rosselli, tutti avvolti nelle lenzuola dell’albergo prossimo all’ occupazione. Cioè, è concepibile un vestito che azzeri le differenze anatomiche (struttura ossea, altezza media, girovita, fianchi, seno), che anzi non ne tenga proprio conto, e che nonostante questo una schiera ambosessi o appunto gender fluid vi si trovi attraente indossandolo?

 

Giorgia Cantarini, giornalista e talent scout delle firme giovanissime o emergenti che impreziosiscono Pitti Uomo, riconosce che eliminare certe differenze sia del tutto impossibile, che fra la fluidità di oggi e l’unisex dei nostri genitori o dei suoi nonni ci sia differenza zero e che alla fine il tema si riduca a una questione di scelte personali e di styling, ovvero giacca oversize maschile sì, magari stivaloni western identici no, che è poi quanto afferma anche Gianni Giannini, presidente di Doucal’s, che differenzia la pianta e la costruzione delle sue celebri stringate perché, inutile girarci attorno, un piede taglia 40 maschile o femminile non è lo stesso piede.

 

Fra gli idealisti dell’apparentamento estetico c’è invece Dhruv Kapoor, peraltro stilista bravissimo quando si limita a fare vestiti, e ci ha risposto che “il sistema contemporaneo accoglie l’individualità scevra da costrizioni di genere o sociali”, dimenticandosi però di spiegare come, anatomie a parte, il “sistema” a cui fa riferimento valga solo per l’Occidente che si bea di queste costruzioni lessicali, visto che nel paese dove è nato, l’India, le costrizioni di genere e sociali sono purtroppo alla base della società stessa, e della scarsissima mobilità sociale. Per l’industria della moda la fluidità è, almeno in teoria, un risparmio straordinario nei sistemi di produzione.

 

Lo riconoscono tutti, in testa Mena Marano di Arav. Ma sia lei sia chiunque altro imprenditore sa benissimo che, gusti del grande pubblico a parte e che per la stragrande maggioranza cercano di valorizzare attraverso l’abito la propria figura e il risultato di ore di palestra e di corse mattutine, insomma tendenzialmente strizzandosi dentro l’abito, realizzare uno sviluppo taglie attorno a una sola struttura corporea è, di fatto, impossibile, a meno non si parli di caftani (e anche qui, nelle donne c’è sempre un punto seno di cui tenere conto) o di felpe. Daniela Poletto, fashion coordinator di J.B4,  racconta di “aver potuto lavorare sulle limitazioni anatomiche fino al prodotto per i diciotto – ventenni”. Oltre quella età “in automatico la differenza si ripropone”, anche per le “diverse necessità di uso quotidiano”. Monica Mai di gruppo Rinascimento evidenzia infatti come l’adozione di codici vestimentari pensati per fisici e identità diverse oltre una certa età sia tuttora un patrimonio e una scelta più femminile (l’oversize, appunto) che maschile. Arrivato il momento di dismettere la felpona del liceo, si deve scendere a patti con l’ingombrante realtà del proprio fisico, oppure prendere una strada personale, di formazione e professionale che permetta di evitare di farlo. L’indecisione è patrimonio dell’adolescenza o delle grandi star che però, in genere e come faceva David Bowie, giocano di cosplay e poi hanno case gestite come Buckingham Palace, turpiloquio vietato, maggiordomo sollecito al risveglio.

 

Nell’attuale ideale estetico fluido, guidato dai grandi marchi della moda, c’è anche una seconda chiave di lettura, più preoccupante, legata all’economia di mercato e ai suoi obiettivi di massificazione del prodotto nell’ambito di un’aura pseudo-culturale che, azzerando qualunque tradizione, aprirebbe al singolo una vastissima possibilità di scekta quando è vero il contrario, e cioè che questa scelta viene seguita, dettata, guidata da una serie di suggestioni predefinite e soprattutto semplici, di facile adesione, massificate e solo apparentemente diversificate dal logo. Se fosse stato ancora vivo, probabilmente se ne sarebbe occupato Christopher Lasch. È morto nel 1994, in piena crisi post guerra del Golfo. Però la casa editrice elèuthera ha appena ristampato il suo saggio “Contro la cultura di massa”, da cui si può trarre un ragionamento perfettamente coerente, anzi anticipatorio, di quanto sta accadendo adesso: “nella nostra cultura, il processo di individuazione e di inclusione non mira a integrare il singolo in una comunità di eguali, ma mira a integrarlo nel mercato dei beni di consumo. La libertà equivale in pratica alla libertà di scegliere fra la marca X e la marca Y. La cosa migliore che si può fare con un materiale del genere è costruirsi non una vita ma uno stile di vita”. È stato scritto nel 1981.

Adolescenze fluide, un'immagine della nuova collezione di Dhruv Kapoor (photo courtesy)

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