Pierluigi Cerri nel 2017 (foto LaPresse) 

(1939-2022)

Da Piero Manzoni alla mitica striscia Prada. Ricordo del grande architetto Pierluigi Cerri

Manuel Orazi

Era appassionato soprattutto alle piccole architetture effimere da esposizione senza distinguere fra musei di mezzo mondo, fiere campionarie come il Salone del Mobile e persino tv

Schivo fino al punto di dubitare che sia mai esistito, Pierluigi Cerri è stato un grande italiano e come sempre, per capirlo, occorre una parola francese: nonchalance. Non a caso il suo punto di riferimento è sempre stato Le Corbusier, di cui tradusse Verso una architettura insieme al suo compagno di studi Pierluigi Nicolin per Longanesi nel 1973.

 

L’altro riferimento era il Werkbund, la grande alleanza teutonica tra mondo dell’impresa e mondo dell’arte officiato da Peter Behrens, dal cucchiaio alla città, l’architetto e designer più amato da Vittorio Gregotti. Difatti, appena Cerri e Nicolin si laurearono e aprirono insieme un piccolo studio, furono inglobati immediatamente nella Gregotti Associati, corazzata della progettazione italiana fra gli anni Settanta e Novanta, vincitrice di molti progetti internazionali di rigenerazione urbana (Università della Calabria, Centro culturale di Bélem a Lisbona, Area Bicocca a Milano). L’architettura del resto era nel destino di Cerri, nato nell’Isola di San Giulio sul lago d’Orta, in provincia di Novara. Nello stesso comune hanno avuto i primi ricordi anche Gregotti, Leonardo Benevolo e Italo Rota, una fucina dunque per la disciplina.

 

A Milano negli anni Cinquanta Cerri frequenta un paio di artisti scapestrati, Piero Manzoni ed Enrico Castellani, negli anni d’oro del Bar Jamaica di cui però non ha mai alimentato il mito, definendolo in una memorabile intervista con Antonio Gnoli, il ritrovo di un “esistenzialismo in ciabatte”. Una foto degli anni universitari lo ritrae sornione con sigaretta e bocchino accanto a uno stralunato Renzo Piano glabro, poco più che ventenni; più tardi fu assistente di Umberto Eco al corso di semiotica dell’architettura.

 

Molte anche le leggende, alimentate dal basso profilo, come l’analogia biografica con Yves Montand: come lui avendo mamma parrucchiera, imparò a conoscere le donne fin da bambino e quindi ad amarle. Soprattutto però c’è stato il lavoro, dogma milanese: sobrio, funzionale, rapido. Col passare degli anni i progetti grafici per case editrici di ogni dove aumentavano (fra le italiane Saggiatore, Bompiani, Electa, Nottetempo, da ultimo La Nave di Teseo), mentre la scala dei suoi progetti diminuiva. Gregotti ne utilizzò al meglio le competenze per l’immagine coordinata della Biennale di Venezia del 1976 e per le sue riviste, Casabella e Rassegna – Gregotti Associati iniziò a declinare quando nel 1998 Cerri se ne andò fondandone uno proprio con Alessandro Colombo nell’elegantissima via Saffi, il maestro non lo perdonerà mai. Cerri però era appassionato soprattutto alle piccole architetture effimere da esposizione senza distinguere fra musei di mezzo mondo (Palazzo Grassi, Triennale), fiere campionarie come il Salone del Mobile e persino tv (“Quelli che il calcio” e “Che tempo che fa”). Tra i fotografi che chiamò giovanissimi Luigi Ghirri e Gabriele Basilico a riprodurre le sue installazioni per Unifor, Poltrona Frau, Fontana Arte, Arflex, Molteni, Fiat, Merloni.

 

Solo due settimane or sono ha chiuso la sua mostra “Allestimenti. Idee, forme, intenzioni” alla sede Bovisa del Politecnico dove nel 2000 era tornato a dirigere il Laboratorio di Architettura degli Interni. Insofferente al postmoderno, che liquidava come una pulsione “dal rizoma al perizoma”, era molto a suo agio invece con i progetti legati all’acqua come gli arredi per grandi navi da crociera, yacht di lusso oltre alla celebre striscia ideata come brand per Luna Rossa, traslata poi a tutti gli altri prodotti Prada. Un’architettura non effimera rimane: l’ex acciaieria Riva Calzoni trasformata in spazio espositivo, sede della fondazione Arnaldo Pomodoro. In ottantatré anni ha vinto tre Compassi d’oro.

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