Il regno dei sogni spezzati

Fabiana Giacomotti

Con la vendita probabilissima di Tom Ford si chiude per sempre l'epoca della grandeur della moda. E dei tre geni - Galliano, McQueen e Jacobs - che fecero di Pinault e Arnault gli uomini più potenti del sistema mondiale. Un nuovo docufilm ne racconta l'ascesa e la rovina

Il punto non è se sarà Kering o Estée Lauder ad acquisire il brand Tom Ford, benché nel primo caso si tratterebbe di un interessante sequel, visto che nel 2003 lo stilista texano, con l’avvocato Domenico De Sole, vendette le proprie quote in Gucci a François Pinault (allora il gruppo era denominato PPR-Pinault Printemps Redoute e lo dirigeva solo il fondatore; il figlio, François Henri, sarebbe subentrato nella carica di amministratore delegato poco dopo). ll brand Tom Ford, insieme con molte altre interessanti attività fra cui quelle di regista e produttore da Oscar, è nato grazie ai fondi ragguardevoli della famiglia Pinault che ora, probabilmente, farà di Ford un uomo ricco per la seconda volta (lasciando Gucci, lo stilista esercitò a più riprese le proprie stock option; il mercato ne ricorda due, rispettivamente da 23 e 38 milioni di dollari: stavolta l’incasso dovrebbe essere di molto superiore, visto che l’azienda è stata valutata 3 miliardi).

 

Il punto non è la cifra economica, ma quella culturale e sentimentale. Con l’uscita di scena di Tom Ford si chiude per sempre l’epoca d’oro della moda e di quella grandeur irripetibile in questi tempi certamente più colti, incomparabilmente (se non altro a parole) più sostenibili, ma non altrettanto divertenti. Dei primi Duemila, conservo il ricordo precisissimo di Tom Ford sulla balconata di un hotel in Engadina che in una bella mattinata di sole, doveva essere febbraio, si leva il maglione e rimane in t shirt e bicipiti palestrati mentre i presenti, di ogni genere, trattengono a fatica un gasp eccitato. Nessuno, in quegli anni, poteva rivaleggiare con il bellissimo direttore creativo di Gucci che faceva rasare il pube delle modelle con la G del marchio (provateci adesso) e decorava tutti gli ambienti di nero e rischiarandoli con centinaia di calle e rose bianche. Nessuno poteva contendere il primato della genialità a John Galliano, l’inarrivabile artefice del rilancio di Dior, né quello dell’eclettismo a Marc Jacobs, che allora firmava la creatività di Louis Vuitton ed era sempre sull’orlo di una crisi di qualcosa. E nessuno poteva far altro che assistere, rapito e sgomento, alla maestosa elaborazione degli incubi di Lee Alexander McQueen: la fredda mattinata di febbraio 2010 in cui lo trovarono impiccato nel bagno di casa, a Londra, a pochi giorni dalla scomparsa di sua madre e a meno di un anno dal suicidio della sua amica e musa, Isabella Blow, fu la prima di questa lunga evoluzione della moda da espressione di intelligente stravaganza a prodotto mass market abilmente ammantato di grazia e coolness.

 

Lo sviluppo del digitale, l’irruzione in massa sulla scena degli influencer con i loro piccoli post, le loro incertezze grammaticali e i loro viaggetti prezzolati, ventiquattr’ore a Parigi, una “story” a 3 o 13mila euro a seconda dei follower e via andare, ha solo mascherato lo sviluppo di questa fabbrica dei sogni in un sistema in gran parte tuttora manuale, ma dai ritmi forsennati di un’industria bellica. Il crollo di Lehman Brothers cambiò la moda per sempre, un po’ come il sonoro col muto nella famosa battuta di Gloria Swanson in Viale del tramonto: “Io sono ancora grande, è il cinema che è diventato piccolo”. Un anno dopo la scomparsa tragica di McQueen, toccò a Galliano: la sua parabola nel gruppo Lvmh terminò nel più volgare dei modi, bofonchiando insulti anti-semiti a una coppia di turisti al bar Perle del Marais, strafatto, ubriaco di stanchezza e di pressione più che di alcol.

 

Adesso, dopo un lungo rehab, il John Galliano che usciva a fine sfilata vestito da Napoleone con la feluca e in backstage, madido di sudore e su di giri, ti sussurrava “j’adore” fra sberleffi e mossette, è il gentile signore magro e un po’ defilato che produce una moda sempre incantevole e di buon successo per Margiela, lo storico brand del minimalismo – una nemesi - comprato da Renzo Rosso nel 2002 e sempre rimasto in perdita fino all’arrivo. La morfologia di Marc Jacobs assomiglia invece a quella di un fiume carsico. Gli è rimasto il brand eponimo, largamente sostenuto da piccoli accessori e profumi e lo scorso settembre da una piccola “collab”, come si dice nel gergo del sistema, siglata in occasione del venticinquennale della Baguette di Fendi su richiesta di Kim Jones, direttore creativo di Dior Homme e Fendi donna, da qualche anno il nome più apprezzato dai top manager del gruppo Lvmh accanto a quello di Maria Grazia Chiuri. Lavorarono insieme su Vuitton una decina di anni fa, Kim Jones è evidentemente un ragazzo generoso e ha teso la mano al sodale di un tempo. Dice invece un’amica di Santa Fe incontrata qualche mese fa in occasione delle sfilate della haute couture che Tom Ford non si sia mai ripreso dalla morte di Richard Buckley, trentacinque anni di vita insieme, coniugati, un figlio quasi adolescente (“andai a una sfilata, e questo ragazzo dai capelli d'argento iniziò a fissarmi con i suoi penetranti occhi blu. Dopo quattro settimane avevo già le chiavi del suo appartamento”, aveva raccontato a Vanity Fair Usa nel 2012): dopo la scomparsa di Richard, nel settembre del 2021, Tom Ford ha lasciato progressivamente le cariche alla presidenza della CFDA, la Camera della Moda statunitense, diradato le uscite, azzerato le interviste.

 

Che Estée Lauder, la prima azienda a credere in Tom Ford post-Gucci, l’artefice della sua linea di cosmesi e trucco e dei suoi profumi, voglia rilevare il marchio, è quasi scontato. Che intenda farlo Kering, desiderosa di rafforzare la propria presenza negli Stati Uniti con un marchio made in Usa dopo l’acquisizione di Tiffany da parte di Lvmh altrettanto plausibile, benché da più parti si vociferi dell’intenzione della famiglia Pinault di rafforzare la propria presenza nel lusso rilevando un brand provvisto di un atelier di haute couture (al momento, i volenterosi tentativi di Demna di rivitalizzare la sartoria Balenciaga non hanno convinto. Per educazione, natura e cultura, il quarantenne georgiano parla la lingua dello streetwear).

   

Nel momento in cui Ford si ritirerà a vita privata, i “ragazzi che fecero l’impresa” potranno dirsi ufficialmente finiti, insieme con la grandeur di quegli anni. Del tramonto di quest’epoca di genio eccessivo e dei due tycoon che, più di ogni altro, lo valorizzarono e lo sfruttarono fino all’ultimo - Pinault e, ça va sans dire, Bernard Arnault - parla anche la nuova docu-serie, prodotta da Fremantle e dalla società di produzione britannica Misfits, “Kingdom of dreams”, che ha debuttato con ottimi risultati in Uk poche ore fa (fate un buon prodotto televisivo sulla moda e vedrete se non avrà successo. Ha funzionato perfino quel grottesco serial “Made in Italy” con Margherita Buy in parrucca a ricci). Lo producono Ian Bonhote e Peter Ettedgui, già nominati ai Bafta per il docufilm su McQueen, che evidentemente li ha ingolositi e convinti a proseguire sulla falsariga, stavolta dettata da un bel libro-inchiesta pubblicato per Allen Lane da Dana Thomas del 2015: “Gods and kings. The rise and fall of Alexander McQueen and John Galliano”. Dopo che Sky ha acquisito i diritti della serie, il servizio di streaming HBO Max ha seguito l'esempio, assicurandosi i diritti per diversi paesi. Il trailer stratifica con sapienza musica da thriller, colori saturi, una serie di richiami sulla falsariga di “Trono di spade”, e dopotutto non senza ragione: come definire altrimenti la rivalità fra i due tycoon, nata attorno alla conquista di Gucci (quasi tre anni di battaglia che terminarono, ouch, il 10 settembre del 2001 alle 3 del mattino, il Wall Street Journal fece in tempo a stampare la notizia prima dell’attacco alle Torri Gemelle che danneggiò anche i suoi uffici Downtown) ed esacerbata da mille altre piccole e grandi occasioni di business. I due produttori hanno campionato, con un lavoro favoloso e non troppo dissimile da quello condotto da Aleksandr Sokurov e dal suo team sulle interviste, le riprese cinematografiche, i cinegiornali e i discorsi di Hitler, Stalin e Mussolini per lo straordinario “Skazka” presentato all’ultimo festival di Locarno, tutte le principali interviste rilasciate dai protagonisti della moda Novanta e primi Duemila, arricchendole con testimonianze e valutazioni attuali. Ne è venuta fuori la fiaba gotica che tutti si aspettavano. I quattro episodi di “Kingdom of dreams” intrecciano le rivalità, i trionfi, le tragedie che hanno costellato i due decenni in cui la moda si è trasformata nel sistema di potere che conosciamo adesso.

 

Come scrive Dana Thomas, “Galliano e McQueen non avevano solo talento. Volevano rivoluzionare la moda come nessuno faceva più da decenni. Per un po’, ci riuscirono”. Andando a riguardare adesso le collezioni di quei due ragazzi punk di cui Vivienne Westwood era corsa ad applaudire gli esordi e per le quali saltavamo tutti in piedi anche a metà show, battendo le mani, quelle creazioni opulente, fuori dalle righe e dalla necessità di accontentare tutti, sapienti di sartoria e anche di storia dell’arte, è evidente che il mondo abbia altre necessità e altri desideri. Marc Jacobs chiuse la sua carriera in Vuitton nel 2013, con uno show tinto, immerso, avvolto nel nero. Di primo acchito parve un doloroso riassunto delle sue collezioni. Non sapevamo che sarebbe stata la cesura con il passato di tutti.