La sala Capriccio romano della grande mostra Forever Valentino 

primafila

S-mascherare l'umanità. E mostrarla

Massimiliano Gioni

Capire l’arte e la moda significa capire che l’esperienza del bello non consiste nel riconoscere una forma ma nella constatazione di riconoscersi parte di una comunità

Ho mosso i miei primi passi da curatore con la Fondazione Pitti Discovery a Firenze, come assistente di Francesco Bonami e Raf Simons; quindi, sin dall’inizio – come tanti altri colleghi in Italia – mi sono trovato a lavorare all’intersezione tra arte e moda, un connubio che ha completamente trasformato il sistema della cultura in Italia, soprattutto grazie alle fondazioni private. Al di là del rapporto finanziario attraverso il quale le fondazioni di moda hanno sostenuto il mondo dell’arte dalla fine degli anni Novanta, il dialogo tra arte e moda è sempre stato al centro della storia dell’arte del Novecento. In questi ultimi anni in particolare si è riscoperto il modo in cui, attraverso la moda, le avanguardie storiche hanno reinventato la vita quotidiana e la messa in scena dell’identità. Futuristi, surrealisti e Bauhaus hanno immaginato una nuova umanità, la cui esistenza doveva essere ridisegnata a partire dagli abiti, per passare attraverso l’identità e la sessualità, fino ad arrivare alla reinvenzione delle nostre città – una ricostruzione totale dell’universo, dall’abito all’urbanistica.

 

Negli anni Novanta i rapporti tra arte e moda si sono intrecciati in particolare attorno alla cosiddetta industria delle immagini: l’arte ha appreso dalla moda la capacità di creare immagini sempre più volatili e pervasive; la moda a sua volta ha imparato dall’arte una certa spregiudicatezza e frontalità. Artisti e designer hanno messo in scena l’identità come una parata di maschere, ruoli e performance, con l’arte impegnata a smascherare l’umanità, mentre la moda si impegnava a vestirla, per parafrasare il critico Achille Bonito Oliva.

   

Nel mio lavoro di curatore non ho mai fatto alcuna distinzione tra opere d’arte e oggetti quotidiani. Anzi, credo che le mostre siano semplicemente un modo di raccontare storie attraverso gli oggetti. Certo, la mostra “Forever – Valentino” che ha appena aperto al museo M7 di Doha in Qatar, è la mia prima incursione totale nel campo della moda: una mostra senza opere d’arte, nel senso tradizionale, ma solo abiti, accessori e ambienti. Come ogni mostra, “Forever – Valentino” è una macchina per raccontare storie, una scrittura narrativa che si svolge nello spazio, attraverso un collage di esperienze: una serie di “installazioni totali”, come le chiama l’artista Ilya Kabakov, ovvero coreografie teatrali nelle quali gli oggetti sono presentati non solo per creare storie ma per costruire una serie di atmosfere.

  

 La sala Capriccio romano della grande mostra Forever Valentino
  

Pierpaolo Piccioli, il direttore creativo di Valentino, ci ha spronati sin dall’inizio di questa collaborazione a pensare questa mostra non come una “retrospettiva” ma piuttosto come una “prospettiva”, uno sguardo diagonale attraverso la storia della maison Valentino. Così è nata una mostra che è costruita come un “capriccio”, per usare un termine caro alla storia dell’arte del Seicento: un collage di frammenti architettonici, monumenti e luoghi – un paesaggio dell’anima nella quale si fondono varie schegge di Roma. Nella mostra il pubblico entra in ricostruzioni precisissime degli atelier, delle fitting room, del cortile di palazzo Mignanelli, sede della maison, e si incontrano poi versioni trasognate e astratte del Colosseo, dei Gasometri e di Piazza di Spagna – una Roma neo-metafisica nella quale si scorgono ricordi barocchi ma anche atmosfere pasoliniane.

  

 

Gustave Flaubert, che invitava lo scrittore a vestirsi in maniera convenzionale, così da poter osservare e criticare dall’interno il mondo che voleva ritrarre, aveva già intuito nell’Ottocento che la sfida per la moda sarebbe stato fare i conti con l’anarchia, con un mondo in cui regole e codici non esistono più, così come si sono dissolti i principi che definivano presunti ideali assoluti di bellezza. Piccioli descrive questa transizione come il passaggio da un’idea di life style esclusivo a un modello di condivisione di valori e identità. Oggi più che mai, capire l’arte e la moda significa capire che l’esperienza del bello non consiste nel riconoscere una forma ma nella constatazione di riconoscersi parte di una comunità.