Il voto del cambiamento vale anche per la moda. Alfabeto della Milano Fashion Week

Molta energia alla Settimana della moda donna per l'estate 2023, ma anche troppi vestiti, troppa moda inutile, troppi passaggi di mano malriusciti. Ecco il nostro tradizionale (e attesissimo) appuntamento

Fabiana Giacomotti

Molta energia, e questo è il dato positivo della tornata di sfilate moda donna estate 2023 che si è appena conclusa a Milano. Però e anche troppi vestiti, troppi marchi che potrebbero fare serenamente a meno di produrre collezioni quando è evidente che vendano solo scarpe e borse, troppo di tutto e con una domanda di fondo. Come per il voto elettorale, e per certi versi in misura non differente, questa tornata di sfilate ha posto fortissima la domanda sulla ragion d’essere della moda, che l’Italia ha sempre definito come il “bello e ben fatto”, ma che la società e la globalizzazione distributiva spingono sempre di più verso il “bello e buon fatto”, cioè etico.

E’ stata una settimana che prelude a grandi cambiamenti, e anche all’apertura inevitabile di una seria riflessione sul cambio generazionale, problema che l’imprenditoria italiana vive con apprensione da anni e che adesso, per la prima volta, tocca in misura rilevante la moda. Quale è il ciclo vitale di un marchio? In quale misura un marchio che molto ha detto e raccontato negli Anni Novanta, il decennio in via di rivisitazione in queste stagioni può rinnovarsi nelle mani di un nuovo creativo e una nuova proprietà senza perdere di credibilità e tradire la propria storia? A fine tornata della Fashion Week milanese per la primavera estate 2023, ecco l’appuntamento ormai tradizionale dell’alfabeto.

   

A come Armani, Giorgio (vedere articolo dedicato)

 

A come accessori. E’ vero che buyer e media vogliono “vedere il total look” per capire meglio, ma ci sono anche quelli bravi che capiscono senza bisogno di buttare soldi ed energia/e in collezioni inutili che mai andranno in produzione e non lasciano traccia di sé se non un cattivo ricordo che si riverbera malamente su borse e scarpe. Non a tutti funziona il salto che ha fatto Bottega Veneta, e comunque ci sono voluti vent’anni (l’auto-smentita a questa voce si trova alla lettera T).

 

A come A jour. Il particolare ricamo, molto bon ton, molto chic, sempre fresco, è una delle tendenze meno evidenti ma più gradevoli per la prossima stagione.

 

B come biglietti di invito. Evviva, gli uffici stampa hanno capito, quasi tutti, che non c’è bisogno di buttare soldi ed energia/e per convocare qualche centinaio di persone. Tutta quella carta, quelle scatole, quelle shopper, iniziano a imbarazzare. Basta l’invito digitale con l’indicazione del nostro posto, se una cliente desiderosa di vantarsi con le amiche protesta si può chiuderle la bocca appellandosi al benessere del pianeta (la smentita a questa voce si trova alla lettera I)

 

B come borghese. La donna borghese di questa stagione ha la bellezza inquieta e un po' sfiorita di Carla Bruni che sfila per Tod's e quella tormentata della donna Prada. Ma la moda italiana se lo tiene ben stretto, il suo sogno borghese. 

 

C come confusione. Avviso ai naviganti delle passerelle e in particolare a Rhuigi Villasenor, alla sua prima collezione per Bally, a quasi un anno dalla nomina, dunque dopo aver avuto tutto il tempo per pensarci. C’è differenza fra l’apparente sovrapposizione di codici di Gucci e l’affastellarsi di tacchi, stivali di pitone e vestaglie, per quanto tutti di ottima qualità. Ma è soprattutto quel tocco “Scarface” di Brian De Palma a perplimerci. Questa, finché reggiamo, continua a essere la vecchia Europa che aborre il bling bling, tocca adeguarsi.

 

C come crochet. Nonne requisite, ospiti delle Rsa pure e non stiamo scherzando. Mai state impegnate come adesso, cioè da quando Cinzia Macchi della Milanesa ne ha fatto una bandiera di impegno e inclusione sociale. Crochet chic da Brunello Cucinelli e da Alberta Ferretti, sia da solo sia come incrostazione, bei crochet perfino sulle borse di Gianni Chiarini, che fa sempre borse bellissime e stra-copiate dai mega-brand. Poi ogni tanto qualcuno esagera col centrino della nonna e li mette tutti insieme sul gonnellone, con un effetto patchwork per nulla attraente (Marco Rambaldi, ti vogliamo tutti bene, ma l’allure “orgoglio squat” inizia a dover essere calibrata).

 

D come dilemma (ma anche T come Trussardi). Dunque: la scorsa stagione, la collezione dei nuovi direttori creativi Serhat Işık e Benjamin A. Huseby vinse la palma di collezione più scentrata della settimana. Come si poteva pensare di interpretare la classica eleganza di Trussardi con una moda da quartieri underground di Berlino, musica da ricovero e una platea composta quasi esclusivamente da drag queen? L’altro giorno, sotto le volte del Tiepolo di Palazzo Cusani, dove ha sede anche l’Ispi, è andata in scena una collezione di abitini tagliati da panni di jersey, vestiti di raso avvolti attorno al collo, spacchi e volant, trench in simil pelle effetto cocco (ah, i meravigliosi capretti Trussardi di un tempo) e pur bellissimi gioielli. Abitini di jersey. Del duo promotore del brand Gmbh erano rimasti solo i pantaloni con la piccola scampanatura sul fondo e la punta quadrata delle scarpe. E’ “meglio di prima” come dicono tanti? Sì, ma anche no. Non è Trussardi di un tempo, non è Trussardi come potrebbe essere, ma non è nemmeno più il marchio hyper cool turco-tedesco che ci stavamo abituando a conoscere anche in Italia. Da cui una riflessione: scegliere su carta i creativi più di tendenza del momento sperando che rivitalizzino marchi centenari lontani mille miglia dal loro sentire e dalla loro cultura in una stagione funziona in casi rarissimi e dove l’estetica era già ben definita, precisa e potente, vedi Demna Gvasalia con Balenciaga. Altrimenti, tocca aspettare, scommettere e sperare, infondendo anche fiducia e benevolenza. Ma costringere chi è nato tondo a diventare quadrato non è una buona idea. Soprattutto, non dà risultati interessanti (non abbiamo visto Ferragamo in presenza, ma il discorso vale identico per Maximilian Davis, con la differenza che le borse erano immense e bellissime e le scarpe pure e forse è quello che conta in una maison come Ferragamo, dopotutto).

 

D come Duomo (piazza del). Ormai ci si va a migliaia, modello adunata che fra l’altro è in tendenza anche politica, e solo vestiti di bianco. Prima Roberto Bolle, con i suoi favolosi ballerini, poi Moncler con la prima ballerina del Teatro alla Scala, Virna Toppi, che ha aperto il clamoroso spettacolo di apertura di quelli che passeranno alla storia come i “Giochi Moncler”: settanta eventi in tutto il mondo per celebrare il settantesimo anniversario dalla fondazione con sfoggio di atleti, modelli, ballerini e ça va sans dire, piumini, nel caso specifico il modello Maya che è da sempre il più venduto. Voleste fare l’addizione fra i 700 ballerini, i 200 musicisti, i 100 coristi e i 952 modelli rastrellati ovunque, scoprireste che la somma fa 1952, anno di fondazione del brand. Il patron Remo Ruffini, uomo che evidentemente ama i riferimenti numerici e le coreografie geometriche, ha chiamato per l’occasione il celebre coreografo Sadeck Berrabah (Sadeck Waff), già visto al lavoro con ottimi risultati in un filmato Zegna, che ha orchestrato uno spettacolo di danza contemporanea “sfidando i limiti volumetrici del corpo umano”. In 18mila si sono accalcati sotto la pioggia in piazza per partecipare all’evento (gli ospiti di riguardo venivano serviti di canapé e champagne sulle terrazze dell’Arengario, al coperto) a dimostrazione che la moda, quando si offre al grande pubblico, piace eccome. Si prevedono grossi cambiamenti per la prossima collezione, che dovrebbe rivisitare il progetto “Genius” (le collaborazioni con i grandi stilisti), per attrarre la generazione Z e il pubblico estraneo al circolo magico della moda (insomma, chi non si esalta per qualunque cosa faccia tendenza ma non indosserebbe mai).

 

E come Etro. Sulla collezione e il suo nuovo direttore creativo Marco De Vincenzo scriverà il 6 ottobre sul “Foglio della Moda” Nadia Terranova da par suo, dunque non ci dilunghiamo (comunque sì, è stato un ottimo debutto e non era per niente facile). Per capire però la portata della benevolenza di cui gode il designer degli accessori di Fendi presso il gruppo Lvmh basti dire che da Parigi sono arrivati l’amministratore delegato di Dior Pietro Beccari, a cui va l’onore di averlo scoperto quando era ancora alla “fase premi”, Luisa Loro Piana, Giuseppe Zanotti (vedere voce successiva a questa) e da Monaco di Baviera il boss di Mytheresa Michael Kliger che va già sviluppando una collezione ad hoc per la piattaforma, ormai la più quotata del settore e proprio grazie a queste collaborazioni.

 

E come Etro e Giuseppe Zanotti. Due segnali, anzi tre, indicano la nuova fase espansionistica del calzaturiere di san Mauro Pascoli. Il primo, in ordine di tempo. La presenza ubiqua sul red carpet della Mostra del Cinema di Venezia e agli altri grandi appuntamenti cinematografici e musicali mondiali. Il secondo: l’endorsement produttivo a Niccolò Beretta, ex brand Giannico ed ex ragazzo prodigio di cui la moda, lesta di premi e di riconoscimenti purché col padrinaggio giusto, si era dimenticata dopo la morte di Franca Sozzani. E’ ancora giovanissimo, continua ad essere molto bravo, ma era ovvio che avesse bisogno di un mentore. L’ha trovato. Terzo segnale, che è anche una notizia, è la produzione degli zoccoli a punta che hanno accompagnato la prima sfilata di Marco De Vincenzo. Sono il preludio, si dice, a una licenza

  

F come Ferrari. Posto che Rocco Iannone e' un bravo designer e un uomo di gusto, e l'ha dimostrato piu' volte, sorgono (per la seconda stagione), una domanda e una supposizione. Ipotesi: il management lo tormenta perché piazzi loghi del cavallino ovunque, tute da benzinaia sexy ogni due per tre e imbottiture da pilota di F1 in tutte le giacche. Quindi, la domanda: a quale cliente si rivolge questa collezione che mixa, con evidente dispendio nella manifattura specie nei capispalla (al teatro Lirico dove è stata presentata la collezione, in prima fila sedevano Delphine Arnault e Gildo Zegna) abbigliamento para militare, giacche tye and dye e rasi e chiffon ricamati? Perché abbiamo la netta impressione che i fan del cavallino si accontentino dei gadget, mentre il genere di ricchi signori che acquistano l'auto sportiva vogliano indossare i marchi cool del momento, possibilmente endorsed by Kim Kardashian.

 

F come frange. Come le paillettes, sono diventate un punto fisso. Tantissime da Luisa Spagnoli, che dice, come James Burke, di voler guardare al passato (in questo caso agli ultimi anni del decennio Sessanta) per immaginare il futuro. Talvolta le frange hanno funzione strutturale e non estetica come da Jil Sander e da Bottega Veneta.

 

G come Glenn Martens. Interpellata all’uscita della sfilata di Diesel, che ha invitato quasi cinquemila persone fra studenti, dipendenti e buyer, una classe di moda dell’istituto più quotato d’Italia si è lasciata andare alla miglior sintesi e al più efficace ossimoro mai tributato a una collezione: “Tamarra ma di gusto”. Impossibile definire meglio una collezione piena di energia, divertente da morire, che riscrive i codici – la locuzione del momento ma in questo caso efficace – dell’abbigliamento in jeans trasformandolo in un’avventura di stile. Fuori dall’Allianz Theater, i fan del designer belga si contavano a centinaia, e si capisce il perché.

 

I come influencer. Nota per gli amministratori delegati, e in particolare per il ceo di Sergio Rossi, il pur simpaticissimo Riccardo Sciutto. Gli influencer svolgono la funzione che la definizione indica: influenzano, non creano, ad eccezione di Chiara Ferragni che comunque produce sostanzialmente merchandising e in ogni caso, essendo imprenditrice abile, si guarda bene dall’andare oltre agli occhietti del suo logo. Le calzature sono meraviglie di proporzione, calzata, design, gusto. Ma se nella nuova collezione firmata dalla fondatrice di Styleheroine, Evangelie Smyrniotaki, con i suoi 400mila follower, i pezzi più sofisticati e più contemporanei sono le riedizioni dei modelli del fondatore, c’è qualcosa che non va.

 

I come inquinamento. Nel percorso fra la sfilata di Tod’s alla Bicocca e quella di Missoni alla Bocconi (7 chilometri per andare, otto per tornare, nel giro di un’ora) tutti hanno parlato di una sola cosa, cioè dell’organizzazione di un calendario che costringeva centinaia di auto ad attraversare la città per il lungo più volte nell’arco della giornata, con ovvio spreco di energia e aumento dello smog, oltre che esaurimento di nervi. La Camera della Moda che promuove i Sustainable Awards dovrebbe istituirne uno per la conciliazione fra marchi al fine di un calendario ragionato e sostenibile.

 

L come luminosità. Tessuti impalpabili e striati di luce, liquidi, impalpabili ed evanescenti come miraggi o sogni da Giorgio Armani. Leggerezze anche da Luisa Beccaria, da Alberta Ferretti, e in genere ovunque ci siano denari a disposizione per produrre belle collezioni (gli spalmati e i lurex di buona qualità sono meravigliosi e fanno subito sentire diva di Hollywood, quelli di cattiva qualità evocano immediatamente il negozietto cinese. Privi di mezzi astenersi, ci sono lini bellissimi a buon prezzo)

 

M come mutanda (o anche C come culotte). Credevamo che la significativa presenza di mutande modello calzoncino Anni Trenta nella sfilata di Antonio Marras, la prima della stagione milanese, fosse dovuta alla vendita della maggioranza del brand al gruppo Calzedonia. Mutande su mutande, in vista delle prossime vetrine di Intimissimi. E invece no. Le mutande spuntano ovunque, a vista o in trasparenza. Il termine smutandata inizia ad acquisire un senso di stile.

 

M come Missoni. La migliore (ennesima?) dimostrazione di quello che succede a cedere a un fondo non sovrano e non pressato dall’urgenza di fatturare (vedi caso Valentino, che dopo il passaggio da Permira a Mayhoola è rinato), ma a una compagine di banchieri ignari dei tempi e dei modi-della-moda e attratti solo dall’idea di far fruttare un marchio nei tre-cinque anni concessi prima della chiusura dello stesso e di farsi belli con l’allure che la moda regala e l’alimentare o la cosmetica no: prodotto massificato, semplificato all’estremo per attrarre una clientela che comunque non arriverà, perché la massa non spende e chi ha possibilità non spende per una moda che non sia cool, innovativa e di qualità eccelsa. Gentile Fondo Strategico Italiano, siamo alla terza stagione di tentativi, e ancora non ci siamo. Filippo Grazioli, nominato direttore creativo dopo due sole stagioni di direzione creativa di Antonio Caliri (che, pur nell’estrema semplificazione del messaggio, possedeva se non altro una linea creativa precisa), ha presentato un’idea di donna e di sensualità strizzata, fasciata, sagomata e sculettante francamente passatista (ancorché, con Forza Italia a fare da ago della bilancia nel post-elezioni, chissà che non torni a sua volta alla ribalta). Ma per colmo di misura, questa donna vetero-testamentaria è stata anche vestita con i motivi a maglia meno sofisticati che si potessero immaginare, gli zebrati più banali che per Missoni, brand di superbo colorismo, suonano come un’eresia. Nessuno ha avuto il coraggio di andare a salutare Rosita Missoni dopo la sfilata. Perché vedere sessant’anni di lavoro fantastico trattati così male stringeva il cuore.

 

Paillettes. In conferenza stampa post sfilata, Giorgio Armani le ha benedette, o quasi, anche per il giorno. Sono diventate un classico, come l’animalier (che comunque, non ci stancheremo di dirlo, si indossava anche nel Settecento, uomini compresi: non è una scoperta del Novecento, attiene al tema del feticcio e dell’abbigliamento del potere). Bellissime le minigonne decorate di paillettes che Ermanno Scervino accosta alla maglieria fatta a mano ma costruita grazie al supporto e alla programmazione a computer (molte ore di lavoro anche per quello, comunque). La paillette non-proprio-per-andare-in-ufficio-ma-quasi, comunque non da sera, è uno dei punti forti anche della collezione di Le Twins, Sara e Tania Testa: di bel taglio donante i pantaloni sfolgoranti di bagliori in arancio e azzurro affiancati al cotone bianco e al jersey delle bluse, che hanno sfilato, come da tendenza, in piazza (nel loro caso fra piazzale Cadorna e via Paleocapa).

  

P come pantaloni. Cargo, o dritti, e comunque in satin.

 

P come premi. Premi per tutti. Quelli ormai storici e accreditati come il Chi è Chi ideato da Cristiana Schieppati, che offre riconoscimenti solo a chi è già e davvero affermato nel campo, quelli del potere modaiolo vero ai Sustainable Fashion Awards (avremmo gradito più storie di comunità tipo Ara Lumiere, che in India offre una seconda chance alle donne sfigurate dall’acido, e al fantastico progetto di recupero di tessili usati di Nkwo Unkwa) e quelli “a seconda” del momento e dello sponsor. Giornalisti e buyer tutti parimenti impegnati a selezionare montagne di giovani. Spesso con la difficoltà della scelta dove perché, essendo i giurati in genere su piazza da decenni e non possedendo la memoria di breve durata delle ultime generazioni, tarate sul timing di un post di TikTok, riconoscono al primo colpo d’occhio le evidenti scopiazzature (ora, per esempio, insieme con i Novanta, fra i candidati a questi premi sta tornando lo stile Ann Demeulemeester). Esattamente come i genitori di oggi, anche i giurati non vogliono deludere né mortificare nessuno (con quello che costano le scuole di moda, poi). Però una generazione di futuri designer così incapaci di un pensiero nuovo e così convinti che basti pescare un vecchio catalogo nella biblioteca della scuola perché il mercato gridi al miracolo non l’avevamo ancora vista (suggerimento ai genitori: mandarli al classico e poi in università. Il senso critico e un po’ di cultura servono. Poi si può fare il Master. Suggerimenti ai giovani: se tanto vi piace Ann Demeulemeester, chiedetele uno stage, magari vi prende a bottega).

 

R come rilettura. Kim Jones che rilegge Karl Lagerfeld da Fendi nei Novanta. Gilberto Calzolari che rilegge i suoi classici, a soli dieci anni dalla fondazione del suo marchio. Signori, se noi giornalisti scrivessimo lo stesso pezzo (in gergo, “ricicciassimo”), lo stesso pezzo ogni tre mesi, che cosa ne pensereste? E’ pur vero, come diceva Umberto Eco, non c’è nulla di più inedito del già pubblicato, ed è altrettanto vero che nella moda l’evoluzione di un progetto e di una strategia siano più rilevanti di un cambio costante che rischia di spiazzare sia il buyer sia il cliente finale. Però la collezione Dolce&Gabbana selezionata da Kim Kardashian fra i pezzi d’archivio è un lavoro curatoriale, non di design; definiamo le cose per quelle che sono, grazie.  

 

S come sovrappeso. Tocchiamo materia scottante, lo sappiamo, e la tocchiamo infatti a spizzichi e bocconi, una volta in un articolo, una volta in un altro. Un giorno scriviamo di alimentazione scorretta ed eccessiva, un’altra dei danni della deregulation commerciale che in due decenni ha trasformato le nostre città in friggitorie a ciclo continuo, un’altra ancora del poco sport praticato dalla Generazione Z nonostante i luminosi esempi nazionali in quasi tutte le discipline. Una cosa, però, va detta. Perché questa volontà di (parziale, una o al massimo due per volta) inclusione ponderale in passerella riguarda solo le ragazze e mai gli uomini? Per loro, solo il cinema di Aronofsky?

 

T come Tod's. Bella collezione. Bellissimi trench in un punto di colore sabbia perfetto. Favoloso l'abito-pareo in nappa. Ci piacerebbe tanto vedere e magari comprare la collezione nei negozi accanto alle borse e alle scarpe, grazie.

 

U come “Urgenza colorista”. Chiunque l’abbia scritto in cartella stampa, per piacere, dai. 

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