Gerardo Goldwasser “Persona”, particolare dell’installazione al Padiglione dell’Uruguay della Biennale di Venezia 

il foglio della moda

La sartoria del riscatto umano

Il sarto ebreo è un topos talmente imperituro nella letteratura occidentale (Manischewitz dell’”Angelo Levine” di Malamud, lo Schwartz di Asimov e naturalmente “il nonno Schlomo” delle barzellette) che non stupisce affatto ritrovarne l’elaborazione nell’opera di un artista cresciuto in Uruguay, paese di immigrazione, melting pot plurisecolare, rifugio per profughi di ogni persecuzione e qualunque disgrazia. Troverete sempre meno sarti a Tel Aviv, ma nel continente americano questa figura, e il suo portato valoriale hanno ancora un significato profondo, al punto che il ministero dell’istruzione e della cultura dell’Uruguay ha dedicato il proprio padiglione alla Biennale a un progetto, “Persona”, sviluppato attorno alla storia dei corpi e alla loro vestizione, attraverso una rielaborazione dei cartamodelli e degli appunti di un antenato dell’artista, Gerardo Goldwasser. “La società̀ uruguaiana è un esperimento radicale di immigrazione e convivenza”, dice infatti il ministro Pablo de Silveira, radicalizzando a sua volta il tema della trasmissione dei saperi, che non può che essere eterologa, arricchita di esperienze diverse. “In questa terra relativamente piccola e scarsamente popolata arrivarono, in epoche diverse, spagnoli che sognavano di “fare l’America”, comunità̀ guaranì̀ che circolavano nella regione, africani portati come schiavi, portoghesi delle Azzorre, italiani sfuggiti alla povertà̀, discendenti degli ugonotti, ebrei perseguitati, russi espulsi dagli zar, mennoniti che si rifiutavano di fare i soldati, anarchici più̀ o meno violenti, armeni reduci dei massacri, miliziani sconfitti nella guerra civile spagnola, sopravvissuti ai campi di concentramento e sterminio di tutta Europa. Oggi arrivano cubani e venezuelani in fuga dalla paura e dalla fame. La società̀ uruguaiana contemporanea non può̀ essere capita senza considerare il contributo di queste correnti migratorie. Ognuna ha portato le proprie convinzioni, i propri modi di vivere, la propria arte, le proprie storie e sapere”. Nell’arte di Goldwasser, nipote di un ebreo sfuggito alla morte nel campo di Buchenwald grazie alla propria abilità nel confezionare divise, si trovano l’ebraismo, l’arte della sartoria trasmessa di generazione in generazione, l’Olocausto, l’incorporamento in una società̀ che è riuscita a costruire un modello particolare di convivenza nella diversità̀. È anche un’opera che si costruisce con i materiali e le tecniche di un sarto. È pura materialità̀ e storia, perché l’atto della cucitura è al tempo stesso artigianalità e relazione. Un termine che si usa, non a caso, anche metaforicamente: cucire e ricucire pensieri, tessere relazioni. La sartorialità è la materia viva della trasversalità culturale, ed è al tempo stesso memoria e tradizione, come ricordano anche i due curatori del progetto, Laura Malosetti Costa e Pablo Uribe: “Persona” propone una riflessione critica che mette in scena un aspetto tanto essenziale quanto complesso delle società umane: i modi di coprire ed esporre i corpi, di disciplinarli e anche di distinguerli. La questione che solleva si riferisce alle forme con cui ogni essere umano si percepisce come persona costruendo il proprio aspetto, il suo modo di entrare in scena ogni giorno della sua vita”. L'etimologia del concetto, esplorata nella moda anche da Gucci in una sfilata di cinque anni fa, si riferisce al teatro classico: la maschera d’attore origine della cultura del vestire. Con un abito diverso noi “entriamo in scena”, cambiamo la percezione che gli altri hanno di noi. E con questo cambiamo la nostra storia, talvolta. Quest’opera, caratterizzata da una stordente assenza di colore, racconta la tensione tra individuo e spersonalizzazione normativa in una linea di riflessione legata alla sartoria: come mestiere, come disegno soggetto a regole precise, come ripetizione e istituzione di norme, il tutto legato alla memoria e al trauma della sua storia familiare. Le tonnellate di stoffa nera nelle bobine da taglio, le file di maniche, gli strumenti di misurazione, i cartamodelli che ordinano ogni spazio, appaiono come un nero incubo che dialoga con Il latte dei sogni immaginato da Leonora Carrington, all’origine di questa Biennale.

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