l'intervista

Le donne altrove. Dietro agli abiti di Thierry Mugler

50 anni di carriera raccontati nella prima retrospettiva dedicata allo stilista. "È importante che le nuove generazioni vedano le opere di qualcuno che ha veramente infranto tutti i canoni di ogni tempo", ci dice il curatore

Valeria Sforzini

Ha portato le sue muse fuori dal mondo, in un altro pianeta: sulla cima del grattacielo Chrysler, tra i ghiacci della Groenlandia, nel mondo degli insetti, in un’altra epoca, ma sempre in abiti da sera sensuali realizzati con materiali che qualcuno ha definito riduttivamente “da sexy shop”. Nella visione di Thierry Mugler le donne sono così seducenti e così straordinariamente sicure di sé da non riuscire a trovare un posto sulla terra: sono sempre altrove. I loro vestiti raccontano delle vite e delle personalità che oggi non sarebbero pensabili, ma che anche nei ribelli anni ’70 e negli esplosivi ’80 erano visti come “disruptive”. Nessuno prima di lui aveva mai vestito una donna da regina delle formiche, né osato montare un manubrio da motocicletta su un corpetto, o pensato di costruire un’armatura robotica a metà tra alta sartoria e capolavoro ingegneristico. È stato definito l’inventore del fashion show per come lo intendiamo oggi, ma quelli che organizzava per presentare le sue collezioni assomigliavano più a uno spettacolo teatrale che a una sfilata. La musica, le scenografie, le coreografie e le modelle che camminavano sulla passerella interpretando un personaggio avevano ben poco da spartire con le classiche presentazioni in atelier alle quali erano abituati i parigini che acquistavano haute couture. 

 

La sua passione per la danza, per il teatro, l’esibizione nel senso più ampio del termine si notano in tutte le sue espressioni. Nato a Strasburgo nel 1948, Mugler diventò un ballerino classico negli anni ’60, quando si unì alla Opéra nazionale del Reno, poi nel ’67 fu stilista a Parigi, prima freelance (sue le giacche in velluto indossate da Jimi Hendrix, Beatles e Rollig Stones) e poi, dal 1974 con il brand che porta il suo nome, ma anche fotografo e costumista: dal Macbeth de la Comédie-Française al videoclip realizzato assieme a George Michael “Too funky”. 

 

“Mi piace lavorare con le passioni e le ossessioni delle persone”, spiega Thierry-Maxime Loriot, curatore della mostra “Couturissime”, la prima retrospettiva dedicata a Thierry Mugler, l’unica alla quale lo stilista abbia dato il suo consenso, dopo aver rifiutato diverse proposte avanzate da musei e curatori. Prima di questa, Loriot, canadese d’adozione con una carriera da modello alle spalle, ha curato mostre dedicate a Jean Paul Gaultier e Peter Lindbergh, tutte accomunate dalla voglia di trasportare il visitatore nell’universo dell’artista, con ogni mezzo. “Non avrebbe senso per me realizzare una mostra dedicata a qualcuno che si limita a ‘realizzare vestiti’, non ci sarebbe motivo di parlarne, – continua Loriot, che raggiungiamo via zoom nella sua villa di Montreal – Ma quando dietro alle creazioni c’è un messaggio forte e una creatività dirompente, allora è importante mostrarlo e raccontarlo». “Couturissime” raccoglie 150 degli abiti più iconici di Mugler tra alta sartoria, prêt-à-porter, costumi di scena e nuove creazioni inedite. Accanto a questi sono esposti videoclip, bozzetti, scatti dei più grandi fotografi di moda al mondo, da Helmut Newton, che ha scattato la prima campagna pubblicitaria del brand, a David LaChapelle, e fotografie realizzate dallo stesso stilista. 

 

“Io lavoro per capitoli, per raccontare una storia – spiega Loriot – le mie mostre non sono convenzionali e per questo sono stato spesso criticato. Ma per me una visita al museo deve essere un’esperienza e divertire”. La mostra è partita nel 2019 dal Montréal Museum of Fine Arts, oggi è alla galleria d’arte Kunsthalle München e prossimamente, pandemia permettendo, arriverà a Parigi al Musée des Arts Décoratifs. I 50 anni di carriera di Mugler sono raccontati in sette atti e ripercorrono i momenti più eccezionali della sua carriera fino al 2000, anno in cui lo stilista ha scelto di chiudere il suo marchio. Dopo quella data si è ritirato dalle scene, ha cambiato nome facendosi chiamare Manfred – Thierry Mugler e ha completamente trasformato il suo corpo con il bodybuilding. 

 

“È importante mostrare i lavori di Mugler oggi – spiega Loriot – perché le nuove generazioni vedano le opere di qualcuno che ha veramente infranto tutti i canoni di ogni tempo. Oggi siamo abituati a copiare, tutti vogliono essere uguali, ma lui ha fatto qualcosa di davvero straordinario. Quando ha lanciato il suo brand negli anni ’70 non era un momento semplice per la haute couture parigina. A Milano stava emergendo Giorgio Armani con la sua eleganza, dal Giappone arrivavano Yohji Yamamoto e Rei Kawakubo con il loro minimalismo, a Londra c’era il punk di Vivienne Westwood: l’alta sartoria era considerata una cosa polverosa per vecchie signore americane che potevano comprare enormi abiti da ballo. Non tutti hanno colto l’ironia e la provocazione di Mugler, il suo sense of humor”. Le donne Mugler erano l’incarnazione della sensualità e della provocazione, cosa che gli è valsa non poche critiche nel corso degli anni per la sua oggettificazione del corpo femminile. Ma quello che per la società era una sensualità ostentata e spicciola, per Mugler era la traduzione del suo amore per quello che considerava “l’animale più bello del creato, ovvero l’uomo”. Fu  Linda Nochlin, femminista e attivista a riconoscere il valore delle donne rappresentate dallo stilista, talmente estreme da diventare soggetti e non oggetti sessuali. “Il suo intento era veramente quello di liberare le donne e questo si riflette anche nella scelta dei materiali – spiega Loriot – Ha dato loro la libertà di essere chiunque volessero, da un insetto, a un animale a una diva di Hollywood. Le sue creazioni non sono riconducibili a nessuno stilista, lui si ispirava alla scena underground, al circo, al mondo animale utilizzando materiali come il latex e la gomma che era più facile vedere in un sexy shop piuttosto che in passerella”. 

 

Gli sforzi che spendeva nella ricerca dei materiali rendevano i suoi abiti ancora più speciali: pensava ad esempio che fosse molto più interessante ricreare l’effetto della pelle con un trompe-l’oeil usando il latex e risparmiando la vita a un animale. Alcune delle sue creazioni hanno richiesto un lavoro di sei mesi e l’intervento di ingegneri, come nel caso della corazza-robot. “Paradossalmente è molto più semplice vedere un Picasso che un abito d’archivio di Mugler – spiega Loriot – Ora grazie a figure del calibro di Beyonce, Lady Gaga e Kim Kardashian, che indossano le sue creazioni sul red carpet, si sta riscoprendo il valore del suo archivio”. Nella mostra sono esposti anche gli scatti realizzati dallo stesso Mugler, che lo stilista ha ricondiviso sui suoi profili social: modelle in abito da sera distese a prendere il sole sui ghiacci della Groenlandia, o sulla cima dei grattacieli, quasi in competizione su chi fosse più imponente. “Il cielo per lui era un grande fonte di ispirazione – continua – da piccolo dormiva sulle panchine nei parchi e guardava il blu della notte, che è sempre stato un colore cardine per lui, anche se inarrivabile. Nelle sue fotografie l’architettura ha un ruolo fondamentale, metteva le modelle in scala con delle gigantesche sculture. Per lui era importante aggiungere qualcosa, non gli bastava scattare una modella in un bellissimo appartamento circondata da fiori. Le donne e gli uomini Mugler erano guerrieri, avventurieri: potevano essere in Siberia, in Giappone, tra i ghiacci artici o su un altro piante, ma in qualsiasi luogo fossero, dovevano poter esprimere la loro libertà”.

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