Un watch center della Defense Intelligence Agency (foto Wikimedia)

La cospirazione è una ripetizione. Abbandonare il “deep state” per lo “shallow state” di Trump

Qualcosa si agita sempre nelle viscere insondabili delle strutture note: lo stato profondo, la rete profonda, la gola profonda. Vecchi e nuovi complotti

New York. La sesta stagione di “Homeland” è ancora troppo aggrovigliata per meritare uno spoiler, ma è già chiaro che rimesta con il concetto più di moda quando si parla di sicurezza e sistemi di sorveglianza, il “deep state”. Gli sceneggiatori sono dei geni, non dei profeti, e se sono andati a sbattere contro l’attualità è perché la cospirazione è sempre anche una ripetizione. Il “deep state” è l’apparato segreto fatto di elementi di intelligence e burocrazie che mossi da forze oscure si muovono in modo autonomo rispetto alle strutture dello stato emerso, quello regolato da leggi chiare e sottoposto a meccanismi di controllo. Esistono stati, come la Turchia, in cui l’esistenza di strutture interne e in qualche modo parallele allo stato, che operano al riparo da ogni garanzia legale, è provata e documentata, in America ritorna ciclicamente nella coscienza popolare.

 

Negli anni Novanta gli “elicotteri neri” erano lo spauracchio dei cospirazionisti, certi che la minaccia più grave sia quella interna. Il nemico esterno è quasi sempre una montatura per giustificare le scorribande e le sorveglianze del “deep state”. In Italia tutto questo va sotto un nome ineffabile: “Servizi deviati”. Qualcosa si agita sempre nelle viscere insondabili delle strutture note: lo stato profondo, la rete profonda, la gola profonda. Tutto è profondo e anche molto interessante, ma questo revival del “deep state” questa volta ha sponsor eccellenti, ad esempio il presidente degli Stati Uniti, che denuncia i leak coordinati dell’intelligence ai suoi danni come se fra Langley e la sede della Nsa ci fosse un contropotere alleato con quei “nemici del popolo americano” che sono i giornali per distruggere Trump tramite impeachment.

 

Il “deep state” è bipartisan. Lo denunciano sia il commentatore di simpatie neocon Eli Lake (“pubblicare selettivamente dettagli di conversazioni private monitorate dall’Fbi o dal Nsa da allo stato permanente il potere di distruggere reputazioni coperti dal mantello dell’anonimato. Questo è quello che fanno gli stati di polizia”) sia l’attivista Glenn Greenwald, di opposta sponda politica. Per scardinare la logica della cospirazione ci voleva David Rothkopf, ceo della rivista Foreign Policy, che ha introdotto il tema trumpiano del “shallow state”, l’opposto logico dello stato profondo. Il “deep state”, ammesso che esista, è fatto di competenze e qualità, è un’intelligenza che controlla, analizza, prevede ed elabora, senza lasciare dettagli al caso. A governarlo c’è un’oligarchia di semidei che vede ogni cosa.

 

Il “shallow state” è il regno dell’incompetenza e della cialtroneria, quello dove gli ordini esecutivi devono essere riscritti non tanto e non solo per le loro debolezze giuridiche, ma per le loro debolezze sintattiche, logiche e grammaticali; nel “shallow state” non si prevedono conseguenze e lungo termini e non si prospettano scenari alternativi, si reagisce all’input del momento con un output che appare adeguato, nella speranza che sia sufficiente a rimandare il problema. In un certo senso è il contrario della burocrazia, che garantisce continuità a una struttura di governo sottoposta allo stressante meccanismo dello spoils system. I funzionari dello stato tendono al controllo, quelli dello “shallow state” sono maestri di improvvisazione, si muovono a caso, procedono per tentativi. Invece di riscaldare vecchi complotti, bisognerebbe fare tesoro di quelli nuovi.

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