Yascha Mounk (foto di Twitter)

Yascha Mounk è il profeta della sventura democratica che spiega ai sordi la fragilità del sistema

Aveva capito tutto scrivendo un libro di memorie forse mediocre che ma che toccava le ancestrali questioni di identità e significato

New York. Quando, un paio d’anni fa, è uscito il precoce libro di memorie di Yascha Mounk, il New York Times lo ha recensito con una certa freddezza. Il racconto della sua infanzia di ebreo in Germania aveva aspetti letterari pregevoli, ma troppo spesso “rovesciava sulle pagine il superego dello studente di dottorato”, cosa che faceva dell’autore di “Stranger in My Own Land” una creatura a metà fra la promessa in attesa di essere mantenuta e il talento ormai già bruciato. Nessuno credeva, però, che questo ambizioso ragazzo di Harvard sarebbe diventato un profeta. Lo stesso New York Times lo ha rispolverato in qualità di anticipatore del deterioramento della democrazia liberale, fenomeno che ora è sotto gli occhi di tutti da Mosca a Washington, ma fino a poco tempo fa era classificato come una pulsione marginale, merce per estremisti e sobillatori. Mounk, che nel frattempo si è emancipato dalla condizione di “grad student” per diventare assistente, aveva visto nelle frizioni fra la sua identità ebraica e l’appartenenza nazionale tedesca un esempio della postmoderna incapacità di produrre identità multiculturali, e così ha preso a studiare con gli strumenti dell’indagine sociologica la tenuta del sistema democratico.

Quello che ha trovato, assieme a un collega australiano, è la totale fragilità della democrazia, dato in opposizione alle dottrine politologiche del “consolidamento”, secondo le quali i governi democratici tendono ad accrescersi e stabilizzarsi nel tempo. Per Mounk è l’esatto contrario. Per decenni tutti gli indici su libertà e rappresentanza si sono mossi sempre in territorio positivo, arrivando a suggerire che il modello liberale avesse i tratti di un destino inevitabile e benevolo, in un costante percorso di accrescimento verso l’eternità liberale. Poi, attorno al 2005, qualcosa è cambiato. Gli indici si sono rivolti verso l’area negativa, suggerendo che l’impianto stesso della democrazia avesse qualche crepa. O almeno questo veniva suggerito a chi ha avuto la pazienza e l’apertura per leggere in profondità i dati, mentre tutti gli altri ne hanno dedotto che la democrazia aveva un raffreddore. Passerà, dicevano. Ora che si parla più spesso di un tumore che di un raffreddore, Mounk emerge come quello che aveva capito tutto scrivendo un libro di memorie forse mediocre che ma che toccava le ancestrali questioni di identità e significato. Dalla frizione fra le identità era scintillata l’intuizione che lo schema universale della democrazia liberale non era poi onnicomprensivo e pluralista come ce l’eravamo figurato.

Rusty Reno, direttore della rivista cristiana e conservatrice First Things e autore del volume “Resurrecting the Idea of a Christian Society”, ha detto la stessa cosa in modo diverso: “Una società multiculturale può esistere soltanto nel contesto di un impero, non di una nazione”. Le promesse di una società dove il molteplice delle identità viene plotinianamente ricompreso nell’Uno democratico e liberale si stanno frantumando. Un giovane studente di Harvard con un superego grosso così da anni cerca di dimostrare per tabulas che il sistema non era indistruttibile.

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