Genoma, cervello e promesse della scienza. I mappatori mentali cercano “ciò che ci rende umani”
New York. Il cervello è il nuovo genoma. Negli anni Novanta la grande ricerca scientifica che solleticava l’immaginazione e accendeva le speranze dell’umanità era quella sulla mappatura del Dna, e oggi quella grandiosa iniziativa, con la sua iconografia fatta di strutture a doppia elica, sembra, appunto, l’impresa di un’altra generazione. Ora si tratta di scoprire i segreti del cervello. Non si sa quanto volte Barack Obama in questi anni ha parlato di “unlock” i segreti cerebrali per sconfiggere l’Alzheimer e altre patologie degenerative, obiettivi ovviamente commendevoli perseguiti in contemporanea da una pletora di progetti competitivi in Europa e in America. Il più ambizioso, come spesso capita, è quello organizzato dal National Institute of Health, il centro di ricerca del governo americano, che sta lavorando alacremente al progetto Brain 2025. Nella dichiarazione d’intenti dei ricercatori si legge che lo scopo è “esplorare il terreno interiore del pensiero, delle sensazioni, della percezione, dell’apprendimento e della decisione”. Queste capacità cerebrali vengono definite “l’essenza delle nostre menti”, addirittura “gli aspetti dell’essere umani che contano di più”, fino ad arrivare alla dichiarazione essenziale: “I nostri cervelli ci rendono ciò che siamo”. Ovvero: le capacità di cui sopra sono ciò che ci rende umani, cioè capaci di “percepire la bellezza, insegnare ai nostri figli, ricordare le persone care, reagire alle ingiustizie, imparare dalla storia e immaginare un futuro diverso”. A occhio, gli scienziati promettono molto di più di una semplice – si fa per dire, ovviamente – cura per l’alzheimer, promettono di mappare, quindi di controllare e soggiogare per nobili scopi, le funzioni che ci rendono essenzialmente umani. Studiano il cervello, gli scienziati che inseguono il mito di questa generazione, ma in realtà vanno a caccia della mente. Fanno affermazioni forti, gli scienziati, enunciano propositi con implicazioni antropologiche e metafisiche di un certo rilievo, non parlano come semplici speleologi delle sinapsi, minatori che scavano per mappare la parte materiale dell’organo che esibisce sporgenze immateriali. Per addentrarsi nei meccanismi dell’intenzione, della libertà, del linguaggio, dell’apprendimento, di “ciò che ci rende umani”, i ricercatori devono muovere da un assioma non giustificato, che lasciano dunque nel reame dell’implicito, questo: il cervello e la mente coincidono. Se è vero questo, significa che nei meandri delle funzioni cerebrali si trova, si può trovare, tutto ciò che definisce l’umano. Magari le singole funzioni non si potranno isolare, osservare in modo chiaro, controllare e influenzare, ma l’importante qui è l’affermazione qualitativa a monte, l’identità fra cervello e mente. Non sfugge l’antropologia meccanicista che si agita dietro alle promesse di cure per malattie terribili e altri traguardi che giustamente chiamiamo “progresso”, ma una cosa è lanciare un progetto di ricerca medica, un’altra è promettere di raggiungere “ciò che ci rende umani”. La ricerca sul codice genetico non ambiva a sfondare la dimensione materiale dell’umano, mentre l’iniziativa sul cervello ha diramazioni che interrogano sul senso dell’essere umano, ma la risposta è già implicita nella domanda. Ogni generazione ha l’impresa scientifica che si merita.


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