La variabile impazzita del talento non piace alle giovani generazioni ossessionate dall'uguaglianza

    New York. Il talento non esiste, dice l’uomo contemporaneo. Non c’è una qualità innata all’origine di una grande composizione musicale, di un quadro, di una strategia scacchistica, di una poesia ben costruita, soltanto applicazione e duro lavoro, non è un caso se con l’aiuto di un software non particolarmente sofisticato si passa agevolmente il test di Turing. Il talento non esiste, è un flatus vocis, il rifugio furbesco dell’allievo violinista che il sabato pomeriggio preferisce le vasche in centro al solfeggio e dei compagni più resilienti dice: “Eh, ma loro hanno talento”. Dovrebbe saperlo – e forse in fondo lo sa – che il talento non esiste. Me lo ha detto anche la fotografa Olivia Bee in un’intervista pubblicata in queste pagine la settimana scorsa. Lei ha ventun anni, ma è da quando ne ha quindici che tutti i brand del mondo la cercano per le loro campagne. Talento? Figurarsi. Solo passione e un’incredibile tenacia, notti insonni in camera oscura, rinuncia totale alla giovinezza bella e spensierata per inseguire la perfezione professionale. E’ impossibile arrivare a una certezza scientifica sull’esistenza o meno del talento (a meno che non si trovi uno scienziato estremamente talentuoso, ma si cadrebbe nella petizione di principio) ma le giovani generazioni, ossessionate dall’idea dell’uguaglianza, preferiscono generalmente pensare che non esista. Il talento è una pietra di scandalo inammissibile, significherebbe ammettere che ci sono doti innate sulle quali l’individuo non ha alcun controllo, oppure – scandalo supremo – ci sono individui che le doti innate non le hanno, e non ci sarà duro lavoro né preparazione che li porterà al top della disciplina. Circola da una quarantina d’anni la teoria delle “diecimila ore”, l’idea che applicandosi per diecimila ore in una certa attività si possa arrivare a padroneggiarla. Malcolm Gladwell, scienziato sociale divulgativo sempre interessante e pedante, ha rimodellato e reso digeribile la teoria per il suo libro “Outliers”, una rassegna di storie che potrebbero essere usate per un corso di self-help.
    Si scopre, fra le altre cose, che Mozart non era poi così geniale come lo dipingiamo. C’era l’influsso del padre, le moli di lavoro incredibili, le opere che non sono sempre farina purissima del suo sacco, ma anche il contesto musicale in cui era immerso. Non che Gladwell elimini completamente il talento dall’equazione. La sua formula è: “La conquista è talento più preparazione”. Significa che in diecimila ore non si diventa Mozart, ma ci si può avvicinare parecchio. Dire che il talento non esiste è anche un modo per dare una qualche parvenza di realtà a quell’animale mitologico che si chiama “meritocrazia”, parola terribile e concetto impalpabile. Il mondo meritocratico può esistere soltanto se tutto o molto della riuscita di un individuo dipende dalla sua capacità di applicazione, non da un dono che ci si ritrova dentro chissà perché.

     

    Il genio, ma soprattutto il merito

     

    L’introduzione della variabile impazzita del talento fa sballare il calcolo della meritocrazia, introduce un elemento di ingiustizia antropologica inaccettabile, quindi ci si sente meglio se di fronte a un quadro di Picasso si pensa a quante notti ha sudato con la tavolozza in mano per arrivare a quel risultato e si ricaccia in gola l’esclamazione istintiva “che genio, che talento!”. Tutti amano le storie dei grandi scrittori i cui capolavori sono stati rifiutati per anni dagli editori, gli artisti incompresi che ce l’hanno fatta per forza di volontà, non per patrimonio genetico o ispirazione divina. Se il genio te lo ritrovi dalla nascita, dove sta il merito? E chi non ce l’ha come fa a scalare i gradini della società? E’ più semplice dire che il talento non esiste, che non c’è alcuna chiamata o vocazione, soltanto leggere inclinazioni che spiegano in minima parte l’emergere di un genio. Il talento non esiste, si dice, per convincersi che nulla di ciò che c’è non possa essere ricondotto alla volontà individuale, alla disciplina, alla tecnica, allo sforzo titanico di un sé che non ammette altri attori sulla scena.