Parlare del meraviglioso disco di Sufjan Stevens è difficile perché si ribella alla dittatura dell'ironia

    Dicono che Sufjan Stevens abbia cancellato tutte le interviste programmate per l’uscita del nuovo disco, "Carrie & Lowell", a fine marzo (e ascoltabile qui). Forse perché la prima che ha concesso, a Pitchfork, l’ha mandato in uno strano stato di paranoia emotiva nel quale non vorrebbe ricadere. Forse perché non è la persona più prevedibile e lineare che sia apparsa nell’emisfero boreale negli ultimi decenni, e magari ha già cambiato idea. Forse chissà. (Update: s'è concesso, con ottimi risultati, a Dave Eggers). Sta di fatto che l’intervista è molto intima e toccante, principalmente perché sono molto intime e toccanti le cose di cui Stevens parla nel suo disco, che porta il nome dei genitori, o meglio della cosa che si avvicina di più all’idea di genitori nella vita affettivamente complicata del cantatutore di Brooklyn.

     

    Carrie lo ha abbandonato quando aveva un anno. Era schizofrenica, bipolare, si drogava, beveva e tutto il resto. Anche il padre naturale, Rasjid, era alcolizzato, e quando ha iniziato ad andare agli incontri degli alcolisti anonimi portava con sé anche i figli, per avere sostegno nell’affrontare il percorso in dodici fasi per uscire dalla dipendenza. Quando Stevens aveva cinque anni Carrie s’è imbarcata in un altro matrimonio che sarebbe durato cinque anni, con Lowell, che adesso è il manager di Asthmatic Kitty, l’etichetta di Stevens. Lui, cresciuto in Michigan, non aveva molti rapporti con la madre, se non per quelle estati passate in Oregon, e lei era schizofrenica, bipolare, si drogava, beveva e tutto il resto, ma era sua madre. La sua morte, due anni fa, è stata un’esperienza “devastante per il vuoto che ha lasciato dentro di me”, per le domande senza risposta, per i ricordi che non ci sono, per il “terrificante incontro con la morte”. Ma lì al capezzale di Carrie, in terapia intensiva, Stevens ha sperimentato anche l’amore, che è “incondizionato e incomprensibile”, non lo puoi misurare o manipolare, non è uno scambio alla pari.

     

    Da questa storia è venuto fuori un disco che non c’entra niente con alcune digressioni sperimentali del passato. C’è solo chitarra acustica e voce, qualche accenno di pianoforte, un condizionatore in sottofondo nelle canzoni che ha registrato d’estate. C’è tanto amore, tanto dolore, tanta nostalgia, tanta preghiera, tanto sangue, tanti personaggi “ubriachi come calabroni”, tante domande, c’è il “God of Elijah”, un passaggio della canzone “Drawn to the Blood”che ci si ritrova a canticchiare la mattina presto. Quello che non c’è, e che rende questo disco importante – e forse troppo poco sofisticato per i sofisticati fans di Stevens – è l’ironia. Che non c’entra nulla con l’umorismo. Non c’è ironia nel senso che non c’è un secondo livello di lettura, non c’è una copertura, non c’è un sotterraneo sistema di meta-citazioni, non ci sono trabocchetti tipo “indosso la maglietta di Katy Perry ma in realtà è uno scherzo”, non ci sono trovate argute che solo gli ascoltatori più versati intellettualmente possono cogliere. Vale anche qui quello che il filosofo Stanley Fish scriveva a proposito del film "Les Misérables", massacrato dalla critica americana perché esponeva temi e sentimenti in modo diretto, senza retropensieri: “L’artista che impiega l’ironia mette alla prova la sofisticazione del suo pubblico, dividendolo in due parti, quelli che sanno e quelli che vivono in un paradiso per sciocchi”.

     

    L’hipster ha posto “sfottere la cultura hipster” fra i primi comandamenti del suo decalogo ideale, per esercitare una reductio ad absurdum di qualunque sfottò, una forma di autodifesa che finisce per tenere tutte le cose a distanza. Così la vita, la morte, i miracoli, l’amore, i sentimenti, le domande, i problemi irrisolti e insolubili non colpiscono mai direttamente, ma sempre dopo il rimbalzo sullo schermo dell’ironia, restituiti con un filtro di instagram. Ecco, "Carrie & Lowell" è libero da questo giogo, arriva diretto anche alle orecchie inesperte, i grandi temi dell’esistenza che Stevens evoca appaiono senza filtro e senza il minimo senso che sia soltanto una grande provocazione, genere “vi vomito addosso la morte di mia madre per dirvi che tutto fa schifo”. Per questo il disco è meraviglioso e allo stesso tempo doloroso, e forse è anche doloroso parlarne per chi lo ha scritto.