Come fare bella figura in salotto senza necessariamente sapere quel che si dice

Il chilometro zero

Andrea Ballarini

Una delle definizioni più abusate. Se la detestate, ecco dei luoghi comuni di pronto impiego.

- Ha rotto le balle

 

- Apprezzare l'idea di marketing, ma non sopportare l'aria di superiorità intellettuale con cui vendono gli asparagi. (Vedi seguente)

 

- Chiedere con piglio sociologico se i seguaci del chilometro zero siano gli autentici eredi della spocchiosità di certe frange ad alto reddito della sinistra intellettuale d'antan. Concluderne che in tempi postideologici concetti come destra e sinistra sono superati; pasta e fagioli, invece, godono ancora di ottima salute.

 

- Di tanto in tanto ricordare che, al netto di tutte le considerazioni ideologiche, la mozzarella di Paestum è infinitamente migliore di quella del caseificio politicamente corretto che sta a soli venti chilometri da casa, e quindi, che il chilometro zero si impicchi pure. (Vedi seguente)

 

- Citare provocatoriamente uno studio del 2007 che ha calcolato che se si fanno dieci chilometri in auto per andare a comperare un chilo di verdura, si genera più CO2 che non facendola arrivare direttamente dal Kenya.

 

- Nelle botteghe a chilometri zero (ma anche in quelle biologiche) parlare a un tono di voce normale è considerato un'inqualificabile cafonata: bisogna sempre sussurrare come certe attrici impegnate del cinema italiano. Deplorare.

 

- Alcuni ristoranti politicamente corretti ci tengono a scrivere sul menù che tutti i prodotti con cui sono preparati i loro piatti provengono dal loro orto. Se se la tirassero un po' meno sarebbero più simpatici. Convenirne.

 

- Épater le bourgeois spiegando che l'acqua minerale è il prodotto più inquinante del mondo. Non addentrarsi in spiegazioni tecniche, parlare in generale della quantità di energia che serve per trasportarla da dove sgorga a dove viene consumata.

 

- Di questi tempi si porta molto l'acquisto con i colleghi d'ufficio presso il contadino di fiducia della cassetta di verdure settimanale. Finire per mangiare grandi quantità di ratatouille e minestroni anche ad agosto per non doverle buttare.

 

- Al solo udire la parola "filiera", specialmente se usata in modo espressionistico (la filiera del libro, la filiera culturale ecc.), coprirsi di un eritema devastante.

 

- Deprecare che il chilometro zero sia un lavoro a tempo pieno che non ammette distrazioni: se hai comprato la lattuga e per qualche ragione non si riesce a mangiarla la sera stessa, l'indomani nel frigo se ne trova la sindone. Convenirne.

 

- Perché mai si è cominciato a dire "chilometro zero", al singolare, invece di, come sarebbe giusto, "a chilometri zero"? Far partire un estenuante pippone sulla volgarizzazione del pensiero in tempi di massificazione pseudoculturale.

 

- Citare con apparente competenza uno studio del Defra, il ministero dell'Ambiente e dell'Agricoltura britannico, secondo il quale il 48 per cento del chilometraggio percorso da un prodotto alimentare deriva dal consumatore finale, quindi un indicatore basato solo sullo spazio percorso non può essere una misura attendibile dell’impatto ambientale totale. Posizione provocatoria che lascia intendere come non vi accontentiate della vulgata. Valutare se concludere con un più pop: "E quindi, de che stamo a parla'?"

 

- Parlare di "food miles" fa capire che in materia non siete venuti giù con la piena.

 

- Le mele della grande distribuzione, saranno anche velenose come quella della matrigna di Biancaneve, ma dal punto di vista estetico non c'è gara. Auspicare l'avvento di uno Steve Jobs del chilometro zero che rifondi l'estetica delle mele genuine.

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