Il palazzo degli artisti

Giuseppe Fantasia

Foto, sculture, installazioni d’oggi accanto alla collezione permanente: una mostra in fila all’altra nell’antica residenza dei Collicola, a Spoleto. I lavori di Camilla Ancillotto, la sorpresa Pincio

Un pomeriggio d’estate a Spoleto, nel cuore dell’Umbria più verde. Il caldo la fa da padrone, ma basta entrare a Palazzo Collicola Arti Visive per trovare un’aria che rigenera e appaga anche i sensi più pigri, un vento di novità, di coraggiose e interessanti proposte. Il merito va tutto a Gianluca Marziani, critico e curatore d’arte contemporanea che dal 2010 ne è direttore artistico grazie a Vincenzo Cerami, “un impegno che porto avanti con la stessa passione e lo stesso entusiasmo che avevo il primo giorno”, spiega al Foglio. Da sette anni è il maître à penser – e per un giorno nostra guida d’eccezione – in quello che fu uno degli edifici gentilizi più importanti della città, realizzato tra il 1717 e il 1730 dall’architetto senese Sebastiano Cipriani, già residenza della famiglia Collicola che proprio lì, in quelle stanze impreziosite da dipinti e arazzi, ospitò grandi “star” di quegli anni, da Carlo di Borbone a Papa Pio VI, fino a Carlo Emanuele IV re di Sardegna. Nel giro di poco tempo, Marziani ha deciso di rivoluzionare a suo modo quel palazzo partendo proprio dai suoi pregi filologici, dalle sue peculiarità iconografiche e dai connubi con i privati, coinvolgendoli in un processo in continua evoluzione, plasmando un nuovo assetto espositivo con allestimenti più rigorosi e connettivi al fine di invitare il pubblico a una rinata empatia. Una gran bella sfida muoversi tra piani restaurati, un appartamento nobile con mobilio e pinacoteca, una collezione contemporanea di pregio e diverse dislocazioni scenografiche, ma alla fine è stato lui ad avere la meglio e il risultato è un vero e proprio viaggio emotivo, una narrazione assonante tra memoria e futuro.

  

Tutto inizia dal basso, dal grande cortile (l’Oasi Collicola) che Marziani ha “occupato” con “Octetra”, la scultura di Isamu Noguchi con i dadi rossi, il cuore pulsante di quegli spazi, un propulsore sensoriale che calamita lo sguardo, invita al gioco interattivo e a una relazione fisica con l’opera. “E’ una lezione d’approccio e metodo per considerare la scultura come prolungamento iconico di noi stessi, un magnete emotivo che accende le idee e stimola viaggi da fermi, oltre a sogni a occhi aperti e a vertigini della fantasia”, tiene a precisarci questo eterno ragazzo dell’arte che colpisce con le sue parole e con il suo look, un piacevole mix di idee tra Raf Simons, Armani e Martin Margiela d’antan, un dark man e college boy insieme con sneaker all’ultimo grido ai piedi e un numero indefinito di anelli su entrambe le mani (“sono tutti d’autore – ci confida – ma il più prezioso è il primo, quello che mi ha regalato mia moglie Elena”). In quel parco urbano a ingresso gratuito che è il cortile, troverete una costellazione plastica di sculture ad alto potenziale interattivo, opere firmate, tra gli altri, da Marco Piersanti e Marcello Maugeri, da Vincenzo Pennacchi e Alexander Calder, Beverly Pepper e Arnaldo Pomodoro, Sol LeWitt e Stephen Cox, “un cammino fisico tra le sculture del 1962 e altre arrivate nel corso degli anni – aggiunge – stazioni plastiche che ampliano la dimensione capillare della collezione a conferma di una tensione ‘liquida’ che alimenta la radice diffusa del museo”. Restando sempre al piano terra, vicino al bookshop – che se fossimo in Inghilterra sarebbe sfruttato ancora di più – c’è il museo storico della Collezione Collicola che dal 2010 è intitolato alla memoria di Giovanni Carandente, storico dell’arte e direttore onorario della galleria scomparso otto fa, cui è dedicata la biblioteca che conta migliaia di libri e cataloghi, omaggiato nel primo ritratto che Alexander Calder realizzò in suo onore. Degne di nota, le sculture di Leoncillo Leonardi e le sei realizzate nel 1963 da Pepper, le fotografie di Ugo Mulas, le opere colorate di Carla Accardi, il suggestivo balcone in legno di Mario Ceroli come alcune delle opere più significative del minimalista americano Sol LeWitt, oltre ai luminosi campi di Shay Frish, artista israeliano che modella e manipola l’energia attraverso la costruzione di campi elettrici, dei veri e propri assemblaggi sequenziali composti di adattatori di uso comune che danno forma all’energia e luce per rivelare l’invisibile.

  

Prendete le scale per salire al primo piano e soffermatevi ad ammirare da vicino le opere di “Collicola on the Wall”, visioni inaspettate che prendono forma sulle pareti del palazzo, un intervento murale di diciotto artisti che va a integrarsi alle strutture storiche del museo, entrando così nel circuito biologico di un luogo tra memoria e sperimentazione. Da non perdere “I paesaggi della mente” dell’abruzzese Alberto Di Fabio – che mostrano al meglio la sua pittura immaginifica e di raffinata costruzione – e il “Social Cube” del romano Danilo Bucchi, capace di fondere la sintesi orientale del disegno con lo spirito denso della pittura occidentale per creare quel modulo geometrico – già simbolo di quel palazzo settecentesco – con forme semplici e universali, slegate da ogni tipo di vincolo spazio-temporale. Al piano nobile, di fronte a tanta bellezza, noterete che sotto i soffitti a cassettoni, nel Salone gentilizio come nella Sala degli specchi e vicino al fregio con figure allegoriche del XVII secolo, ci sono i lavori di Camilla Ancilotto, “dei puzzle pittorici dalle molteplici chiavi compositive”, spiega Marziani. Il codice mobile dell’artista romana è il suo marchio autografo, figure allegoriche e mitologiche che s’ibridano con animali di varia provenienza come pappagalli, giraffe, calamari, piovre e iguane che – nell’insieme – creano un mondo di energia in azione e nuovi confini in questa mostra intitolata “Mutaforma” e inserita nel programma ufficiale del 60esimo Festival dei Due Mondi. “Girando i singoli parallelepipedi o altre forme geometriche su un asse – ci dice la nostra guida – si completa una singola immagine o si mescolano assieme immagini diverse”. In tal modo si crea un’interazione in cui il fruitore potrà cambiare l’ordine sequenziale ed entrare nel principio dinamico del pensiero originario, completando un’opera dalla natura misteriosa e alchemica che richiede azioni manuali, tattilità e immaginazione attiva.

  

Al piano mostre, un’antologica è dedicata al padovano Giuseppe Biasio, una riscoperta nel solco della tradizione informale del museo, un artista in fase di rivalutazione che presenta il suo universo dagli anni Settanta a oggi. E’ un pittore che non si può chiudere in un genere e che resta saldamente fuori dalla dicotomia astratto/figurativo, “una biologia interna ad alta frequenza mediale la sua”, precisa Marziani, “una specie di scandaglio che preleva scarti dagli strati solidi del pianeta”. A Giuseppe Ripa è dedicata “Home Ground”, nove foto a colori dalla serie “Seaside”, uno dei cicli più impegnativi per l’autore. Si tratta di un viaggio a tappe lungo le coste del paese, su quella linea di demarcazione che sta assumendo connotati umanitari di ampia portata sociale e il suo è un invito a riflettere sul senso di comunità e dello stare insieme. Sempre di Ripa, “Forgetful & Forgotten”, otto foto a colori visitabili fino all’8 ottobre che si distribuiscono lungo il telaio della Spoletosfera, capolavoro di Buckminster Fuller, donato dall’autore alla città nel 1967, lo stesso anno in cui Carandente realizzò la celebre mostra “Le strutture di Fuller: 40 anni di ricerca architettonica”. “Forgetful & Forgotten, dimentichi e dimenticati, sono i migranti e i terremotati che hanno perso la memoria del loro passato e non si riconoscono nella precarietà del loro presente”, ha spiegato Ripa.

  

Spostandovi nella sala vicina, troverete il ciclo pittorico dello scrittore Tommaso Pincio, una vera sorpresa per definire nuove relazioni tra letteratura e arte visiva. Se nel suo libro più conosciuto, “Scrissi d’arte” (L’Orma Editore), Pincio raccoglieva e commentava gli scritti d’arte elaborati nell’arco di una vita, in questa sua prima mostra, intitolata “Sfere celesti” (visitabile fino al 24 settembre), si concentra sul ritratto, su uomini e donne della cultura italiana che per la maggior parte sono suoi amici o buoni conoscenti, da lui disegnati e dipinti su una tavola dall’imprimitura rossa, rivestita di un fondo di foglia d’oro. La sfera celeste è per Pincio un luogo di transito e di confine, “una stanza immaginaria di dimensioni variabili alle cui pareti sono appesi i ritratti di tutte le persone vive o defunte che è possibile conoscere direttamente o indirettamente, anche solo di sfuggita, nel corso di un’esistenza in vita”. I ritratti appesi alle pareti tracciano la mappa dell’al di qua, del tempo in cui le nostre esistenze in vita si manifestano, e dorati come icone sembrano staccarsi dalle pareti riflettendo sul bianco un’aureola colorata.

  

Prima di andare via – dopo aver percorso la sala principale che negli ultimi giorni ha ospitato gli “Incontri di Paolo Mieli”, un format del gruppo Hdrà a cura di Maria Carolina Terzi, Maddalena Maggi e Paolo Giaccio (tra gli ospiti, Teresa Ciabatti, Pif, Camilla Baresani, Edoardo Nesi e Vincenzo Barone, direttore della Scuola Normale di Pisa) – non si può perdere un’altra tappa “targata” Marziani. Facendo la lunga salita in direzione Duomo, arriverete alla Casa Romana dove sono in scena – fino al 24 settembre – le “Sculture da viaggio” di Dario Ghibaudo, opere realizzate in porcellana con la tecnica del modellato, pezzi unici impossibili da replicare dove tutto è giocato nelle dimensioni intime di mutazioni continue e di approccio reinventato. Le sue – tranne il meraviglioso cervo all’entrata che domina sui pavimenti a mosaico – sono sculture portatili, animali ibridi in cui il plausibile e l’impossibile si fondono insieme. Quella di Ghibaudo è un’affascinante attitudine al fiabesco che si trasforma in zoologia speculativa tra ipotesi scientifica e veggenza intuitiva, un vero e proprio museo di storia innaturale capace di offrire protezione sicura agli animali in porcellana e di custodire il loro segreto genetico, stabilendo un equilibrio ambientale e regolando il presente sul tempo lungo dell’archeologia.