Il generalissimo francese Joffre ed il generale Cadorna visitano il fronte: un’illustrazione di Achille Beltrame per la Domenica del Corriere

La tragedia raccontata dai bollettini

La Grande Guerra e la gelida lingua dei generali

Mirko Volpi

Una prosa surrealmente compassata, in cui non si scorge nessuna ora solenne, nessun appello al sacrificio. La lotta è sempre aspra, le perdite del nemico gravi e sensibili. Cadorna, Diaz e la svolta dopo Caporetto

Spesso in Italia, anche adesso, nel pieno delle celebrazioni per il centenario, ci si dimentica che – nonostante il milione e passa di morti, le perdite devastanti, Caporetto, il dopoguerra di macerie e incertezze che drammi ancor peggiori avrebbe partorito, e la nostra inestirpabile, voluttuosa tendenza a dipingerci come inetti imbelli – la Grande guerra, in un modo o nell’altro, l’abbiamo vinta anche noi, accanto alla Francia, all’Inghilterra, agli Stati Uniti. Né, pare, basta a farcelo ricordare quella data fatidica, il 4 novembre, il Giorno della Vittoria: un tempo, fino al 1976, era festivo, non si andava nemmeno a scuola; oggi invece è un giorno come un altro – solo i più attenti notano che qualche corona di fiori (prima delle sobrie celebrazioni domenicali) è spuntata ad adornare i solitamente ignorati monumenti ai caduti.

 

Eppure, a cercare di farcene quotidianamente memoria, eccole, loro, bronzee o marmoree, affisse in tutti i municipi, le caserme, le scuole del paese, le lapidi con inciso il testo del Bollettino della Vittoria “firmato Diaz” consacrano, anzi letteralmente monumentalizzano l’evento rimosso, l’esito vittorioso di tre anni e mezzo di conflitto partito in quel maggio radioso mentre altre, più fredde e bolse parole raggiungevano l’Italia in armi e in borghese – quelle cioè del Proclama con cui il re Vittorio Emanuele III dichiarava guerra all’Austria-Ungheria (e allora “l’ora solenne”, la “sicura fede nella vittoria”, il nemico mai chiamato per nome, il richiamo inerziale ai “termini sacri”, ai “nostri padri”, quasi un senso di sabaudo e poco risorgimentale distacco, incauto prodromo retorico ai più prosaici macelli che ci attendevano sulle “aspre giogaie”, sulle “ripide balze”).

 

Il celeberrimo documento steso (o fatto stendere) dal generale Armando Diaz è soltanto l’acme, ma linguisticamente un poco ingannevole (vedremo perché), di una lunga teoria di bollettini ufficiali del Comando supremo del Regio Esercito Italiano, circa 1.300, che quotidianamente hanno raccontato la guerra italiana sui vari fronti (anzi, come allora si diceva, le fronti). Raccontato, sì, ma come? Sintetizza lo storico militare Nicola Della Volpe: “Per alcuni mesi, le scarne notizie diffuse attraverso i bollettini furono l’unica fonte ufficiale offerta ai mezzi di informazione. Manipolati per necessità all’origine, per evitare di divulgare preziose informazioni militari o per sottacere notizie che potevano influire sul morale della nazione e dei combattenti, i bollettini furono oggetto delle più disparate e fantasiose interpretazioni da parte della stampa, che d’altro canto non possedeva molto altro materiale per informare i propri lettori sugli avvenimenti di guerra”.

 

Oscurati i fatti, ai giornali non restava altro che rifugiarsi nella retorica dell'eroismo, delle gesta vittoriose, delle accanite resistenze

La natura costituzionalmente omertosa e manipolatoria di questi testi, dunque, ne spiega, inquadra e giustifica la funzione eminentemente propagandistica, nonché appunto, in regime di censura militare, le ricadute sulle cronache dei giornali, ai quali, oscurati completamente i fatti, non restava altro da fare che rifugiarsi nella retorica dell’eroismo, delle gesta vittoriose, delle accanite resistenze al nemico, del sacrificio e della patria.

 

Se immaginassimo una storia senza fonti, né scritte né orali né materiali, come se ogni traccia di ciò che fu fosse andata per sempre perduta, e provassimo a ricostruire l’andamento della Prima guerra mondiale solo attraverso questi resoconti giornalieri prodotti dal Comando supremo e firmati col nome del capo di stato maggiore (prima Luigi Cadorna, poi, dal 9 novembre 1917, Armando Diaz), ci troveremmo di fronte a un’ingente massa di documenti tanto all’apparenza dettagliati (nomi, date, numeri gettati a manciate in poche righe di testo) quanto fuorvianti, non decrittabili: a una fatale insolubilità di ogni nodo, di ogni fase del conflitto. Quasi inconoscibili le sorti dei singoli scontri, dei singoli attacchi, delle singole offensive; impossibili da colmare, nonché persino da individuare nella loro effettiva consistenza, le lacune della narrazione, della descrizione, molto spesso minimamente rilevata, dei nudi eventi militari.

 

La lettura continuativa di queste centinaia e centinaia di bollettini risulta un esercizio a dir poco ipnotico. Io l’ho fatto, per due mesi, li ho letti tutti, riga per riga, parola per parola, finendo irretito in un vischioso linguaggio che si dipana tra il telegrafico, il burocratico e il celebrativo-propagandistico, sommerso a poco a poco da grappoli di passati remoti, di avverbi scontati, da selve di “tiri efficaci di artiglieria”, di “intensi movimenti” nelle retrovie, da torme di squadriglie in ricognizione, di velivoli che rientrarono incolumi”, da cumuli di nomi di monti, valli, fiumi, sperdute località oggi slovene, fronti che credevo noti e facilmente geolocalizzabili e che invece stingevano malignamente, fino a confondersi gli uni negli altri, nella martellante ripetitività del referto bellico fintamente neutro, oggettivo, cronachistico.

 

Un esempio per tutti, all’inizio della guerra, il testo integrale del bollettino del 10 ottobre 1915:

 

Il nemico va esplicando grande attività in lavori di difesa e stradali, assai disturbati, però, dal fuoco efficace delle nostre artiglierie e da ardite irruzioni di piccoli reparti. Lungo la fronte dell’Isonzo, nella giornata del 9 e nella successiva notte sul 10, dopo intensa preparazione con fuoco di artiglieria e lancio di bombe a mano, le forze nemiche assai numerose tentarono attacchi contro le nostre posizioni sulla destra dello Slatenik nella conca di Plezzo, sul Mrzli nella zona del Monte Nero, a Dolie nel settore di Tolmino, a Plava e a Zagora sul medio Isonzo. Ovunque l’avversario fu respinto con gravi perdite e lasciò anche alcuni prigionieri.

E poi ancora, sempre, invariabilmente, sequele di frasi come: “Lungo tutta la fronte grande attività di artiglieria”; “Sul Carso azioni varie di artiglieria”; “Sulle fronti tridentina e carnica brevi e poco intense azioni d’artiglieria e limitata attività di pattuglie”. Oppure, nelle giornate di magra, frequenti i moduli come: “Nulla di notevole da segnalare” o “Sul rimanente della fronte nulla da segnalare”, e ancora: “Sul Carso nessun avvenimento di speciale importanza”; “Lungo la rimanente fronte situazione invariata”; eccetera, eccetera.

 

Stordito da frasi sempre uguali, da ricorrenze nominali e aggettivali cui finivo sinistramente per affezionarmi, ne riemergevo di tanto in tanto con la sola certezza di non aver compreso quasi niente. Obnubilato da quella spessa, uniforme patina – quasi che davvero avessi perduto memoria di quel poco di storia che conoscevo e mi dovessi arrangiare in qualche modo tra quegli sfingici comunicati – mi sorprendevo a domandarmi: ma qui stavamo vincendo o soccombendo? A noi, non ci ammazzano? Non ci fanno prigionieri? Cosa succede davvero sul Carso?

 

Una massa di documenti tanto all'apparenza dettagliati quanto fuorvianti: quasi inconoscibili le sorti dei singoli scontri

La minutaglia narrativa cui con somma attenzione si dedicavano gli estensori dei bollettini non permetteva certo di inquadrare la situazione nel suo insieme, gli sviluppi delle strategie, gli avanzamenti, gli arretramenti, le conquiste o le perdite dopo le battaglie isontine, le reali posizioni in campo, la serpentina linea del fronte tracciata dalle trincee. Ma dietro l’ufficialità dei testi, a chi parlavano davvero i bollettini? Per chi erano scritti? Certo non per i militi, che per lo più li ignoravano, come documenta, tra gli altri, un testimone d’eccezione come il caporale Benito Mussolini, che così annota nel suo diario, il 29 ottobre 1915: “I miei commilitoni ignorano completamente le vicende e i successi dell’offensiva italiana sugli altri punti del fronte”.

 

I bollettini di guerra, infatti, si possono considerare (anche) dei veri e propri testi di propaganda – testi cioè destinati a condizionare, in particolare, il cosiddetto fronte interno nella percezione dell’andamento della guerra (enfatizzando l’esito di tutte le nostre azioni, minimizzando le difficoltà, tacendo le disfatte), e quindi collocabili a pieno titolo accanto alle cartoline, ai manifesti, ai giornali di trincea, agli opuscoli, alle locandine, alle foto e alle opere cinematografiche, insomma a tutto quell’apparato cui sovrintendeva, in special modo dopo Caporetto, il cosiddetto Servizio P. L’impressione è appunto che queste informazioni passassero oltre le teste dei militi per raggiungere soltanto la classe politica e l’Italia in borghese.

 

C’è una cosa, però, che al netto della natura per forza di cose ultra-ufficiale di tali testi li distingue in maniera decisa da quelli a tutti gli effetti propagandistici: cioè quell’acceso, enfatico armamentario linguistico-retorico così usuale negli scritti degli interventisti e nelle cronache giornalistiche, che nei quotidiani dispacci militari si manifesta invece in forme attenuate, sbiadite, trattenute. E’ come se l’operazione informativamente elusiva e depistante messa in atto dal Comando supremo con i bollettini dovesse passare comunque attraverso uno spiccato controllo formale, una medietà espressiva che, forse, avrebbe garantito ulteriore autorevolezza alle notizie in tal modo divulgate.

 

In buona sostanza, non si scorge nessuna ora solenne e nessun momento fatale, nessuna fede nei destini della Patria, nessun secolare nostro nemico da vincere in radiose giornate; non si legge nessun appello al sacrificio, al dovere, all’onore; nessun cenno alle magnifiche virtù della razza italiana, alla santa causa di liberazione, a Trento e Trieste, alla gloriosa storia dell’Italia. Il vocabolario più marcato, nei bollettini, è anche il più scontato e si appunta principalmente sulla quotidiana messa in rilievo del fermo valore dei nostri militi. Così i nostri soldati sono sempre arditi o valorosi, le azioni brillanti ed efficaci, le offensive vigorose, la lotta aspra e accanita, le perdite nemiche gravi e sensibili. Il minimo retorico sindacale, insomma, a condire i quotidiani occultamenti.

 

Eppure, a volte, tra le increspature del conflitto e le anse della narrazione che ne edulcora le vicende, qualche breccia si apre. Involontaria, magari, come nelle prime, forse confuse settimane di guerra, quando gli uffici preposti (e il Comando stesso) non si erano ancora ben calibrati sulle necessità e le urgenze della comunicazione in tempo di guerra: e allora càpita che si fornisca addirittura l’esatto resoconto dei nostri caduti. Proprio il bollettino del primo giorno di battaglia, il 24 maggio 1915, riporta: “Perdite nostre: un morto e pochi feriti”; o il 27: “Le perdite nostre: morti 4 di truppa, feriti un ufficiale e pochissimi uomini di truppa”; o il 19 giugno: “Le perdite nostre sono gravi, ma i risultati sono importanti”. Comunque troppo, nonostante le blande attenuazioni. L’irrinunciabile prospettiva anti-disfattista imporrà subito il silenzio (benché questo, lì per lì, avesse destato nel paese non poche preoccupazioni): dal settembre del ‘15, nei bollettini troverà spazio solo la macabra conta dei morti e dei prigionieri nemici.

 

Ma è solo in pochi e assai circoscritti casi coincidenti con snodi cruciali del conflitto – e dico quelli impossibili da censurare, da obliterare integralmente anche da parte dei vertici militari, quelli la cui portata storica si era avvertita nel momento stesso del suo farsi, del suo cruento manifestarsi – che gli umbriferi prefazi della verità sgusciano dalla prosa dei bollettini, quella prosa che durante i momenti di massima difficoltà per l’esercito italiano tende vistosamente a minimizzare sconfitte e sanguinosi arretramenti, quando non a passarne clamorosamente sotto silenzio gli aspetti più drammatici. Tra le serie di testi emblematicamente ma vanamente omissivi, il mesto posto d’onore non può che spettare alla disfatta di Caporetto (ottobre-novembre 1917).

 

Un linguaggio che si dipana tra il telegrafico, il burocratico e il celebrativo-propagandistico. Grappoli di avverbi scontati

La gravità della rotta in atto filtra inesorabilmente tra le righe dei brevissimi bollettini di quei terribili giorni la cui asciuttezza espositiva e terminologica non riesce del tutto a oscurare l’avvicinarsi della tragedia. Né i consueti cenni al valore dell’esercito e a parziali, lateralissimi risultati positivi, né i neutri resoconti delle attività in altre zone del fronte, né la cronaca fredda e poco connotata dei progressi austriaci, sanno ridimensionare la sensazione (che a cent’anni di distanza si rinnova angosciosa a ogni lettura) dell’incombente disfatta finale.

 

Si leggano allora questi brani, relativi ai giorni della battaglia e del ripiegamento dietro la linea del Piave, i giorni della dispersione delle genti. Si leggano in serie, lentamente, considerando con freddo pathos i minimizzanti tecnicismi militari (“ripiegamento”), le pietose bugie (“L’urto nemico ci trova saldi e ben preparati”: 24 ottobre), ristabilendo col senno e lo studio del poi gli ammanchi, le lacune, gli omissis non segnalati che ci parlano con muta e atroce eloquenza della catabasi dell’esercito italiano. Il diario della guerra assume così, suo malgrado, cadenze che solo una lingua proclive a un militaresco burocratismo salva, senza saperlo, da un facile e quanto mai perdonabile epos.

 

25 ottobre: “La stretta di Saga resisté all’urto nemico, ma […] l’avversario riusciva a superare le nostre linee”.

 

26 ottobre: “Abbiamo ripiegato sulla nostra linea di confine. In conseguenza di tale ripiegamento dovemmo provvedere allo sgombero dell’Altipiano di Bainsizza”.

 

27 ottobre: “Il nemico, superato in più punti la nostra linea di confine tra Monte Canin e la testata dell’Judrio, tenta di raggiungere lo sbocco delle valli. Sul Carso ha intensificato le pressione ed eseguito forti puntate che vennero respinte”.

 

3 novembre: “Nella giornata di ieri il nemico intensificò la pressione presso l’ala sinistra della nostra linea del Tagliamento. Tentativi di irruzione sulla riva destra vennero da noi contenuti”.

6 novembre: “Alcuni tratti di territorio da noi dovuti sgombrare nella zona montana, per necessità di schieramento, furono occupati dall’avversario, dopo il ripiegamento delle nostre truppe”.

 

7 novembre: “Data la scarsa difendibilità del Tagliamento, attualmente in magra, abbiamo ripiegato la nostra linea verso la Livenza”.

  

L’asettico panorama linguistico osservabile nei documenti di questi giorni viene mosso in maniera decisa solo in un’occasione, il 28 ottobre, quando Cadorna (il “generale Carogna”, come veniva chiamato nelle anonime lettere di protesta inviate al Re durante la guerra) firma il tristemente celebre bollettino della Disfatta. Che sono anzi due. Una prima, vergognosa stesura che, benché censurata dal Governo, appare comunque su qualche giornale, in cui il generale imputa la sconfitta alla viltà di parte delle truppe: “La mancata resistenza di reparti della II armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso alle forze austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia”. E poi quella ufficiale, solo un poco più sfumata:

La violenza dell’attacco e la deficiente resistenza di alcuni reparti della 2a Armata, hanno permesso alle forze austroungariche di rompere la nostra ala sinistra del fronte Giulia. Gli sforzi valorosi delle altre truppe non sono riusciti ad impedire all’avversario di penetrare nel sacro suolo della Patria. […] Il valore dimostrato dai nostri soldati in tante battaglie combattute e vinte durante due anni e mezzo di guerra, dà affidamento al Comando supremo che anche questa volta l’esercito, al quale sono affidati l’onore e la salvezza del Paese, saprà compiere il proprio dovere.

“Sacro suolo”, “Patria”, “onore”, “salvezza”, “dovere”: sembrerà strano, ma nessuna di queste parole – così frequenti, abusate, nella letteratura propagandistica – era stata mai usata prima nei bollettini. E’ il sentimento della fine che arma la penna di più sonanti voci? Di certo finisce l’incarico di Cadorna, che viene rimosso pochi giorni dopo. Arriva Armando Diaz. Ma non cambia la prosa surrealmente compassata dei bollettini.

 

9 novembre: “Le truppe continuano ad affluire e ad afforzarsi sulle posizioni prescelte per la resistenza. Le retroguardie e i reparti di copertura proseguono valorosi e instancabili a trattenere l’avversario”.

 

11 novembre: “Sul Piave le nostre truppe di copertura […] passarono sulla destra del fiume” (ed è la prima, impressionante per noi, oggi, menzione del Piave).

 

18 novembre: “Masse avversarie hanno obbligato in qualche punto le nostre truppe a non prolungare la difesa di talune posizioni avanzate che sono state abbandonate con ordinato ripiegamento, dopo accanita resistenza e brillanti contrattacchi”.

 

Quasi non sembra che siamo, eravamo prossimi alla catastrofe: eppure, scorrendo carte geografiche alla mano i comunicati militari, anche il più distratto dei lettori non può non accorgersi che il nemico ci è ormai entrato in casa. Ma l’imprevedibile resistenza delle truppe italiane segna – a un passo dal disastro – il punto di svolta della guerra, che i bollettini ufficiali, ora firmati Diaz, continuano a raccontarci nello stesso modo. Nonostante si inizino a notare alcuni scarti in direzione di un più deciso incremento del tasso retorico (si legga il bollettino del 18 giugno 1918, nel corso della vittoriosa battaglia del Solstizio: “Ciascuno dei nostri bravi che difendono il Grappa ha sentito che ogni palmo dello storico monte è sacro alla patria”), che trova il suo apice nel modo più accentuato e memorabile con l’atto finale del conflitto.

 

Il bollettino del 4 novembre 1918 libera – né la grandiosità dell’evento poteva esigere di meno – una serie di tratti linguisticamente connotati, fino a quel giorno compressi, trattenuti, oscurati, che ne fanno un perfetto compendio di modalità stilistico-espressive debitrici del discorso politico e propagandistico del Risorgimento, arricchitesi poi delle tradizioni nazionalista e socialista primo-novecentesche, con inevitabili elementi di dannunzianesimo:

 

La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re – Duce Supremo – l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse, ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta.

 

La gigantesca battaglia […] è finita.

 

La fulminea arditissima avanzata del 29° corpo d’Armata su Trento […] ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria. […] L’Esercito Austro-Ungarico è annientato […].

 

I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo, risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano discese con orgogliosa sicurezza.

 

Il maestoso Bollettino della Vittoria firmato Diaz era davvero destinato, come è stato osservato, “a entrare nella memoria di molte generazioni di italiani”. Di molte ma non di tutte? Non lo so. Certo quelle lapidi, magari oggi un po’ sbrecciate, scolorite o annerite dallo smog, sono ancora lì, a fare argine, nelle penombre dei centri storici e delle nostre perenni distrazioni, all’oblio.

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