Walter Siti, autore di “Bruciare tutto”, pubblicato da Rizzoli

Il paradiso perduto

Annalena Benini

Walter Siti ha pianto, voleva anche lui “bruciare tutto” dopo le polemiche sul suo nuovo romanzo. Intervista a un uomo che non crede a Dio Padre, non tanto per Dio, ma per il Padre

Walter Siti adesso sta meglio, dice che ha avuto giorni di tristezza e di turbamento mentre i giornali si occupavano di “pedofilia come salvezza”, ha pianto, ha pensato: come è possibile che ho lavorato tre anni per non riuscire a far capire niente? Ma è un uomo strutturato, un critico letterario e uno scrittore serio, ha vinto il Premio Strega, conosce molto bene il mondo che lo usa e poi lo getta e gli chiede con malanimo: “Lei vuole diventare un martire come Pasolini?”, ma à la guerre comme à la guerre, dice, e si fa forte delle lettere che ha ricevuto da molti cattolici, che lo ringraziano per i problemi profondi che questo romanzo solleva, nel confronto fra ragione, morale, desiderio, nel conflitto fra una religione “senza lische, a pronta digeribilità, per questa Bibbia con l’ammorbidente”, e il bisogno di spietatezza (per Leo, il protagonista, “un Dio che non punisce non è un Dio serio; senza angoscia non c’è misericordia, non c’è resurrezione senza condanna”). Sono questioni estreme, sostanziali, che attraversano e sostengono il movimento dei personaggi di questo romanzo, per i quali non c’è salvezza, per i quali “bruciare tutto” è un imperativo di disperazione.

   

"I libri possono avere molte interpretazioni, ma dire: Lucia dei Promessi Sposi è una troia è un'interpretazione sbagliata"

Michela Marzano ha accusato Walter Siti, attraverso le pagine di Repubblica e durante un dibattito pubblico alla Fiera del Libro di Milano, di avere dato dignità letteraria all’inferno dell’essere umano. Di avere nominato e citato il male, l’orrore non solo di un uomo che prova un desiderio sessuale per i bambini, e dedica tutta la vita a sconfiggere, o piuttosto a reprimere, questo desiderio, ma anche l’orrore più vago, indeterminato ma assolutamente reale: la foto del piccolo Aylan, morto bocconi su una spiaggia turca, e usata per commuovere, per indignare, per testimoniare il male del mondo, è stata oggetto, nell’inferno più profondo e sfacciato, forse anche meno retorico di quanto lo sia la ferocia del bene, di mostruosi commenti, che per molti non dovrebbero avere dignità di esistenza e forse anche peggio letteraria, dovrebbero restare laggiù, nel web profondo insieme ai proclami per l’Isis, insieme all’indicibile.

   

Walter Siti invece si è infilato laggiù in fondo, ha preso l’orrore su di sé e l’ha messo nel suo ultimo romanzo, “Bruciare tutto” (Rizzoli): ha così scatenato un mondo nuovo di polemiche culturali e tentazioni di talk show. “Però seducente questo Aylan con il culetto all’insù – qualcuno può postare una foto di quando il papà gli ha tolto i calzoncini?”. “Sono uscito da quelle giornate nel deep web stravolto, ma non ho mai pensato di dovere censurare quelle parole: l’inferno rimosso fa ancora più male. E come scrittore ho un’idea molto precisa sulla sfida del negativo, che la letteratura deve accettare. Non sono d’accordo con Albert Camus: non credo che la letteratura debba diminuire il dolore del mondo”. Lo scrittore non può avere pudore, altrimenti non è uno scrittore. Ma l’essere umano? “Tirare fuori l’interdetto e metterlo nel discorso comune, fare in modo che se ne parli, è una cosa utile, proprio per non lasciarlo in un luogo in cui può prolificare”. Questo è però un pensiero di secondo grado, che attiene alla responsabilità che sempre deve accompagnare la libertà di uno scrittore, ed è un pensiero conseguente alla forza di una polemica nata da un romanzo sulla disperazione dell’essere umano, un romanzo in cui la pedofilia compare a pagina centosettanta, come tormento esistenziale e come prova divina (“tu Dio mi hai messo in questa difficoltà e io ti sfido correndoti fra le braccia”, dice Leo, il prete che invoca, chiede risposte, che dice: tu adesso vieni giù e mi spieghi, perché devo portare questo macigno?): Walter Siti nella sua casa milanese, seduto in poltrona, circondato dai suoi libri e dagli oggetti, distratto e scontroso (mi chiama “Annalisa”, eppure a Procida alcune estati fa dormivamo nello stesso albergo, lo accompagnavo in motorino di notte per le strade sterrate ed era costretto a fidarsi di me), dice di non aver misurato, mentre scriveva, la forza di questo tabù. “Una studentessa delle mie lezioni di letteratura allo Iulm si è alzata in piena crisi, piangendo tantissimo, e mi ha detto proprio quello che io adesso mi trovo a combattere: che della pedofilia non si deve parlare e basta”. Non aveva misurato forse la portata dello sconvolgimento, ma uno scrittore sa, quando scrive di un prete che ha fatto sesso con un ragazzino di undici anni di borgata, e dedica questo romanzo “all’ombra ferita e forte di Don Lorenzo Milani”, che lo sconvolgimento arriverà, e arriverà anche senza leggere il libro, senza mai scoprire che dentro “Bruciare tutto” c’è la tragedia degli esseri umani, il bisogno confuso di una scelta estrema, di una rivoluzione, l’impossibilità di salvarsi in un mondo in cui l’umanesimo non basta più, non spiega più niente.

     

"Mio padre non mi ha mai dato un solo abbraccio: si vergognava, niente smancerie. E io mi sentivo superiore a lui"

“Penso che uno scrittore debba affrontare tutto il negativo che la sua ispirazione lo porta ad affrontare, penso però che come cittadino debba affrontare tutte le conseguenze di questa ispirazione. Ma, anche se la letteratura ammette infinite interpretazioni, e un libro è di chi lo legge, questo non significa che ogni interpretazione sia buona. Alcune interpretazioni non sono ammesse. I Promessi Sposi offrono tantissime interpretazioni e non si finirà mai, ma nessuno può dire: Lucia è una troia. Perché non è un’interpretazione ammessa dal testo. E nel mio libro non è rintracciabile che io sia un difensore della pedofilia né che ritenga, come ha scritto Michela Marzano su Repubblica, che il mio prete avrebbe dovuto fare sesso con quel povero bambino che glielo chiede e che lui rifiuta. Io non sono il mio prete, ovviamente, ma nemmeno il mio prete pensa davvero una cosa simile, e nessuno che abbia davvero letto il libro può pensare che il motivo del suicidio del piccolo Andrea sia il rifiuto sessuale di don Leo. Non accetto l’idea che il mio libro venga ridotto alla tesi che bisogna andare a letto con i bambini per salvarli. Ma questo mi sembra proprio l’abc della letteratura: il fatto che in un romanzo esistano delle parole non significa che io sia quelle parole”. Poiché stiamo parlando di indicibile e di confusione fra lo scrittore e il suo romanzo, e fra un uomo e il suo tormento, parliamo anche della confusione dentro l’abisso del desiderio di un essere umano: “Questa è un’altra cosa che io non riesco a spiegare: sembra che il pedofilo in quanto pedofilo debba per definizione essere attratto da non importa quale bambino, e quello un po’ mi ricorda quando io ero giovane, e si parlava di omosessualità in termini diversi da quelli di adesso e alcune mie amiche anche in buona fede, caritatevoli, mi facevano incontrare degli uomini orrendi, dicendo forse vi intendete perché siete omosessuali tutti e due. Il mio prete, Don Leo, non è affatto attratto da Andrea, il desiderio lo riassale attraverso un’altra strada”. Il desiderio di un prete con un’autentica e conflittuale fede in Dio, che affronta il ritorno delle ossessioni come si affronta una grandinata, aspettando che passi, e che infine confonde il martirio con la disperazione, e che sempre chiede a Dio una risposta, una punizione, una soluzione estrema. Che ascolta il tormento degli esseri umani nel confessionale, e fa fatica a perdonarli perché non riesce a perdonare se stesso. Che dice: se ci fosse un luogo dove Dio non esiste io ci andrei di corsa. Che può confessare l’abisso solo a Dio, e al suo scrittore che l’ha creato e quindi è Dio.

    

“Sei intero e la lotta è ancora lunga: ma è vero che non posso più proteggerti con gli omissis, reggerti il sacco, tenerti bordone, come si dice. Ancora una o due pagine poi dovrò spiegare, dovrò raccontare: il rischio è forte – per te, che squadernerai il tuo intollerabile abisso, per me che come autore brucerò un lavoro molteplice al fuoco di un unico tema. Non posso dire di volerti bene, ora, anzi provo per te un’inticchia di risentimento (come tu verso di me); ma sei nato dalla mia testa, senza sdolcinatezze ci apparteniamo e siamo obbligati, lo sai. Coraggio Leo, hic sunt leones”.

   

Walter Siti prepara i lettori all’abisso di Leo, e prende le distanze, e quindi sa a che cosa va incontro: “Quando nel Seicento Moliére scrive Tartufo, e dà a Tartufo tutte le affermazioni tremende rispetto alla Chiesa, nel manoscritto c’è un asterisco fatto da lui che dice: è un ipocrita che parla, per mettere in chiaro le cose”.

    

"Non sono d'accordo con Albert Camus: non credo che la letteratura debba diminuire il dolore del mondo"

Quindi Siti era stato accorto, sapeva che cosa sarebbe successo, in fondo anche dopo si è adeguato allo spettacolo dell’indignazione su Don Milani. “No, non credevo che si sarebbe scatenata questa pazzesca cosa su Don Milani, perché fin dall’inizio io ho preso la mia dedica come un omaggio a Don Milani”. Ma a Repubblica ha detto: “Se ho sbagliato mira chiedo scusa”, quindi è sembrata una ritrattazione di qualcosa che non era un omaggio. “Io ho dovuto rispondere a domande palesemente aggressive, ma quelle lettere di Don Milani per me raccontavano un tormento: “E chi potrà amare i ragazzi fino all’osso, senza finire per metterglielo anche in culo, se non un maestro che insieme a loro ami anche Dio e tema l’Inferno e desideri il Paradiso?”, e l’altra è: “E so che se un rischio corro per l’anima mia non è certo quello di aver poco amato, piuttosto di amare troppo, cioè di portarmeli anche a letto”. Io di fronte a queste due frasi avevo capito il senso della ritorsione paradossale, visto che faccio questo di mestiere, però il tipo di interpretazione che ho dato io, è che in questo sforzo di sublimazione che Don Milani indubbiamente ha fatto su di sé fosse rimasto una specie di residuo linguistico inerte e che questa insistenza sul tema e con frasi così precise fosse il segno che pensieri di questo genere lo avevano attraversato, come i resti di una battaglia superata. Dopodiché, se espertissimi di Don Milani dicono che quello è solo un modo toscano di parlare, che non c’è alcun legame con pensieri di tipo sessuale che abbiano attraversato la mente di Don Milani, allora la mia dedica potrebbe essere davvero fuori bersaglio, ma è tutto legato a un ‘se’, ed è un ‘se’ che non si potrà mai dire, perché i pensieri sono rimasti chiusi dentro la sua testa”.

       

Sembra ballare, dentro questo libro, la fine dell’umanesimo. “La sfiducia nell’umanesimo sicuramente. Se c’è un senso è proprio che non ci sono in questo momento parametri che possano consentire all’uomo di stare al centro della storia e di capirla. Sono finite tutte le narrazioni che concedevano all’uomo come se fosse un architetto o un regista di capire che cos’è vivere su questa terra. Avevo ventun anni nel Sessantotto e ho coltivato l’illusione che con la ragione si potesse spiegare tutto, che potesse essere la guida, adesso mi sembra che non sia più così, e che in questa crisi violenta rimangano solo le interpretazioni estreme, i desideri estremi, le ossessioni forti”. “I personaggi di “Bruciare tutto” hanno ossessioni: quando realizzi un’ossessione, anche molto bassa, anche sessuale, il mondo non esiste più, l’hai messo tra parentesi, c’è un assoluto anche molto volgare che ti domina, e in qualche modo questo assoluto è legato all’assoluto spirituale, alla voce che arriva dall’alto”. Questi personaggi cercano di salvarsi, ma non ci riescono, cercano la temperatura giusta, non la trovano: sopravvivono solo i tiepidi, quelli per i quali vivere è abbastanza. Agli altri non resta che bruciare tutto. E’ una tragedia dell’umano, rappresentata dalla storia straziante di Andrea, che va alle scuole elementari, ha bisogno di amore e dice: i piccoli sono grandi e i grandi piccoli, e vede solo dolore davanti a sé, e suo padre vuole portarlo in Brasile e gli consegna tutti gli incartamenti del tribunale dei minori per l’affidamento. “Sono stato male come un cane mentre scrivevo di Andrea, perché gli volevo proprio bene”, dice Walter Siti, e anche adesso gli si inumidiscono gli occhi, e lui che non crede in Dio e forse nemmeno molto più negli uomini, dice: “Il vero problema per me, che sono tanto interessato alla religione, dell’aderire a Dio Padre, non è tanto Dio, è il padre”.

     

 Don Leo può confessare il suo intollerabile abisso di desiderio per i bambini solo a Dio, e allo scrittore che l'ha creato, che diventa Dio

I padri in questo romanzo sono cattivi padri: inesistenti, indifferenti, distratti, violenti: la vita nuova arriva già guastata, quindi, affannata, bisognosa di assoluto. “Papà, no!” sono le ultime parole del protagonista di “Bruciare tutto”. “E mi sono uscite così, di getto, dal profondo: sottintendono una violenza e un’angoscia che io non ho mai subito da mio padre, un uomo bravissimo, onesto, serio, buono. Però non ricordo da lui un solo abbraccio, un solo gesto d’affetto: si vergognava, niente smancerie. Ma quel che mi ha fatto mancare il padre è stato il fatto che io, a partire dai sei anni, mi sentivo superiore a lui. Mi portò una volta a vedere il Modena allo stadio, lui era tifosissimo e esultava, si alzava in piedi, gridava. Io mi ricordo solo una grande vergogna, mi ricordo che stringevo i pugni, chiudevo gli occhi e ripetevo: questo non è mio padre”. Ma nella libreria c’è una foto in bianco e nero di un bambino in calzoncini corti, Walter Siti, con un uomo accanto. Era lui tuo padre? “No, lui era mio zio, un uomo molto silenzioso, il fratello giovane di mia nonna, sparito nelle guerre d’Africa, poi tornato, magrissimo: si è messo a fare l’orologiaio, non avendo mai rapporti con nessuno e nessun rapporto con donne. Io andavo a casa sua quando lui non c’era, per stare tranquillo, leggere, giocare con i pezzetti di orologio. La sera mi prendeva per mano e mi faceva vedere lo Sputnik, il primo satellite sovietico, che si vedeva come se fosse una stella che si spostava. Credo che fosse omosessuale, anche se non ne abbiamo mai parlato, ma negli anni del liceo compravo le riviste con uomini nudi e le nascondevo a casa sua sotto pile di libri. Sono sicuro che le abbia trovate, ma non ha mai detto niente né a me né ai miei genitori. Poco prima di morire, in ospedale, ha voluto parlare solo con me, mi ha preso la mano e ha detto: “Walter, ricordati però una cosa: nella vita fai tu quello che ti senti di fare e fregatene di quello che dice la gente”. Questo, allora, è un padre.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.