Il palazzo delle Assicurazioni Generali a Praga nei primi anni del Novecento, quando per alcuni mesi vi lavorò anche Franz Kafka

Il Leone non si doma

Stefano Cingolani

Intesa Sanpaolo rinuncia a Generali. Salta il progetto di creare un campione nazionale bancario-assicurativo. È andata così

Il grande gioco s’è chiuso. Poteva essere davvero grande, addirittura il più grande da dieci anni a questa parte. Doveva diventare un segnale di ripresa che viene dalla demonizzata finanza e dalle esauste banche, un gettare il cuore oltre la malìa della depressione che attanaglia gli italiani e li spinge verso il pozzo nero del declino. La crusca del diavolo si trasformava in speranza, il denaro riprendeva a circolare, il cervello collettivo del capitale (con licenza di Toni Negri e Mario Tronti) muoveva di nuovo le sue rotelle. Invece tutto è saltato. Tre giocatori davano le carte attorno al tavolo, cioè Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, la prima banca italiana per valore di Borsa che ha perso la partita; Philippe Donnet, il manager francese capo azienda delle Assicurazioni Generali, e Alberto Nagel che guida Mediobanca. Ebbene si può concludere che il Leone di Trieste ha dato la sua zampata (o il suo colpo di coda, a seconda dei punti di vista), ma ha portato a casa la posta.

 

Non tutto è stato inutile possono dire gli uomini di Intesa, anzi molte partite minori, ma non per questo meno importanti restano aperte o si potranno aprire. Tuttavia il progetto di creare un campione nazionale a prova di bomba, concepito da Messina, non è andato in porto. Restava in teoria la possibilità di creare un reticolo di alleanze e sinergie industriali tali da creare valore (cioè profitti per gli azionisti) e trattenere il risparmio degli italiani che in questi anni è stato bruciato per difendere il tenore di vita, messo sotto il materasso o fuggito verso altri lidi (ben 220 miliardi secondo le ultime stime). Ma nemmeno questo ha preso quota. In una nota diffusa ieri a mercati chiusi, Intesa Sanpaolo ha spiegato di aver “completato le valutazioni di ipotesi riguardanti possibili combinazioni industriali” con Generali e “alla luce delle analisi condotte in base alle informazioni allo stato pubblicamente disponibili”, non ha “individuato opportunità”.

 

Tutto è precipitato quando sembrava che le cose stessero entrando nel vivo. Gabriele Galateri di Genola, presidente delle Generali, venerdì 17 febbraio aveva acceso un lumicino: “Non ho preclusioni su Intesa Sanpaolo. Se ci fossero ipotesi di collaborazioni industriali valide che riflettano anche un po’ le regole del gioco della governance in termini di chiarezza e trasparenza, le valuteremmo”. Sarà una coincidenza, ma il giorno prima era stato a colloquio con il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Tuttavia, l’accenno alla governance era un chiaro segnale: accordi industriali forse, un ingresso di Intesa Sanpaolo nell’azionariato no. Il blitz della banca milanese, del resto, era stato spiazzato dalle indiscrezioni filtrate sui giornali e da una contromossa della compagnia di assicurazioni. Si trattava, ormai, di mettere in campo un piano B che consentisse di uscire dallo stallo approfittando anche deI cambio di fase nella politica monetaria con i tassi d’interesse in risalita (un punto in tre mesi) può essere un balsamo. Se si torna alla normalità, chiudendo l’èra del denaro gratis e abbondante, grazie alla ripresa, a un po’ d’inflazione e a un nuovo orientamento della Federal Reserve e della Bce, banche e assicurazioni diventano più attraenti, sottolineano gli analisti di Tenax Capital. Ma Intesa Sanpaolo ora dice che «accrescerà per via endogena la creazione e distribuzione di valore per i propri azionisti, preservando la leadership di adeguatezza patrimoniale, secondo linee d’azione che saranno alla base del prossimo Piano di Impresa». E le Generali, andranno anche lei avanti da sole?

 

Mettiamo in fila i fatti, come insegnavano i vecchi arnesi del mestiere. Il primo rumor lo raccoglie La Stampa che spara lo scoop il 22 gennaio: “Intesa Sanpaolo e Allianz interessate alle Generali, l’ad Messina prepara un’operazione straordinaria su Trieste”. L’ipotesi è una offerta pubblica di scambio (parzialmente smentita o ridimensionata da Intesa) che potrebbe portare la banca milanese a detenere fino al 60 per cento del Leone di Trieste, per cedere poi alla compagnia tedesca alcuni pezzi sia per placare i guardiani della concorrenza sia per concentrarsi sui rami più funzionali alla nuova strategia bancario-assicurativa. Il 23 le Generali corrono ai ripari e prendono in prestito il 3 per cento dei diritti di voto di Intesa per stoppare, a norma di legge, ogni scalata ostile. Nei giorni seguenti i giocatori sono chiamati dalla Consob e spiegano le loro intenzioni a Giuseppe Vegas e ai suoi controllori della Borsa. Il 26 gennaio Messina parla a Torino per il decennale della fusione con il Sanpaolo e annuncia ufficialmente l’interesse per la crescita nell’asset management ponendo le condizioni per una eventuale aggregazione che non dovrà mai avvenire a scapito degli azionisti e della solidità patrimoniale della banca. Nagel, che con Mediobanca possiede il 13 per cento ed è il primo azionista delle Generali, annuisce: “La statistica dice che operazioni non concordate sono molto più costose e pongono un rischio di esecuzione”. La risposta di Generali che ha trasformato il prestito in partecipazione stabile nel capitale di Intesa Sanpaolo, ha chiuso la strada a ogni operazione unilaterale. Ma che cosa avevano in mente Messina e Andrea Orcel, co-amministratore delegato della banca d’investimenti di Ubs (Unione banche svizzere) che gli fa da spalla? Orcel, anche lui romano e romanista, ha orchestrato una gran quantità di fusioni prima della crisi (Unicredit-Hvb, Capitalia, la stessa Intesa-Sanpaolo) e questo sarebbe stato senza dubbio il coronamento di una carriera da deal maker.

 

A differenza dalla rivale Unicredit che Alessandro Profumo ha proiettato verso la Mitteleuropa, Intesa Sanpaolo, fondata da Giovanni Bazoli partendo dal Nuovo Banco Ambrosiano, resta sostanzialmente domestica e si caratterizza subito come un pilastro di sistema. La definizione non piace del tutto ai banchieri di Ca’ de Sass (come si chiama il palazzone un tempo sede della Cariplo), preferiscono parlare di una banca consapevole degli interessi nazionali. Alcune operazioni difensive note e controverse, per esempio il salvataggio dell’Alitalia, si debbono proprio al ruolo attivo di Intesa allora gestita da Corrado Passera il quale non è affatto pentito. Ma i vertici della banca si sentono orgogliosi di tante altre operazioni imprenditoriali, come la Piaggio o la Riello, tanto per citare due esempi di marchi industriali di prestigio.

 

Nonostante tutto questo risiko, Intesa Sanpaolo non ha mollato il vecchio mestiere: prestare denaro a imprese e famiglie. La crisi ha colpito anche lei e ha accumulato crediti deteriorati per 32 miliardi netti, ma ha la possibilità di lavare in casa i panni sporchi, come fa del resto Unicredit. Quando spunta il fondo Atlante per liberare dalle sofferenze le banche non in grado di smaltirle, aderisce subito con un miliardo di euro. Ci crede molto Giuseppe Guzzetti il quale, con la Fondazione Cariplo, è il secondo azionista di Intesa dopo la Compagnia Sanpaolo e ha contribuito a far nascere il fondo Quaestio guidato dall’economista Alessandro Penati, un liberista cattolico formatosi a Chicago che ha insegnato all’Università Cattolica di Milano. Atlante non ha funzionato e non è l’unica sconfitta; ma nei giochi di potere della finanza e dell’industria, Intesa ha messo a segno due risultati importanti, entrambi a scapito dell’arcirivale Mediobanca: la conquista di Impregilo da parte della Salini sconfiggendo i Gavio e l’acquisizione della Rizzoli Corriere della Sera sostenendo Urbano Cairo.

 

La banca è riuscita a superare la crisi finanziaria del 2008 e la lunga recessione. Lo scorso anno ha distribuito agli azionisti utili per 3 miliardi di euro e quest’anno vorrebbe aumentare i dividendi a 4 miliardi. In borsa capitalizza 35 miliardi (Unicredit appena 7,39 miliardi ai quali s’aggiungono i 13 raccolti sul mercato), il titolo in un anno orribile per le società finanziarie italiane ha perso solo il 10 per cento  Ma è una banca ordinaria e oggi con il mestiere tradizionale non si fanno più utili. Lo dimostra proprio Mediobanca, anche lei solida dal punto di vista patrimoniale e profittevole, che si è trasformata offrendo servizi diversi in sintonia con il trend emerso in questi anni. Un decennio di denaro abbondante con tassi d’interesse persino sotto zero, ha eroso i margini di guadagno. Il credito sta diventando una commodity, come il petrolio, l’energia elettrica, il grano. Chiunque ormai offre un prestito, dal tabaccaio al farmacista, da Apple alla Peugeot. In questo ambiente iper-concorrenziale, vince chi si specializza e chi ha costi di produzione molto bassi, non le banche grandi e spesso ipertrofiche. Bisogna trovare nuovi campi d’azione e, nonostante tutto, le polizze promettono buoni frutti; si pensi solo all’invecchiamento della popolazione e alla crisi dei sistemi pensionistici.

 

L’operazione, insomma, poteva avere un senso industriale, anche se erano emerse forti perplessità sulla bancassurance modello francese o tedesco. Queste conglomerate hanno funzionato fino al 2007 poi con la crisi finanziaria sono fioccati i divorzi, a cominciare da Allianz e Commerzbank. Inoltre, un matrimonio tra Intesa e Generali avrebbe portato in dote ben 180 miliardi di titoli di stato stringendo le due società in un abbraccio micidiale. Tuttavia, l’integrazione poteva essere diversa da una fusione tradizionale. La banca milanese è una holding che guida attività diverse e ciò consente di creare un campione nazionale del risparmio gestito che abbraccia sia chi accende una polizza sia chi compra azioni e obbligazioni. Anche se i dubbi non mancano. Finora operazioni del genere si sono dimostrate difficili sul piano organizzativo. Mettere insieme Generali con Sanpaolo Vita (quarta compagnia italiana) crea uno squilibrio interno (la prima è cinque volte più grande) e un problema esterno perché verrebbe superato il 30 per cento del mercato. Se si dovevano vendere pezzi importanti della compagnia triestina (alcuni analisti ipotizzavano attività fra gli 8 e i 10 miliardi di euro) magari a Allianz o a un’altra concorrente, l’effetto boomerang sarebbe stato immediato. Secondo JP Morgan “a questo stadio è difficile capire quanto valore si può creare”. In realtà, collaborazioni redditizie esistono non solo nelle assicurazioni sulla vita, ma nei danni. Si pensa sempre all’auto, però eventi come il sisma e le detrazioni fiscali concesse per chi si assicura hanno risvegliato un mercato dormiente.

 

Tolta di mezzo l’offerta pubblica di scambio, dunque, c’era da esplorare un ampio spettro di accordi e integrazioni. Tuttavia Intesa Sanpaolo avrebbe dovuto rinunciare all’ingresso nel capitale della compagnia triestina con una quota significativa. I soliti maligni di piazza Affari avevano ipotizzato almeno il 14 per cento un punto in più di Mediobanca la quale deve a Generali una gran parte dei suoi stessi profitti annui: tra alti e bassi la quota s’aggira sul 40 per cento. Basti dire che nel bilancio 2015 calcolato da R&S (l’ufficio ricerche e studi della stessa Mediobanca), su utili netti per 321 milioni di euro ben 138 provengono dalla compagnia triestina.

Il nocciolo proprietario si sarebbe rafforzato mettendo al riparo il Leone da predatori più forti (la francese AXA e la tedesca Allianz hanno almeno il doppio delle munizioni), ma nel consiglio di amministrazione sarebbero entrati i rappresentanti di Intesa Sanpaolo, sedendo allo stesso tavolo di Mediobanca e influendo sulla scelta degli uomini al comando. Nagel, però, contava che soci come Del Vecchio, Caltagirone, la Cassa di Risparmio di Torino, la De Agostini non si sarebbero tirati indietro. Il Leone di Trieste intanto non s’era affatto addormentato al sole del lungomare. Anzi, come azionista rilevante di Intesa, attualmente è al terzo posto dopo la Compagnia di Sanpaolo e la Fondazione Cariplo. Donnet che da giovane giocava a rugby non ha avuto affatto paura della mischia né di spingere con tutte le sue forze come faceva quando vestiva la maglia da terza linea. Adesso bisogna capire se resterà nel capitale della banca o ci sarà una separazione netta come sembra probabile.

 

Dal gioco si sono tirate fuori le grandi rivali, a cominciare da Axa (“una fusione con le Generali non ha senso”, ha dichiarato) e da Allianz, mentre è rimasta al balcone Zurich (guidata da Mario Greco uscito con amarezza da Trieste un anno fa). Unicredit che a sua volta è la prima azionista di Mediobanca seguita a una incollatura da Vincent Bolloré, ha portato a termine con successo il mega aumento di capitale. L’amministratore delegato Jean-Pierre Mustier, vincitore di una sfida da far tremare i polsi, dopo aver messo in cassaforte i 13 miliardi, ha preso posizione nella partita dicendo che la compagnia triestina sarebbe restata italiana, nessuno l’avrebbe insidiata. Un segnale che anche Unicredit, rafforzata dall’operazione, era pronta a giocare le sue carte. Il triangolo con Mediobanca e Generali, così, si è chiuso di nuovo e diventava impossibile a questo realizzare il grande progetto. Mustier si è recato a Palazzo Chigi per illustrare con soddisfazione a Gentiloni il successo nell’aumento di capitale. Il capo del governo ha espresso il suo cruccio che uno dei pochi campioni europei rimasti in Italia non finisse anche lui all’estero, come è successo ultimamente a Del Vecchio (a proposito degli azionisti di Generali) con l’acquisizione di Essilor. Il banchiere francese l’ha tranquillizzato. Messina deve essersi sentito più solo.

 

L’interesse nazionale resta il leitmotiv di Intesa Sanpaolo, l’internazionalizzazione è la filosofia che guida Mediobanca, l’indipendenza è il problema fondamentale a Trieste. Ma l’indipendenza costa cara e se nessuno è disposto a pagarne il prezzo, inutile poi fasciarsi la testa. lo stesso Cuccia a chi, nel bel mondo antico del capitalismo familiare, gli chiedeva di essere protetto senza mettere il becco di un quattrino, ricordava con ironia il mitico articolo quinto: chi ha i soldi ha vinto. Mediobanca e gli altri azionisti delle Generali lo sanno bene. E sanno che la compagnia è condannata a crescere, guai se non la sosterranno a dovere.

Di più su questi argomenti: